La notte di Halloween

Cuore
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“Un racconto malinconico, ma in fondo sereno, che ripercorre un lungo vissuto” scrive Teresa sulla pagina Facebook per votare la storia preferita del n. 45. Ve la riproponiamo

 

È il 31 ottobre, i bambini corrono a suonare i campanelli per il rito del dolcetto-scherzetto. Quando ero giovane questa ricorrenza serviva a tenere vivo il ricordo di chi non c’è più. Ed è per questo che stasera il pensiero vola a Riccardo, mio marito, in cerca di una traccia di lui

 

STORIA VERA DI MARIA N. RACCOLTA DA SABRINA BERGAMINI

Scherzetto o dolcetto? Il viso mascherato di un bambino fa capolino da dietro la porta. «Aspettami qui» dico e un attimo dopo sono di ritorno con le mani stracolme di dolci. «Grazie mille signora» risponde il piccolo Dracula che subito si dilegua con il suo seguito di vampiri. Sorrido e rimango a osservarli mentre si dividono il bottino appena conquistato. Fuori l’aria è tagliente, il cielo scuro, povero di stelle. Del resto è il 31 ottobre, la notte delle streghe. Rientro in casa stringendomi nel mio pullover ormai consunto, vado in cucina e metto il bollitore sul fuoco. Ho sempre amato questo periodo dell’anno, la vivacità dell’estate che lascia il passo alla gentilezza dell’autunno, i ritmi frenetici della bella stagione che vengono rimpiazzati dallo scorrere lento delle giornate sempre più corte, il ritrovarsi finalmente raccolti nel tepore della propria casa. E poi i colori di questa stagione sono meravigliosi. E i suoi profumi. Gli alberi che si spogliano delle loro inutili vesti per prepararsi al freddo dell’inverno insegnandoci quanto sia importante saper lasciare quanto non ci è più necessario. Quanto potremmo imparare dalla natura se solo avessimo l’umiltà di osservare senza giudicare. Questa data, in particolare, l’ho sempre considerata la transizione definitiva nella stagione invernale, una sorta di passaggio di consegne che la natura compie in silenzio.

Quando l’acqua bolle metto in infusione una bustina di camomilla e lascio che si raffreddi mentre rifletto su quanto siano cambiate le tradizioni nel corso degli anni. Fino a un decennio fa non si festeggiava di certo Halloween, non da noi almeno. Quando i miei nipoti erano piccoli spesso organizzavo una cena, la famiglia si riuniva attorno a una tavola imbandita a festa e dopo i bambini si raccoglievano in cerchio accanto al camino ad ascoltare storie di streghe e spiriti inventate al momento da mio marito, fantastico affabulatore. Prima di andare a letto lasciavamo sempre acceso un cero per far trovare la strada alle anime defunte e la tavola imbandita per placare la loro fame. I bambini si divertivano un mondo e per me era un modo per tenere vivo il ricordo dei loro antenati, quelli che non avevano potuto conoscere. Con la tazza ancora fumante tra le mani mi avvicino alla finestra che dà sulla strada, dalle case vicine la luce filtra attraverso zucche intagliate posate sui davanzali.

Immagino vecchi nonni che nei giorni precedenti si sono ingegnati a cucire costumi per la felicità dei loro nipoti e che ora li accompagnano tenendosi a debita distanza in giro per il quartiere. Un moto di invidia mi attraversa il corpo per quel periodo che ormai rappresenta, nella mia vita, il passato. I miei nipoti ormai sono grandi e di rado vengono a trovarmi. Mi manca da morire la loro presenza e soprattutto la complicità che ci univa, l’intimità dei gesti, delle parole e se anche una parte di me trova del tutto comprensibile e naturale questo distacco, la mia parte più irrazionale non riesce ad accettarla, non ancora almeno. Anzi, soprattutto ora. Mi volto e lascio scivolare lo sguardo sulla mensola dei ricordi, quella in cui ho raccolto tutte le foto delle persone che amo e che non ci sono più. Ho scelto la cucina non certo a caso. È qui che trascorro la maggior parte del mio tempo, è questo il cuore pulsante della casa. Mi avvicino e passo in rassegna i volti che sorridono all’obiettivo. Ci sono mio padre, mia madre. Uno accanto all’altra, i volti composti, un vago accenno di sorriso, l’evidente imbarazzo di essere al centro dell’attenzione, loro così schivi, così umili. Mia madre ha i capelli raccolti in una crocchia, così come l’ho sempre vista. Mio padre il viso serio ma buono, lunghi baffi neri ben curati. I miei genitori si conobbero durante la messa della domenica, Eugenio, mio padre era l’ultimo di una numerosa e agiata famiglia di allevatori, Elisabetta, mia madre, la primogenita di una umile, ma dignitosa famiglia. Si sposarono un giorno di maggio, dopo un breve fidanzamento come era in uso a quei tempi.

