La Rosa di Natale

Cuore
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La storia vera più apprezzata del n. 50 è…

 

L’elleboro che ho regalato a Clara è di nuovo in fiore: è una pianta simbolo di cambiamento e rappresenta tutto ciò che è successo nell’ultimo anno. Da quando io, che mi nascondevo, ho incontrato qualcuno che mi ha restituito a me stesso. E a una nuova felicità

STORIA VERA DI JACOPO V. RACCOLTA DA SIMONA CORVESE

 

Mentre mi muovo la pioggia mi scivola lungo il collo o mi gocciola dal cappuccio sul viso. E non c’è modo di asciugarmeli perché sono tutto bagnato. È uno strazio, ma oggi devo assolutamente spostare i vasi delle piantine di elleboro. Alzo lo sguardo e vedo una donna che mi si avvicina. Accanto a lei una bambina sui cinque anni che mi studia, seria. «Tu devi essere Jacopo» mi dice gentile ma impacciata. I suoi occhi verdi mi osservano con la stessa cautela della figlia. La rassicuro, presentandomi a mia volta. Clara è la figlia di Biagio, l’ex proprietario del vivaio e si è trasferita da poco ad abitare nella sua villetta bifamiliare.

«Come sta tuo padre?» le chiedo. Poche settimane fa si è rotto una gamba ed è stato ricoverato in ospedale. E poco prima, a 75 anni, aveva ceduto la sua attività al mio capo. Ora, per Natale, abbiamo una consegna importante di ellebori.

«Sta meglio, lo hanno trasferito nella clinica per la riabilitazione» mi dice.
«Salutamelo la prossima volta che vai a trovarlo» rispondo.

«Sarà fatto». Poi mi si avvicina, con la bambina incollata a lei, sotto l’ombrello. «Sono preoccupata per le rose di Natale. Non mi sembra stiano crescendo bene quest’anno».

Io annuisco. «Erano in una zona asciutta e troppo esposta al sole» le spiego. «Adesso li sposto tutti in una zona più ombreggiata. Vedrai che si riprenderanno per Natale».

«Grazie», mi risponde accarezzando i riccioli morbidi della bambina. «Mi hai sollevato. Scusami ma ora devo tornare al negozio». Mentre si volta la folta treccia di capelli rossi le esce dall’impermeabile. La osservo allontanarsi e il suo aspetto sensuale mi fa venire un brivido lungo la spina dorsale.

Tornando a casa penso all’ultimo pranzo di famiglia dai miei genitori e mi sembra di sentire la voce di mio fratello: «I tuoi capelli avrebbero bisogno di una regolata e dovresti curarti di più». E io che gli rispondo, secco, che sto bene così. «Trovati una brava donna e ricomincia a vivere, poi ti crederò» incalza lui.
«Fatti i fatti tuoi, Fabio» ribatto irritato. La tensione che provo è percepibile anche nelle mie parole. «Non ho una famiglia come te, ma ho comunque una mia vita».

«Stai sprecando i tuoi talenti facendo il giardiniere». Ha ragione ma è l’unico lavoro che riesco a fare dopo quello che mi è accaduto un anno fa. Sono un pediatra e non sono riuscito a salvare un bambino vittima di un incidente stradale. Da quel giorno mi sento impotente. Sono troppo vulnerabile per riuscire ad affrontare le emozioni dei pazienti e dei loro genitori o confortarli. E sono così stanco di essere costretto a pensarci ogni volta che sto con la mia famiglia. È per questo che sono soddisfatto del mio attuale lavoro, dove nessuno sa chi ero prima e cosa mi è accaduto. Non sono il dottor Jacopo. Sono solo Jacopo, braccio destro del proprietario di un’azienda di giardinaggio. Un lavoro fisico perché ho bisogno di essere esausto, così gli incubi non mi svegliano. Il giorno dopo è una splendida giornata di dicembre. Finito il lavoro passo a salutare Clara e la piccola Greta. Lei lavora nel negozio del vivaio, dove i clienti in questo periodo acquistano abeti o fiori stagionali. Sento la sua voce mentre parla con i clienti e la individuo. Mi avvicino tranquillo, sorseggiando il caffè che ho preso alla macchinetta. Sento il profumo della terra mentre l’ultima luce del sole che proviene dalla finestra riscalda il terreno delle piante. Clara è al bancone delle confezioni regalo, tra bobine di nastro, pizzi e fili di ferro, carte bianche su bastoncini e abbellimenti natalizi. Sento il fruscio della plastica da fioristi e della carta velina che sta usando. È impegnata e le faccio solamente un cenno di saluto ma quando lei mi sorride, l’attraente inquietudine dei suoi occhi mi provoca un brivido di piacere fino alle dita dei piedi.

Alza lo sguardo e mi da un’occhiata che parte dai miei capelli arruffati, passando dalle mie spalle larghe, il mio fisico magro ma muscoloso come quello di un soldato. Poi, ritornando ai miei occhi blu, arrossisce e distoglie lo sguardo. Sorrido intenerito dalla sua goffaggine. Non deve avere più di 30 anni. Io, che invece ne ho 40, assomiglio molto a mio padre, che è olandese e il mio aspetto aitante attira le donne. Per non imbarazzarla volgo lo sguardo in direzione del tavolino dove Greta sta colorando un album per bambini. Mi fissa seria, come il giorno prima e mi studia, silenziosa.

