La vita ritrovata

Cuore
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“La vita ritrovata, una saga familiare ricca di emozioni autentiche. Ho potuto sentire il profumo degli gnocchi, vedere i colori della Sardegna, percepire il dolore e poi assistere alla rinascita di Maria Pia come se fossi presente dentro la storia insieme ai personaggi” scrive Alessia sulla pagina Facebook. Ve la riproponiamo sul blog, è una delle storie vere più apprezzate del n. 37 di Confidenze

 

Uno scenario da Fiaba ha sempre fatto da cornice alle mie vicende. E mi sono anche sentita una regina, quando venivo ammirata per i miei abiti di sartoria e gioielli. Era tra le pareti di casa che la lingerie copriva un atroce segreto

Storia vera di Maria Pia B. raccolta da Margherita Lai

 

Mi chiamo Maria Pia, in onore della principessa Savoia, e sono nata alla fine di settembre del 1953, in uno stazzo a Battistoni, che ora si chiama Baja Sardinia, ed è una rinomata località turistica della costa gallurese. La nostra casa, edificata da babbo con pietre di granito, era composta di due stanze e il pavimento, che mamma spazzava gettandovi ogni giorno un po’ d’acqua, per farlo indurire, era in terra battuta. Era uno stazzo solitario, e dalla collinetta vicino al pozzo, si vedeva il mare. Mamma e babbo si erano incontrati tardi, dopo i 40 anni, e dopo solo un mese di frequentazione si erano uniti in matrimonio nella chiesa di Santa Lucia, ad Arzachena. Solo loro due, il prete e due testimoni raccattati per strada. La famiglia di mamma, infatti, si oppose fermamente a un’unione che reputava ridicola e fallita in partenza, dato che nessuno dei due aveva mezzi di sostentamento propri. Mamma era l’ultima dei sette figli di un pastore e insieme alla famiglia viveva nel circondario dei Monti di Mola. Famiglia non certo benestante ma a cui non mancava nulla. In un freddo gennaio del 1950, nonno aveva assunto quest’uomo solitario, apparso all’improvviso, come servo pastore, pur con molte titubanze data l’età avanzata. Probabilmente ebbe pena per un uomo maturo ancora senza famiglia e senza nulla di proprio, difatti, comunicò l’assunzione alla nonna, definendolo “lu colciu”, ossia il poveretto, il reietto. Babbo era però un bell’uomo, alto, con spalle possenti e folti capelli nerissimi; arrivava da un paese dell’entroterra chiamato Ortueli, e questo era tutto quello che si sapeva di lui. Lui, Bruno, e mamma, Giannina, fecero l’amore di nascosto per quasi due anni, finché non furono scoperti da nonno che, preso il fucile da caccia, inseguì lui a lungo tra le campagne. Due notti dopo, con la complicità di un compare, babbo tornò a prendersi mamma, e un anno dopo nacqui io. La mia infanzia fu splendida, coccolata da entrambi i genitori e dalle delizie e dai regali che nonna mi faceva continuamente, essendo in quel momento l’unica nipote piccina che aveva. I nonni perdonarono mamma solo dopo la mia nascita, ma babbo per tutta la famiglia rimase sempre “lu colciu”. Alla fine del 1959, nonno ricevette un’inaspettata, e vantaggiosissima, proposta d’acquisto per i suoi terreni da pascolo di Monti di Mola, proveniente dagli emissari di un principe straniero che voleva edificare lì un villaggio turistico. La futura Costa Smeralda. Vendette tutto e divise i generosissimi proventi tra tutta la famiglia. Le nostre condizioni di vita mutarono in meglio, accogliemmo i nonni ormai anziani in casa con noi e tutte le domeniche, insieme a nonna, preparavo “li chiusoni”, ossia gli gnocchi caserecci conditi con un robusto sugo a base di cacciagione.