La ricchezza paterna si assottigliò fino a scomparire del tutto nel giro di pochi anni, colpa di una gestione errata e stravizi di uno zio sbruffone. I miei genitori decisero allora di tentare la fortuna imbarcandosi in una nave diretta in Argentina, seguendo il sogno e l’esempio di tanti compatrioti. Lì non trovarono la fortuna che cercavano e decisero di tornare in Italia quando mia madre rimase incinta di me. Affrontò stoicamente il viaggio con un pancione enorme e le nausee continue, la traversata durò 21 interminabili giorni, ad attenderli trovarono tutta la famiglia riunita in loro onore e iniziarono una nuova avventura in Piemonte, dove i parenti erano riusciti ad acquistare un piccolo appezzamento di terra e un grande cascinale dove sarebbero vissuto tutti insieme. Così io nacqui in una famiglia numerosa e trascorsi un’infanzia felice coccolata da un nutrito schieramento di zii e numerosi cugini con cui condividere giochi e segreti. Quando i miei genitori si fecero veramente vecchi decisero di vendere la loro parte di proprietà al fratello di mio padre, lui aveva due figli maschi che avrebbero portato avanti l’attività di famiglia, con quei soldi comprarono una piccola casa in un paese a ridosso della città per permettermi di frequentare la scuola magistrale, il loro sogno era di vedermi maestra. Lì tra quelle quattro mura i miei genitori vissero il loro periodo più felice, la casa era circondata da un piccolo giardino perché non avrebbero mai sopportato di vivere senza il profumo dell’erba appena tagliata e la magia di sporcarsi le mani con la terra umida. Alla loro morte, se pur a malincuore decisi di mettere in vendita la proprietà. Volli scegliere personalmente gli acquirenti. Dopo aver scartato varie persone, una sera l’agente immobiliare mi informò che c’era una nuova coppia interessata all’immobile. Li incontrai il giorno seguente e appena li vidi seppi che la ricerca era finalmente terminata. Erano due novelli sposi, giovani, felici, innamorati. Era tutto ciò che desideravo per quella casa, che l’amore continuasse a tenerla viva. Dovetti abbassare il prezzo perché i giovani erano tanto innamorati quanto privi di grandi risorse, ma i soldi non sono tutto nella vita e oggi quando passo da quelle parti e vedo panni stesi al sole, un bambino che gioca sul prato e un cane che sonnecchia accanto al cancello, so di aver fatto la scelta giusta. È quello che avrebbero desiderato i miei genitori. Il mio sguardo si sposta sulla cornice d’argento a forma di cuore al centro della mensola. È la foto che da più tempo occupa quel posto e non dovrebbe. Il ritratto è quello di un bambino di pochi mesi, due occhi azzurri come il mare, un sorriso sdentato. Mio figlio Andrea. Ancora oggi il cuore mi fa male quando incontro il suo sguardo. Le chiamano morti bianche. Bambini sani che inspiegabilmente muoiono durante il sonno.

Accade soprattutto durante il primo anno di vita, più precisamente tra il secondo e il quarto mese, colpisce prevalentemente i maschietti. Le cause sono ancora poco conosciute anche se negli ultimi anni ci sono delle linee guida che indicano i comportamenti migliori da adottare per scongiurare una delle tragedie più atroci che possa colpire un essere umano. Andrea è nato un giorno di primavera, io e Riccardo lo avevamo atteso con trepidazione. Eravamo sposati da ormai tre anni,
dopo numerosi tentativi andati a vuoto, proprio quando temevo di essere sterile, ecco la sorpresa. Due linee colorate a incoronare il nostro sogno. Un sogno durato troppo poco.
Una domenica mattina mi sveglio e con gran sorpresa mi accorgo che sono già le nove passate, sono riposata, ristorata dalle ore di sonno che non sono mai tante e mai consecutive, ma ecco che un allarme inizia a suonare nella mia testa come una sirena. Mi alzo dal letto senza infilarmi nemmeno le ciabatte e corro nella stanza accanto. Un urlo squarta il silenzio svegliando mio marito. Non mi sono mai perdonata. Per anni ho pensato che la colpa fosse mia, in parte lo credo ancora. I bambini devono dormire nella stanza dei genitori, accanto al loro letto. Io lo credevo al sicuro nella sua culla, nella sua stanza preparata con tanto amore, gli orsetti alle pareti, le stelle sul soffitto.

Per mesi non sono stata in grado di alzarmi, mia madre ha fatto i bagagli si è trasferita da noi, si è occupata di mio marito, di stirare, lavare, fargli trovare una pasto caldo al ritorno dal lavoro. Quando la situazione è diventata insostenibile mi hanno portato da uno psichiatra. Non ci sono pillole capaci di farti superare una tragedia simile ma molecole chimiche capaci di renderti meno difficile la prospettiva di continuare a vivere, quello sì. Ho incontrato una psicologa ogni settimana per due anni. Mio marito è stato una roccia. Senza di lui, senza la sua fede incrollabile non sarei sopravvissuta. Non avrei mai immaginato di poter essere ancora madre. E invece, la vita stupisce sempre, a volte nel male, a volte nel bene. A quasi 39 anni rimasi incinta di due gemelli. Un maschio e una femmina. Riccardo quella volta però un piccolo cedimento lo ebbe. Alla notizia, svenne. Quando ci penso, mi viene ancora da ridere. Si svegliò con un taglio sulla fronte e due punti di sutura. E gli auguri del ginecologo, naturalmente.