È la prima bambina con cui mi relaziono da quando ho smesso di fare il pediatra.

«Non ti conosce e questo la preoccupa» mormora Clara, sopraggiunta alle mie spalle.
«Mi rattrista che sia così diffidente con me» rispondo. Cercare di approfondire con Clara la situazione è inutile: non si fida abbastanza per confidarsi con me. Devo ammettere però che mi ha incuriosito.
I giorni seguenti ci vediamo tutti i pomeriggi al negozio e Greta mi regala i suoi disegni. Il suo atteggiamento cambia e diventiamo ottimi amici.
«Clara è vedova e pare che il suo sia stato un matrimonio infelice» mi confida il mio capo. Se le cose stanno così, allora abbiamo passato tutti e tre momenti difficili e forse è meglio che la nostra rimanga una blanda amicizia. Credo che sia quello che vuole anche Clara ma non Greta. Si è attaccata molto a me ultimamente. Devo mettere un po’ di distanza tra noi, in modo che non mi si affezioni troppo e per un po’ salto le visite al negozio. Una sera, mentre aspetto al banco della pasticceria americana che ha aperto vicino a casa, do un’occhiata fuori dalla vetrina per controllare l’auto che ho parcheggiato in seconda fila. Proprio in quel momento vedo passare la macchina di Clara. Rallenta in prossimità della mia, ma continua oltre. “Andrà a parcheggiare in fondo alla via” penso. Davanti a me ho un’esposizione di apple pies, cheesecakes e muffins, anche al cioccolato: i preferiti di Greta. Il locale è gremito di clienti che chiacchierano mentre mangiano. L’aria è impregnata del profumo misto di impasti lievitati messi in forno, miele, cioccolata ma anche tè e limone. «Senta» chiedo alla commessa al bancone «per caso ha un ordine a nome di una certa Clara?». So che in quei giorni è il compleanno di Greta.

Lei sorridendo mi indica un biglietto fissato con una calamita alla lavagna alle sue spalle: «Sì, una cheesecake ma non è ancora passata a ritirarla».

«Ottimo! Allora pago io anche il suo ordine. Per favore aggiunga qualche muffin assortito e qualcuno in più al cioccolato». La ragazza mi guarda perplessa. «È una mia amica ed è una mamma single. Le faccio una sorpresa per il compleanno della figlia. Aggiunga anche un mio bigliettino di auguri».

«Oh, ma certo» mi risponde con un grande sorriso, mentre io annoto il mio numero di cellulare sul retro del biglietto. Quando esco dalla pasticceria con la mia torta di mele in mano do un’occhiata lungo la via, ben illuminata dai lampioni, ma non c’è traccia dell’auto di Clara. Forse anche lei mi evita per paura che Greta si affezioni troppo a me. So che non naviga nell’oro e la vita di una madre sola è dura. Questo è il mio regalo di compleanno per la bambina: spero che Clara non si offenda.
Più tardi, a casa, mi squilla il cellulare. È Clara: «Grazie per il tuo regalo. È stato troppo, non dovevi».

«È stato un piacere. Spero l’abbia gradito anche Greta» rispondo sdraiato sul divano tra cuscini colorati.
«Non riesco a tenerle le mani lontane dai muffin al cioccolato!». Io rido fragorosamente.«Domani porto tutto alla clinica di mio padre, così Greta festeggia con il nonno».

«Posso passare a trovarvi al negozio, lunedì dopo il lavoro?» le chiedo. Sono giorni che non le vedo e sento la loro mancanza. Greta non ha avuto ancora il tempo di fare amicizia con altri bambini: inizierà il nuovo asilo dopo Natale.

«Mi farebbe piacere rivederti» mi risponde Clara con la voce spezzata dall’emozione..

Quando passo dal negozio però non la trovo. «Clara è a casa: Greta non sta bene» mi dice una commessa. Una volta arrivato a casa sua, Clara mi porta nella camera di Greta.

«È da sabato notte che ha la febbre. Domenica ho chiamato la guardia medica e il dottore che è venuto mi ha prescritto un antibiotico» mi spiega mentre osservo le sue occhiaie profonde e la sua espressione angosciata «Sono due giorni che lo prende insieme all’antipiretico, ma la febbre si abbassa poco o niente».

Io annuisco, cercando di trasmetterle fiducia. Mi siedo accanto a Greta e l’ausculto con lo stetoscopio digitale che ho sullo smartphone. Lei mi sorride. Mi volto verso Clara e le parlo francamente. «Clara non mi sembra una semplice influenza. Ha il respiro corto e la febbre oltre i 39. Dobbiamo andare in ospedale. Vieni, vi porto io». Quando si aprono le porte scorrevoli automatiche del pronto soccorso pediatrico alcune infermiere in camice colorato, alla reception, mi riconoscono subito. «Quanto tempo, dottor Jacopo! Che cosa la porta qui?» mi chiedono.

