La signora sconosciuta

Cuore
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Oggi è una delle mie migliori amiche, e se penso al nostro primo incontro, quando ero una giovane madre stanca e inadeguata, credo sia stata la persona giusta arrivata nel momento del bisogno

STORIA VERA DI LORELLA S. A RACCOLTA DA ANASTASIA CICCIARELLO

 

Adoravo trascorrere il mio tempo in libreria. Ci andavo di lunedì mattina, quando tutti erano presi dalla frenesia della vita che ricomincia diligente e prevedibile. Entravo già sorridendo e respiravo a pieni polmoni l’odore di carta e polvere, inchiostro e colla. Era il mio rifugio, il mio porto sicuro in quel periodo denso di cambiamenti e di stanchezza. Inizialmente mi recavo nel reparto dedicato ai classici, perché mi dava sicurezza elencare mentalmente tutto ciò che avevo già letto. Ripetevo tra me e me i titoli che mi avevano fatto compagnia nel corso della mia vita. Cercando di rievocare la sensazione di piacere che mi avevano suscitato, sperando di riuscire a ricordare il gusto di ciò che già conoscevo, e che non mi poteva fare paura. Dopo, mi spostavo nel reparto delle novità, ma sostavo per poco: sapere di tutti i libri che stavano uscendo in quel periodo, ma che non avrei potuto leggere a causa del bambino appena nato, mi dava ansia. Erano tutti là, in bella vista sugli scaffali davanti all’ingresso, scintillanti, nelle loro copertine dai colori accesi, a ricordarmi che da quando ero diventata madre, non potevo più permettermi il lusso di evadere con la mente. Torri di carta stampata, contenenti mille mondi diversi da quello in cui io invece, mi sentivo incastrata. Infine, andavo a rifugiarmi nel reparto per bambini e ragazzi. Mio figlio era ancora troppo piccolo per poter apprezzare un regalo del genere, ma amavo perdermi tra le fiabe sonore, i pop up di castelli incantati e i libri tattili che solleticavano i polpastrelli al loro passaggio. Il fagotto di carne e latte che avevo partorito solo tre mesi prima puntualmente si agitava nella carrozzina, strillando e contorcendosi. Lo amavo con tutta me stessa e lo avevo tanto desiderato, ma adesso era diventato difficile affrontare ogni singola giornata. Dentro di me, passavo da stati di pura gioia, a momenti di tristezza nera e cupa. Una tristezza densa. Di quelle che non ti lasciano scampo, non ti fanno scorgere nessun tipo di soluzione. Anche quando le cose facili si trovano sotto il proprio naso e sono facili da cogliere, da afferrare. «Stai tranquilla, sono le colichette, passerà. Devi solo avere pazienza, crescerà, e sarà più tranquillo» mi rassicuravano tutti, ma io non ne potevo davvero più. E non avevo nemmeno il coraggio di ammetterlo, o di affrontare la faccenda con più spavalderia. Avrei voluto soltanto chiudere gli occhi e

dormire, senza dover pensare a poppate, pannolini e tutine sporche. Ma non potevo, e non dovevo. Abbandonai questi pensieri e andai oltre. Anche questa volta, come ogni lunedì, a eccezione del commesso sonnecchiante, non c’era nessuno. Entrai, lo salutai. Lui ricambiò subito il mio saluto con calore, abituato a vedermi più spesso degli altri clienti. Sorrisi a mia volta, felice del nostro rapporto di muta amicizia, basato solo sulle poche battute che ci scambiavamo in cassa, quando decidevo di acquistare qualcosa. Lo superai in fretta e mi inoltrai nel negozio, ansiosa di attuare il mio rito consueto. E infatti, dopo aver compiuto tutto il solito percorso, finii come sempre nell’angolo dedicato ai più piccoli, cercando di ignorare il bimbo che già si agitava. Pronto a urlare, pronto a ricordarmi, ogni volta, che le mie imprevedibili soste lo annoiavano parecchio. Quando mi recavo lì, e smettevo quindi di portarlo in giro, era capace di scatenare il finimondo. Lo adoravo, sì. Ed ero fiera di lui, nonostante la mia innegabile stanchezza. Iniziai a sfogliare i libri e a rilassarmi. Non avrei mai immaginato di intavolare una conversazione a sorpresa.

«Mi scusi, mi perdoni». Davanti a me, c’era una donna di mezza età, molto elegante che, arricciando il naso, con quello che sembrava proprio disappunto, stava indicando il piccolo in lacrime.

«Sì, non si preoccupi. Piange sempre» provai a tagliare corto, ma la donna non accennava ad andarsene. Era ferma di fronte a noi, e sembrava sul punto di dire qualcosa. Sapevo di avere mille buone ragioni per ignorarla, per prendere la carrozzina e andarmene. D’altronde mi era già capitato molte altre volte: non tutti amano i bambini e anche quelli che di solito li apprezzano, riescono a tollerarne solo i momenti di calma. Di fronte ai lamenti e agli acuti di cui sono capaci, scappano tutti, anche quelli che non ti aspetteresti mai. L’unica soluzione, quando accadeva, era sgusciare via in fretta. Non avrei mai voluto scatenare l’ira di qualche cliente, e mettere di conseguenza in difficoltà, il ragazzo che lavorava in libreria.

