La mia anima di fiamma gemella

Cuore
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Ecco la storia più votata dalle lettrici per il numero 35 di Confidenze: un racconto d'amore e di segni del destino

Uno pseudo-veggente mi aveva predetto l’amore. Proprio a me, che a 40 anni pensavo di aver chiuso con gli uomini. Dopo pochi mesi mi misi con Carlo, era lui quello giusto? Dovevo solo scoprirlo

storia vera di Emma G. raccolta da Irene Zavaglia

Dall’Eresiarca mi ci aveva portato la mia amica Sandra. Avevo sentito parlare di questo strano personaggio dal soprannome ambiguo che esercitava in uno dei quartieri più benestanti di Roma appena qualche giorno prima, esattamente dalla mia amica che ne aveva tessuto lodi altissime.

Dell’Eresiarca si raccontava fosse il giovane rampollo di una nobile famiglia marchigiana che aveva sviluppato dei poteri speciali dopo un tragico evento della sua prima infanzia. Nessuno ne aveva la certezza, nessuno poteva smentire. L’unica verità era che tutta la Roma bene aveva trovato in lui una sorta di stregone in grado di spillare fior fiori di quattrini a suon di benefiche previsioni che vertevano sul futuro del conto in banca e su quello del cuore. Perché, si sa, alla fine i soldi chiamano soldi e sono in grado di prevedere tutto, persino l’amore.

Sandra aveva deciso di contattare l’Eresiarca dopo una serie di storie finite male. In quel momento della sua vita tentava disperatamente di attirare l’attenzione di uno dei soci dello studio di avvocati dove lavorava, un tipo strano che si accorgeva di lei solo quando c’erano delle pratiche urgenti da sbrigare, ma che, a detta sua, in quei frangenti le lanciava occhiate da lasciarla senza fiato.

«Io so che è l’uomo della mia vita» aveva blaterato una sera davanti al terzo spritz, «serve solo la spintarella giusta, magari due goccine di elisir confezionato a dovere. Vedrai che l’Eresiarca troverà la formula giusta».

Avevo evitato di dire apertamente cosa pensassi dell’intera faccenda: per quanto mi riguardava, Sandra avrebbe potuto elargire metà del suo stipendio direttamente a me e allo stesso prezzo io le avrei preparato per anni ettolitri di intrugli alcolici con cui stendere a dovere qualsiasi uomo e convincerlo di qualunque verità. Ero pur sempre cresciuta in una taverna delle periferie romane, dove avevo visto i miei genitori servire vino a sazietà e far scoccare le frecce di cupido tra avventori sulla cui affinità nessuno avrebbe scommesso un centesimo.

«E se lo portassi a bere?» avevo buttato lì timidamente.

«Chi, Gianrico? Sei matta, Emma? È un uomo distinto, un avvocato di successo, è necessario l’intervento di un professionista» s’era schermita lei.

Eravamo dunque andate all’appuntamento con l’Eresiarca alle prime luci dell’alba della terza domenica di maggio, così com’era stato prestabilito per la mia amica. La residenza del mago sostava appartata in uno dei quartieri più belli di Roma e sembrava un’oasi di spiritualità messa lì per la pura follia architettonica di un visionario.

Gli intonaci della facciata erano dipinti di un azzurro iridescente, nel cortile interno si intravedeva una statua raffigurante una mummia egizia dall’aspetto sinistro, mentre la riproduzione scolpita nella pietra e a grandezza naturale di un elefante con la proboscide alzata indugiava davanti alla porta di ingresso come a testimoniare che la casa fosse adeguatamente protetta da qualsiasi energia negativa umana o ultraterrena che fosse. I cancelli d’entrata erano infine sprangati ciascuno con un lucchetto. «E ora da dove entriamo?» avevo chiesto chiaramente in ansia. Pure Sandra appariva spaesata, suppongo che se non avesse veramente tenuto all’insostituibile avvocato avremmo girato i tacchi e ce ne saremmo tornate da dove eravamo venute. Invece, subito dopo aver suonato all’unico citofono disponibile, il click di un cancelletto mimetizzato nel verde di una pianta rampicante era stato un chiaro invito a farsi avanti. Entrando mi era venuto spontaneo farmi il segno della croce: a me quel posto non piaceva per niente, mi inquietavano le pompose statue messe lì apparentemente per caso.

