L’amore a pezzi

Cuore
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 “L’amore a pezzi” di Elena Vesnaver è una delle storie vere più apprezzate del n. 36. Ve la riproponiamo sul blog

 

Giada è nata perché volevo salvare suo padre. Perchè noi due insieme eravamo sbagliati, ma no potevamo lasciarci. Ora lei ha 17 anni e cerca una guida. E io posso darle, ancora una volta, solo la mia forza

Storia vera di Piera P. raccolta da Elena Vesnaver

 

«È colpa tua!». Giada mi fissa con l’espressione che mi riserva ormai da tanto tempo, piena di livore, rabbia e dolore e, come ogni volta, io crollo perché nessuna madre vorrebbe vedere un figlio stare così male. No, non mi importa per me, forse è giusto che io paghi, ma lei no, la mia bambina no.

In fondo ai suoi occhi chiari, identici a quelli di suo padre, scorgo ancora l’immagine sfocata di quella che, fino a qualche tempo fa, era la mia piccola, ma è un attimo e Giada torna a essere l’estranea che mi accusa. Di tutto.

Anche da piccola Giada era convinta che fosse colpa mia quello che le capitava di brutto, ma le nostre sfuriate finivano in un abbraccio, in una risata mentre lei mi diceva: «Scusa mamma, non volevo, lo sai che non volevo, è che papà mi manca». Che cosa le mancasse di Matteo, davvero, non l’ho mai capito: di suo padre può ricordarsi troppo poco per soffrire di nostalgia, eppure era così.

«Le manca l’immagine» mi ripeteva sempre mio papà, «il riferimento. Dovevi pensarci, Piera, lo sapevi anche tu che sarebbe capitato».

Certo, dovevo pensarci, dovevo farlo. Avrei anche dovuto capire come sarebbe andata a finire, prendere i dovuti provvedimenti quando ormai la frittata era fatta, ragionare e metterci una pezza. Io, tutto io. Accidenti.

«Va bene, cara, è colpa mia».

Sono stanca di spiegare, a lei o a chiunque altro, sono sfinita, non spiego più niente. Se mia figlia pensa che sono colpevole, va bene, lo sono, cosa cambia? Sono l’unica madre che ha, anzi sono l’unico genitore sul quale può contare. Non le piace sentirmi rispondere in questo modo, senza la voglia di ribattere.

Giada cerca lo scontro ed è un’altra cosa che ha preso da suo padre insieme agli occhi, ai capelli neri e ricci e alla brutta abitudine di andarsene sbattendo la porta.

Tanto lo so dove va, va dai miei genitori, che rappresentano la spalla migliore sulla quale piangere le proprie sconfitte, per poi ritrovare la pace e il sorriso. Io lo so molto bene. Mi sono sempre rifugiata fra le loro braccia nei momenti brutti e loro mi hanno saputa consolare senza nascondermi la realtà: fanno la stessa cosa con Giada che da loro accetta tutto, mentre da me niente. Ok, sarà colpa mia anche questo, come è stato innamorarmi di Matteo, volerci fare un figlio, amare tutti e due, lui e Giada, più della mia stessa vita, nonostante il dolore e la disperazione. Nonostante, non so, nonostante la vita.

Solo pensare a Matteo mi confonde.

Quanto l’ho amato? Quanto lo amo ancora? Quanto questo amore ha mandato a pezzi la mia vita? Tanto, posso rispondere tanto a tutte le domande. Che fortuna, vero?

Il cellulare suona, di sicuro è mia mamma che vuole tranquillizzarmi.

Giada è da loro: sì, sta bene, è arrabbiata, è confusa, è spaventata. Sì, la tengono da loro finché non si calma e anch’io devo calmarmi, andrà tutto bene. Cerco di crederci, cerco di convincermi che sarà così, ma continuo a chiedermi se quel giorno, quel giorno che ho conosciuto Matteo, quel giorno preciso, se fossi andata al mare invece di restare a casa, quanto sarebbe cambiata la mia vita? E, in quel caso, sarebbe andato davvero tutto bene?

Io e il mio maledetto senso del dovere. Avevo appena traslocato e volevo sistemare la cucina che sembrava ancora un campo di battaglia: così avevo detto alla mia amica Giovanna che non scendevo in spiaggia con lei.