Quella volta però, qualcosa scattò dentro di me. Ero stanca di sentirmi impotente e giudicata, quando il mio unico obiettivo era quello di fare del mio meglio come madre, come donna e come moglie. Io mi impegnavo e ce la mettevo tutta, ma non bastava mai. Sembrava che tutti avessero qualcosa da dire. Un consiglio brillante da rifilarmi, un’opinione non richiesta da esprimere. Ma soprattutto, c’era sempre qualcuno che aveva un esempio di pargolo ineccepibile ed educato da mostrarmi, affinché tentassi di replicare quel modello di perfezione. Ero madre da meno di 100 giorni e già tutti attorno a me, si comportavano come se dovessero darmi un voto. Quanto valeva il mio modus operandi? Da uno a dieci, quanto avrei potuto meritare? Sarei stata in grado di occuparmi del frugoletto che avevo generato? Le orecchie mi fischiavano e scoppiai. «Adesso basta!» esclamai scocciata, in un tono troppo alto. «Il mio bambino piange e io non posso farci niente, i bambini piangono, si sa. Ma anche io ho il diritto di stare qui, proprio quanto lei».

La signora provò ad aprire bocca, evidentemente infastidita, ma io fui più veloce di lei. Come un fiume che finalmente aveva rotto gli argini, le riversai addosso le mie frustrazioni, le mie notti insonni, le mie paure e tutta la mia rabbia. Lei mi guardava attonita, forse per

ché aveva definitivamente rinunciato al suo rimprovero o perché era impietosita dalla figura curva con le occhiaie nere in cui mi ero gradualmente trasformata. Credevo che avrebbe replicato, invece se ne stava zitta e ferma. Io, presa dalla furia, provai allora a provocarla ancora. «Sono quelle come lei a darmi sui nervi più di chiunque altro! La sua piega perfetta, il suo bel vestito pulito e le sue scarpe coi tacchi mi stanno sbattendo in faccia quanto io invece, faccia pena!».

La donna sconosciuta forse a quel punto, si sentì in imbarazzo. Vidi l’espressione dei suoi occhi cambiare, da impassibili che erano, ora sembravano rintanarsi in uno sguardo corrucciato, in una luce cupa. Continuò però a rimanere in silenzio. Questo mi confondeva, ma non accennai a smettere di lamentarmi.

«Sono sveglia dalle cinque del mattino. Il piccolo aveva mal di pancia e proprio non ne voleva sapere di riprendere sonno! Io vorrei solo leggere in santa pace» dissi alla fine e sprofondai definitivamente nella poltroncina rossa e bassa della libreria. La mia interlocutrice, seguì le mie azioni, accompagnandole con un leggero movimento del mento e mi chiese il permesso di parlare, con un cenno. Che strano, pensai, credevo fosse più spavalda. Acconsentii curiosa. Ero fuori di me dal nervoso, ma avevo deciso finalmente di darle spazio e ascoltarla. «Si calmi. Volevo solo dirle che le sono cadute queste dalla borsa» disse infine, con la voce un po’ incerta, indicando il mio mazzo di chiavi. Sentii le mie guance avvampare, mentre i nostri occhi si incontravano davvero per la prima volta. Poi, d’improvviso scoppiai un’altra volta. Le lacrime e i singhiozzi sgorgarono quasi con violenza. Non potevo e non volevo fermarli. Lei alzò le mani a mezz’aria, poi le riportò in fretta lungo i fianchi. Sembrava che di colpo non sapesse cosa fare, cosa dire.

«È che a volte mi sento sopraffatta. Non posso continuare a fingere di essere tranquilla e serena quando in realtà non è così» esclamai, parlando più che altro a me stessa.

«Come ti chiami?» mi domandò improvvisamente la donna, con dolcezza, passando al tu in un istante. Le dissi il mio nome con un filo di voce. Mi vergognavo tantissimo. «La stanchezza gioca brutti scherzi. Perdona la mia invadenza». Provò ad assecondarmi lei, azzardando un passo nella mia direzione. Restai impassibile. Ero stata una stupida. Credevo che mi stessero giudicando, ma ero stata io per prima, a farlo. Non sapevo come rimediare. «Ascolta, io sto andando al bar, che ne dici se continuiamo a parlarne di fronte a un caffè?». Provò ancora lei, mentre io ancora rimuginavo su come aggiustare le cose.

Trovai il coraggio, alzai la testa e le sorrisi timidamente. Poi, presa da uno slancio, l’abbracciai. Non so perché, ma sentivo di potermi fidare.
Il resto della giornata passò in un baleno: la nostra sosta al bar durò più del previsto, tra chiacchiere e risate. Lei non sembrava aver dato peso al mio sfogo e, anzi, mi raccontò di quando aveva avuto le mie stesse difficoltà. A quell’incontro, ne seguirono molti altri e anche il mio bambino sembrò inaspettatamente giovarne. Forse stava semplicemente crescendo o forse sentiva, percepiva la mia serenità, e smise di piangere continuamente. Certo, la mia vita da mamma era ancora faticosa, ma condividere con qualcuno che poteva capirmi ciò che mi stava accadendo, migliorò gradualmente le cose. Capii che non ero sola. Sentirsi inadeguati e stanchi è un sentimento comune a tutti i genitori alle prime armi. Solo condividendo con altri i nostri dubbi è possibile confrontarsi, e migliorare. Solo chiedendo aiuto a chi è accanto a noi, possiamo uscirne senza compromettere la nostra salute e del bambino. Sono passati molti anni da allora, mio figlio è quasi un uomo, ma la signora sconosciuta fa ancora parte della mia vita, ed è una delle mie migliori amiche. Una mia fidata confidente, la persona giusta, arrivata nella mia vita, quando ne avevo davvero bisogno. Ancora oggi, penso che il nostro primo incontro fosse scritto nelle stelle. ●

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