Babbo (che aveva imparato a leggere e a scrivere grazie a un pullman scuola, che in quegli anni girava per gli stazzi isolati della Gallura, per alfabetizzare chi non poteva accedere all’istruzione scolastica), dopo aver preso la patente si comprò una Fiat 1400 e con quella mi accompagnava a Palau quando, ormai signorina, m’iscrissi alle magistrali a La Maddalena. Da Palau prendevo il traghetto e quindi raggiungevo la scuola. Avevo 16 anni e mezzo quando, mentre passeggiavo per l’isola con alcune compagne, incontrai Raimondo, allievo della scuola sottoufficiali della Marina Militare, allora chiamata Gruppo Scuole C.E.M.M. ellissimo, carismatico, accattivante, galante, conteso, bramato da amici e spasimanti, me ne innamorai all’istante, catturata da un magnetismo a cui mi era impossibile, e a cui non volevo, resistere. Ci sposammo due giorni dopo che sostenni l’esame per l’abilitazione magistrale e non ci pensai due volte a lasciare la mia famiglia e la Sardegna per seguirlo prima a La Spezia, poi a Livorno, Venezia, e per due anni consecutivi, in una base in Florida. Raimondo fece carriera e rapidamente, da semplice tenente di vascello, divenne prima capitano di corvetta e poi di fregata. Ottenne medaglie e onorificenze. Era un amico straordinario, un superiore inflessibile ma comprensivo, un padre premuroso per Alessandro e Nicola, i nostri figli nati a distanza di due anni l’uno dall’altro. In società eravamo una coppia tanto ammirata quanto invidiata, e io mi sentivo una regina. Partecipavo a cerimonie ufficiali e continui ricevimenti privati con abiti di sartoria e gioielli; curavo il mio aspetto in modo quasi maniacale. Perché lui si sentisse sempre gratificato dall’avermi al suo fianco.

 

E a casa, spogliatami della veste pubblica e indossata la consueta lingerie di seta, avevo cura di indossare sempre anche una leggera vestaglia. Perché a lui non piaceva vedermi addosso i lividi che mi procurava continuamente con calci e pugni. Non in faccia, né sulle braccia né sulle gambe, sia ben chiaro. E cercavo anche di non urtarne la suscettibilità in alcun modo, parlando poco, nascondendomi alla sua vista, facendo sì che nulla risultasse mai fuori posto. Ma in nessun modo riuscivo a sottrarmi né alle botte, né alle aspre e crudeli parole sprezzanti che costantemente mi rivolgeva. Mi insultava con pretesti futili, come una tovaglia non perfettamente stirata, mi sminuiva come madre e come donna, mi proibiva di avere frequentazioni troppo strette, così che non avevo mai un’amica intima, una confidente. Si divertiva a conquistare e a portare a letto, le mogli dei suoi subalterni, ed ebbe anche una figlia con una giovane segretaria, ovviamente disinteressandosi in breve tempo sia dell’una sia dell’altra.

Il giorno del diciottesimo compleanno di Nicola mi annunciò che a fine serata, se ne sarebbe andato di casa e avrebbe chiesto la separazione; aveva una compagna fissa da tempo e desiderava rifarsi una vita. Il dolore che mi provocò l’abbandono del mio unico e immenso amore – sì, nonostante tutto, lui continuava a essere un magnete irresistibile per me, pensate quanto ero scema. Scema, scema, scema! – mi fece sprofondare in una depressione talmente aggressiva e invalidante da procurarmi ripercussioni psicofisiche che sembravano irreversibili. Nessun medico riusciva a curarmi e nessuna persona a confortarmi, finché Marida, la fidanzata di mio figlio Alessandro, propose di portarmi in una struttura d’Oltralpe, dove  fui sottoposta, in anestesia totale, a terapia elettroconvulsivante, ossia a elettroshock. E piano piano, riemersi dalla spirale di dolore che mi aveva attanagliato così forte le viscere da portarmi a mettere in atto gesti estremi di autolesionismo.