L’accesso all’interno della villa non serviva a smorzare il disagio: gli ambienti erano immersi in una penombra soffusa e accoglievano una mole di oggetti simbolici palesemente di valore.

«Benvenute».

La voce dell’Eresiarca si era materializzata dal nulla. A una prima occhiata dava l’idea di un giovane uomo un po’ malaticcio che aveva conservato alcune espressioni infantili. Nel complesso niente di così sconvolgente, persino il semplice jeans e la T-shirt che indossava non gli rendevano onore: io uno stregone come si deve l’avevo sempre immaginato agghindato minimo da una lunga tunica e con un turbante in testa. «Vi stavo aspettando. Venite, sono pronto per la seduta». Lo avevamo seguito in uno studio poco illuminato al piano terra.

«Hai visto?» mi aveva sussurrato Sandra all’orecchio, «sapeva già che eravamo in due, che tu mi avresti accompagnata. Non è strabiliante?».

Di strabiliante in tutta quella storia era che io non avessi dato retta al mio scetticismo e avessi deciso di appoggiare Sandra in quella buffonata. In ogni modo, il nostro sedicente mago non aveva perso tempo con gli effetti speciali. Appena richiusa la porta dello studio alle sue spalle, una sfilza di candele allineate su una mensola si erano letteralmente accese da sole in seguito a una strana corrente che aveva attraversato la stanza.

Lui si era avvicinato e aveva messo una mano sulla spalla di Sandra, l’espressione del viso impassibile. «Tu non sei ancora pronta a trovare il cuore che ti appartiene, ti concederò delle preghiere per lo spirito e un estratto di fiori di Bach che ti aiuti a comprendere i tuoi desideri» aveva detto con una voce lontana, priva di pathos. Fiori di Bach? Persino l’erboristeria sotto casa avrebbe potuto spacciarceli e a molto meno!

Avevo tossicchiato, sperando che la mia amica a quel punto si inventasse una scusa per andare alla toilette a rivedere la cifra dell’assegno pronto per l’Eresiarca. Ma lo spettacolo non era ancora finito. In quello stesso istante, il veggente aveva afferrato le mie mani e si era cambiato in faccia. «Io non ho chiesto nessun consulto, sono qui solo per accompagnare lei» avevo farfugliato a disagio.

Come tutta risposta, il mago aveva attanagliato ancora di più le mie mani e, ne ero certa, aveva rovesciato gli occhi per alcuni attimi, come se fosse caduto in una specie di trance. «Sta arrivando la tua anima di fiamma gemella, non sarà semplice, lavorerete insieme, se avrai la forza riuscirai a riconoscerla e poi a non farla andare via».

«Scusi, non è che si sta sbagliando e ci ha confuse? Sono io quella che lavora insieme alla persona del cuore» era intervenuta Sandra.

L’Eresiarca si era ridestato come da un sogno, ci aveva osservato distante, quasi fossimo diventate di troppo. «È meglio aver amato e perso che non aver mai amato affatto» aveva balbettato sofferente, senza un nesso. Poi si era premurato di consegnare nella mani di Sandra dei fogli scritti con una grafia minuscola e una bottiglia che sembrava contenere della semplice acqua. Lei si era limitata a lasciare sulla scrivania il compenso che avevano prestabilito e avevamo ripreso la via dell’uscita, senza che questa volta il nostro ospite si degnasse di scortarci.

«Spero che adesso ti sarai convinta della disonestà di questi personaggi che si arricchiscono sulle debolezze del prossimo» avevo decretato una volta fuori. Sandra aveva fatto spallucce.