«Sono qui con una mia amica e sua figlia». Per un istante colgo l’espressione sorpresa di Clara, ma non c’è tempo per le spiegazioni ora. Mentre attendiamo il dottore, l’odore di antisettici, misto a quello dell’alcol, appena mitigati dall’aria condizionata mi tornano familiari. Il pediatra arriva subito ed è un mio ex collega.

«Caro Jacopo, mi hanno detto che eri qui. Dimmi tutto: qual è la tua diagnosi?».
Io spiego quello che ho osservato nella bambina, indicando soprattutto i polmoni. Dopo la visita e la radiografia, scopro che i miei sospetti erano fondati: Greta ha la polmonite. «È iniziato tutto con un’influenza, che è velocemente degenerata» spiego a Clara mentre l’accompagno verso la stanza dove è ricoverata Greta.

«È colpa mia. Non ho capito che si stava aggravando. Dovevo portarla prima in ospedale» si colpevolizza lei.
«No, Clara, non è colpa tua né colpa del medico. Quando ti ha prescritto l’antibiotico la polmonite non era ancora subentrata» la tranquillizzo io e, senza accorgermene, le cingo le spalle con il mio braccio e l’avvicino a me per confortarla. Lei è talmente stanca e preoccupata che per un istante mi appoggia la testa sulla spalla. Intanto un infermiere mette Greta sul letto e le inietta una flebo con l’antibiotico. La bambina si lascia andare a un sonno ristoratore, mentre noi due parliamo.

Nei giorni successivi Greta migliora velocemente e la febbre va via. Clara è sola qui in città. Suo padre è in clinica, lei non ha altri parenti e non ha ancora ripreso contatti con vecchie amicizie.
Sospetto soprattutto perché non vuole parlare del suo passato. Sono io allora ad aiutarla come posso, e lei accetta con gratitudine il mio aiuto.

«Senti, prenditi un paio d’ore per riposarti» le propongo a un certo punto, osservando il suo aspetto provato.
«Va bene, allora vado a farmi una doccia e a lavarmi i capelli» mi dice alzandosi dalla poltroncina accanto alla finestra.

«Greta, ti ho recuperato dei libri di favole. Te ne leggo qualcuna?» dico alla bambina, cogliendo il suo sguardo smarrito all’idea che la mamma la lasci sola. Le piace stare con me e le leggo persino La leggenda della rosa di Natale, un racconto di Selma Lagerlöf, che credevo non ancora adatto alla sua età. È una bambina in gamba. Il problema più grande sono i pasti. Sono una spesa aggiuntiva non indifferente per una mamma single. Il lavoro temporaneo che Clara aveva al negozio di fiori è terminato pochi giorni fa e, a causa del ricovero della bambina, non le è stato rinnovato, come sperava. Allora mia cognata, che ha preso a cuore la situazione, prepara da casa i pasti per tutto il giorno e io glieli porto in una borsa termica.

Mi domando come l’abbia presa Clara, ora che sa che sono un pediatra. Non mi ha ancora chiesto nulla. Una sera, prima di varcare la soglia della camera di Greta, sento Clara al telefono con suo padre. «Jacopo mi piace, ma non lo saprà mai, papà. Con Alberto ho sbagliato proprio perché l’ho sposato mossa unicamente dai miei sentimenti, senza bilanciarli con la ragione. Non c’è nulla di sbagliato nel provare dei sentimenti, ma così mi sono resa vulnerabile». Non vorrei origliare ma quello che Clara sta dicendo può chiarirmi molto su di lei. Rimango così appena dietro la porta, nella corsia. «Jacopo è un dottore. Io non sono alla sua altezza, non riuscirei a dialogare alla pari con lui e prima o poi si stancherebbe di me. Volevo sentirmi desiderata e amata da un uomo: ho creduto di esserlo da Alberto e guarda quanti problemi devo fronteggiare ora. Non sbaglierò ancora».

Clara prova gli stessi sentimenti che io provo per lei e questo mi riempie di gioia. Mi rattrista però che non sia interessata a una relazione. Sono attratto da lei che pensa solo a sua figlia e l’ammiro per questo. Si sente fragile nell’affrontare i suoi problemi, ma io vedo una donna forte. Anch’io devo risolvere i miei problemi ma essere riuscito a intervenire con Greta mi da fiducia: riuscirò a tornare a fare il pediatra. E non devo avere fretta con Clara, se non voglio perderla.

È passato un anno da quando ho conosciuto Clara e progettiamo di sposarci. Sono accadute tante cose e sono tornato a fare il pediatra. Clara ora sa tutto di me e io so quanto ha temuto di essere giudicata prima di rivelarmi che il suo è stato un matrimonio infelice accanto a un uomo assente e anaffettivo.

È la Vigilia di Natale e l’elleboro che ho regalato a Clara e Greta un anno fa quando sono tornate a casa dall’ospedale fiorisce di nuovo. È il simbolo del cambiamento: quale altro fiore potrebbe rappresentarci meglio? Non bisogna mai smettere di sperare. ●

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