Intanto, Raimondo aveva venduto la casa coniugale e depositato sul mio conto metà della somma ricavata, in più il giudice dispose in mio favore una modesta somma a titolo di mantenimento che, unita all’eredità familiare, mi consente tuttora di vivere in modo dignitoso. Decisi quindi di acquistare una casetta per me e la scelta cadde su una deliziosa proprietà con annesso giardino di gerani variopinti e profumati, in una zona semicentrale. All’atto della proposta d’acquisto, venni a sapere che c’era già un’offerta, di poco superiore alla mia, e i proprietari, che volevano chiudere in fretta, avevano optato per quella proposta. Ebbi una crisi di pianto, quando mi fu comunicato, non era possibile che la sorte mi scombinasse continuamente la vita.

 

Mentre mia nuora cercava di confortarmi, si avvicinò a noi un uomo, che con estrema delicatezza mi poggiò una mano sulla schiena, facendomi una lieve carezza.

«Non pianga, la prego», mi disse con un filo di voce: «Se ci tiene così tanto, io rinuncio. Non c’è alcun problema, davvero. L’importante è che non pianga più».

Mi voltai e un uomo con i capelli bianchi mi guardava con un sorriso amorevole, che mi infuse subito calma e rinnovata fiducia. Mi aggiudicai, così, la tanto desiderata casetta e Marta, l’altra mia nuora, invitò quell’uomo, che si chiamava Ottavio, per un aperitivo. Ci raccontammo le rispettive esistenze, in un clima disteso, come se ci conoscessimo da tempo. Quando ci lasciammo, d’impeto chiesi a Marta se potevamo invitarlo a pranzo per la domenica successiva, giorno della comunione di Christian, mio nipote. Ovviamente disse di sì.

Ottavio era stato affidato dal padre a un pasticcere perché imparasse un mestiere quando aveva 14 anni. Nessuno della famiglia andò mai più a trovarlo e la stanzetta adiacente il laboratorio fu la sua casa per molti anni. Dopo alcune storie mordi e fuggi, si unì a una donna separata con due figlie, ma la relazione non fu felice. Lei non voleva altri figli, che invece lui avrebbe desiderato, e soprattutto non tollerava la sua mancanza di ambizione, lo considerava troppo semplice per i suoi gusti, e così lui tornò nell’unica casa che aveva sentito sua, la stanzetta dietro il laboratorio, nel frattempo ereditato e gestito dagli eredi del suo primo padrone.

Preparai la zuppa gallurese per festeggiare mio nipote, un’alternanza di pane carasau e ottimo formaggio, chiamato panedda, una provola a forma di pera, bagnato con tre diversi tipi di brodo. E poi, come secondo primo, li chiusoni al sugo di cacciagione di nonna, mentre per secondo feci il rombo al forno con patate e pomodorini. Ottavio gradì tutto e ricevetti anche i complimenti per le seadas, i dolci sardi ripieni di formaggio filante, appena passati nell’olio bollente e intinti in miele autoctono.

Quella casetta con giardino, l’abbiamo ristrutturata e arredata insieme. Con i soldi che lui aveva risparmiato dal mancato acquisto della casa, abbiamo ristrutturato lo stazzo a Baja Sardinia dove sono nata e dove amiamo trascorrere l’estate in compagnia dei miei figli e delle loro famiglie. Tutte le mattine, sia in città sia al mare, ci piace fare colazione al bar e non perdiamo un’occasione per unirci agli amici durante le occasioni conviviali, le feste di piazza, le cerimonie a cui ci invitano. Da qualche anno, a causa di alcune ernie non curate, ho la parte sinistra del corpo offesa, ma non sono costretta al deambulatore. «Finché ci sarò io e finché ce la farò», mi dice sempre Ottavio, «ti appoggerai al mio fianco e io ti sorreggerò».

Ottavio, oltre che un abile pasticcere, è anche un ottimo cuoco ed è capace in tutti i lavori domestici.

«Sono stata benedetta da Dio, a incontrarti dopo tanta pena, nella mia vita» gli dico sempre.

«Sono io quello fortunato» mi risponde lui con un sorriso e una carezza: «Ad aver trovato te, che mi dai tutto l’amore che non ho mai avuto».

Nelle sere d’estate, ci sediamo a prendere il fresco fuori, tra i lecci scossi dal vento e i profumi inebrianti degli arbusti di mirto e di rosmarino selvatico.

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