E poi, ecco, che il mio sguardo si sposta sull’ultima foto, quella di mio marito. Riccardo sorride all’obiettivo in un giorno di vento, in montagna, un giorno di primavera, ancora ignaro che sarebbe stata l’ultima per lui. Lo guardo con la stessa tenerezza della prima volta. Lo conobbi una sera, all’uscita del cinema. La mia amica Cristina mi presentò suo fratello. Con lui c’era questo ragazzo che non avevo mai visto prima, capelli neri tenuti a bada con la gelatina, occhi chiari, un portamento elegante. Mi piacque subito. E io piacqui a lui. Quando ci presentarono stava fumando. «Posso offrirtene una ?» mi chiese. «No, grazie non fumo» dissi disgustata. «Posso almeno offrirti una caramella?» domandò con un pizzico di ironia e un sorriso che lasciava intravedere una fila di denti bianchi e perfetti.
«Quella sì, quella la prendo volentieri» risposi ricambiando il sorriso. Avevo 20 anni, avevo appena iniziato a insegnare in una scuola elementare, ero immensamente felice del mio lavoro e della mia vita in generale, ma ancora non avevo incontrato l’amore e a quei tempi 20 anni possono essere tanti, anche troppi per non avere uno straccio di fidanzato. Così mia madre fu persino più felice di me quando ricevetti da questo ragazzo il primo vero invito a uscire. Si presentò a casa mia con un mazzo di fiori e dopo i soliti convenevoli mi portò fuori a cena. Scelse il ristorante più caro della città e solo dopo molti anni mi confessò che gli era costato parecchi mesi di sacrifici. Viveva solo, i suoi genitori erano mancati ormai da diverso tempo, lavorava come geometra in uno studio ben avviato. Fece breccia nel mio cuore e in quello dei miei genitori grazie ai suoi modi educati. Fu naturale decidere di sposarsi il prima possibile così da evitargli la solitudine di una casa vuota e un affitto da pagare. Mio padre si offrì di aiutarci nell’acquisto della nostra prima casa, ma Riccardo si oppose con veemenza e fu irremovibile. Così la nostra prima casa fu un piccolo appartamento di appena due stanze, un vero nido d’amore.

Qualche anno dopo, riuscimmo a permetterci l’anticipo per un progetto edilizio in una nuova zona residenziale di cui si stava occupando proprio mio marito, ed è qui che abito ancora oggi.

Quando sono nati i gemelli abbiamo toccato il cielo con un dito e al tempo stesso abbiamo sfiorato l’abisso. I nostri figli ci assorbivano completamente, eravamo genitori felici ma una coppia alla deriva. Dopo una giornata fitta di impegni arrivavamo così stremati alla sera che ci addormentavamo senza nemmeno augurarci la buona notte.

Come sempre fu provvidenziale l’intervento di mia madre. Si rese conto molto prima di me che l’equilibrio del mio matrimonio era in bilico e così insistette per tenere i bambini ogni weekend.

Quando i gemelli partirono per l’università io e mio marito tirammo un sospiro di sollievo. Certo avremmo sentito la loro mancanza, ma finalmente avremmo avuto un po’ di tempo solo per noi.

Arrivata l’età della pensione ci siamo calati a nostra volta nel ruolo più bello: quello dei nonni. Reduci dalle esperienze del passato, tuttavia, siamo sempre stati capaci di ritagliarci senza sensi di colpa, i nostri spazi e i nostri momenti di libertà. Lo scorso anno, all’improvviso, il destino ha spezzato l’incanto delle nostre vite. Riccardo è mancato nel sonno, un infarto. Il fatto che non abbia sofferto è l’unica consolazione. Una lacrima mi solca il viso mentre nella mente ripercorro le tappe salienti della mia esistenza. Oggi che sono una donna di 79 anni, so che il cerchio della vita si fa sempre più stretto ma non importa. Ciò che importa è ciò che si lascia nel cuore delle persone che abbiamo amato. Mi alzo e sistemo un cero tra le foto dei miei cari, mi volto per cercare l’accendino sul tavolo, ma urto il barattolo con dentro i dolci avanzati che rovina a terra. Spicca tra tutti una carta rossa, lucida. Resto immobile. E questa da dove salta fuori?

Mi chino per osservarla da vicino. È la stessa caramella con il ripieno alla crema di latte che mio marito mi offrì durante il nostro primo incontro, ma è impossibile in quanto fuori commercio da molti anni. Poi me la stringo al cuore, mi volto e sorrido al ritratto di Riccardo. Il segno che ti avevo chiesto. Non sono una donna di fede, mio marito lo era. Ma in questa notte, sento qualcosa che si accende dentro di me. Una piccola fiammella. La morte forse, è davvero solo questo, un passaggio. Me lo diceva sempre Riccardo, recitando a memoria la poesia di Sant’Agostino: “Sono solo passato dall’altra parte. È come se fossi nella stanza accanto. Non piangere se mi ami”.

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