«Intanto a te sta arrivando la tua anima di fiamma gemella» aveva detto imbronciata. Certo, come no: arrivava giusto a 40 anni, dopo un divorzio, la mia completa disillusione sugli uomini e la ferma convinzione che la solitudine sentimentale era la più felice delle spiagge. Per non parlare del lavoro: gestivo da anni la piccola merceria che avevo ereditato da mia mamma, non avevo nessuna intenzione di assumere anime gemelle a lavorare per me! Avevo piantato Sandra con le sue delusioni da previsioni scadenti e mi ero ripromessa di non presenziare mai più a sceneggiate come quella a cui avevo appena assistito. Era una domenica bella ed assolata, l’ultima domenica veramente serena della mia vita di quel periodo.

Nei mesi che seguirono ciò che accadde rase al suolo la mia esistenza. La merceria venne distrutta da un incendio divampato a causa di un corto circuito che la divorò senza quasi lasciarne traccia. Piansi molto di quella disgrazia, l’assicurazione avrebbe coperto un decimo dei danni: non avevo più un’occupazione con cui sostentarmi, non avevo più il negozio che, insieme alla taverna della mia infanzia, aveva rappresentato il fulcro da cui ripartire. Incominciarono i miei pellegrinaggi per le banche e le agenzie di prestito: ero troppo povera per riuscire a venirne fuori e ripartire da zero. Mi isolai dentro i confini della mia egoistica disperazione, dovetti anche lasciare il mio appartamento le cui spese erano diventate eccessivamente alte.

Tornai a vivere da mio padre, cosa che servì ad acuire ancora di più la mia tristezza. Solo Carlo, uno dei miei amici più cari, mi rimase accanto spronandomi e allontanandomi dal mio torpore. Io e Carlo ci conoscevamo da tempo, era pure un bel ragazzo, lo avevo sempre considerato alla stregua di un fratello, ma in quel frangente mi aggrappai a lui con occhi diversi. In autunno Carlo arrivò da mio padre con una proposta allettante: un’importante azienda che operava nel mondo del marketing apriva i battenti a nuove selezioni, perché non provare entrambi e ricominciare con una vita lavorativa nuova? Non ero mai stata una dipendente, ma qualcosa dovevo pur inventarmi per uscire dall’impasse in cui ero sprofondata.

Mi lasciai trascinare in quel nuovo progetto. Carlo mi regalò manuali appropriati a sostenere un colloquio, prese a studiare insieme a me le strategie aziendali più vincenti, preparammo insieme prove scritte di logica e test di intelligenza attitudinale.

Ero così preparata che il giorno in cui sostenni la selezione il responsabile delle risorse umane mi informò all’istante che sarei stata assunta. Felice buttai le braccia al collo di Carlo che mi aspettava davanti alle sede aziendale e lui di contro mi sollevò tra le braccia e mi stampò un piccolo bacio sulle labbra. «Anche io l’ho passato» mi mormorò emozionato. «Lavoreremo insieme».

In quel preciso momento, mi ricordai della profezia dell’Eresiarca. Allora era Carlo la mia anima di fiamma gemella, era lui che sarebbe arrivato e avrebbe ribaltato la mia vita? Un brivido mi percorse la schiena, scacciai dalla testa quel pensiero: era solo una casualità, non dovevo lasciarmi suggestionare. Però con Carlo ci stavo bene: era attento, premuroso, responsabile e se la cavava egregiamente pure a letto. Subito dopo essere stati assunti entrambi nell’azienda che avevamo tanto sognato, mi chiese di sposarlo. Cosa potevo desiderare di più? La mia carriera lavorativa era di gran lunga migliorata e io stavo per sposare la mia anima di fiamma gemella.

Chiamai Sandra per raccontarle tutto, ne rimase sconvolta e anche un filo compiaciuta. «Te lo dicevo che l’Eresiarca non era un fanfarone, adesso mi credi?». Non so se le credevo, ma ero serena, questo bastava a non pormi troppe domande.

Posai gli occhi negli occhi del ragazzo che ogni tanto incrociavo a mensa lo stesso giorno in cui Carlo iniziò a parlarmi dell’acquisto di una casa e del nostro futuro di sposi. Accadde per caso, incrociai i suoi occhi di un azzurro vivido incastonati su un viso che lì per lì avrei giudicato familiare e smisi di sentire il mio fidanzato; mi risvegliai solo quando lui, lo sconosciuto, mi accennò un sorriso continuando a guardarmi intensamente.

«Ci sei Emma? Oggi mi sembri su una nuvola» mi apostrofò Carlo. Non c’ero più. Era bastato quello sguardo, quel contatto di pochi attimi, per far nascere in me la voglia di rivedere quegli occhi, come se una forza oscura avesse all’improvviso deciso di trascinarmi in un baratro che non mi apparteneva. Iniziai a frequentare la mensa agli stessi orari, quelli in cui potevo godere della presenza di quel collega dallo sguardo magnetico. Un giorno che Carlo non era in sede, si avvicinò col vassoio del pranzo e si sedette accanto a me. Per una strana ragione che esulava da qualsiasi raziocinio, il cuore prese a battermi all’impazzata.

Si chiamava Tancredi, lavorava nel settore informatico, aveva la stessa età di Carlo ma sembrava molto più giovane, anche se si portava dietro una particolare sofferenza che gli conferiva un’aurea di antica saggezza. Fu un colpo di fulmine, tutto di lui mi attraeva: la voce, l’espressione, le mani cesellate, la bocca carnosa, la maniera di rivolgersi a me.

Ci scambiammo i numeri di telefono, per diversi giorni attesi che mi chiamasse, che mi scrivesse un messaggio, che mi desse un segno del suo interesse. Lo fece quando avevo perso ogni speranza. “Ti passo a prendere, andiamo dove vuoi” mi scrisse dal nulla, come se tra di noi fosse già normale una tale intimità. Il cuore mi salì in gola, non mi interessava di dover mentire a Carlo, d’essere vista insieme a un altro, l’emozione che provavo era più forte di qualsiasi altro impedimento. La prima volta mi portò sulla riva di un lago, lontano da occhi indiscreti, da chiunque potesse riconoscerci. Guardai la distesa lucida dell’acqua, le anatre che si beavano degli ultimi raggi di sole, i suoi occhi color del cielo che mi scandagliavano fin dentro l’anima. Pensai che non c’era stato momento più perfetto di quello in tutta la mia vita.

Dopo, quando mi baciò, dovetti ricredermi: esisteva una dimensione che si avvicinava ancor di più al paradiso, ed era tra le sue braccia, sotto le sue mani che mi carezzavano ardenti il viso, dentro la sua bocca che si fondeva con la mia. Quella stessa sera facemmo l’amore come mai l’avevo fatto con nessuno, rintanati a casa sua, mentre il mondo fuori aveva cessato d’esistere. Rimanemmo stretti l’uno all’altra per un tempo indefinito.

Decisi che non ero mai stata innamorata di Carlo, né del mio ex marito, né di nessun altro. Io avvertivo un legame profondo e inspiegabile solo verso quell’uomo insieme al quale mi sentivo nient’altro che me stessa. Quando mi accorsi che Tancredi era sprofondato in un sonno profondo, mi alzai a curiosare tra le sue cose. Era particolare, ma tutto del suo ambiente mi sapeva di familiare. Scorsi una pila di libri sul suo comodino, li esaminai uno a uno, erano saggi filosofici, un manuale sull’autostima… Poi, trattenni il fiato, mi portai una mano alla bocca: l’ultimo volume della pila era una raccolta di racconti di Apollinaire intitolato L’Eresiarca & C. Non poteva essere tutto un caso, doveva esserci un nesso in quello che mi era successo.

L’Eresiarca di Apollinaire non c’entrava nulla col mio Eresiarca, quello che avevo incontrato insieme a Sandra, eppure quel titolo era lì a ricordarmi che esattamente un anno prima uno pseudo-veggente con lo stesso appellativo mi aveva predetto l’amore. Mi strinsi il libro al petto e guardai Tancredi dormire sereno, come se finalmente la sofferenza d’animo che solitamente lo accompagnava lo avesse abbandonato.

Avevo avuto la forza per riconoscerlo, ora dovevo trovare la forza per rimettere ordine nella mia vita e non lasciarlo andare via. Perché forse era vero: “È meglio aver amato e perso che non aver mai amato affatto”.

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