«Lavorare con questo caldo? Sei matta!» aveva ribattuto, ma non mi aveva convinto.

 

 

Sono sempre stata così, io, prima il dovere. Probabilmente Matteo è la mia punizione, quella che il destino ha deciso di affibbiarmi perché sono troppo disciplinata.

Insomma, sono rimasta a casa a sistemare la mia cucina, ma Giovanna aveva ragione, faceva un caldo terribile e dopo un’oretta ho deciso che un gelato ci sarebbe stato benissimo: per fortuna, a due passi c’era una gelateria fantastica.

Stavo gustando la mia coppetta con una mezza idea di comprarmi ancora qualche gusto da portare a casa, quando entrò un gruppo di persone, ridendo e facendo una gran confusione.

Li conoscevo di vista, ragazzi viziati e benestanti che passavano le giornate fingendo di andare all’università e annoiandosi nei locali del centro, dove spendevano in una notte quanto io pagavo per un mese di affitto, forse anche due. Di sicuro non li vedevo mai in biblioteca, figurati.

«Com’è quella cosa che stai mangiando?».

Era un bel bruno quello che mi si era avvicinato: alto, tanto, soprattutto per me e il mio metro e 60 scarso. Mi ricordo di aver pensato per un momento, solo per un momento, che avrei potuto mettermi i tacchi e cercai di non guardare gli infradito che mi ero infilata in fretta. Per non parlare del vestito da mercatino che aveva pochi pregi: era fresco ed era comodo.

Il bruno sembrava non avere nessuna intenzione di smetterla di guardarmi. Proprio nell’istante preciso in cui credevo di avere abbastanza volontà da rompere l’incantesimo di quello sguardo da incantatore, lui mi strizzò l’occhio e io risi. Cominciò così, tra me e Matteo, con allegria, talmente tanta che ci fece dimenticare che eravamo la coppia peggio assortita dell’universo.

Io ero la tipica bibliotecaria trentenne, un poco noiosa e molto tranquilla, non brutta, ma nemmeno strepitosa, con una vita talmente normale da risultare banale. Lui era un giovane uomo dall’esistenza dorata, con un padre medico e ricco che permetteva alla moglie di non fare assolutamente nulla e non pretendeva niente nemmeno dal figlio, che viveva spendendo soldi non guadagnati e frequentando gente identica a lui.

Non poteva andare, era tutto sbagliato e se non lo capiva Matteo, lo comprendevo perfettamente io. È un peccato che l’amore non abbia regole né orecchie perché tutti i miei ragionamenti, tutti quelli che mi ripetevo giorno dopo giorno e notte dopo notte, erano inutili. Forse perché erano le stesse notti che passavo con Matteo, stretta fra le sue braccia, felice di sentire la sua bocca su di me.

Lo amavo, Dio mi perdoni, e lui mi amava, solo di questo posso essere sicura.

Ho scoperto che Matteo si drogava dopo quasi un anno che stavamo insieme, dopo che i suoi genitori mi avevano fatto capire forte e chiaro che non ero la donna che volevano per lui, che i suoi amici avevano deciso di ignorarmi, che i miei genitori mi avevano avvertito che forse lasciarlo sarebbe stata la decisione giusta.

«Cosa vuoi che sia una canna ogni tanto!».

Sì, aveva ragione, era una canna ogni tanto, ma poi c’era anche il resto: le pastiglie, la cocaina, altre schifezze di cui non saprò mai il nome e i superalcolici per buttare tutto giù. Ma per Matteo era sempre e solo una canna ogni tanto e qualunque cosa era una sciocchezza.

Mi diceva che ero una stupida bigotta, che mi facevo infinocchiare da quello che diceva la televisione, che non mi sapevo divertire, che ero noiosa, che non sapeva neppure cosa ci faceva con una come me e se ne andava, sbattendo tutte le porte che trovava sulla sua strada. Poi tornava, certo che tornava, pentito e sconvolto, chiedeva scusa e giurava che mai, mai più. E invece.

Mi amava, lo so, mi amava fin dove poteva, che era tantissimo per uno come lui. Però Matteo era Matteo, era quello che era sempre stato, abituato a un mondo che gli girava intorno e che lui poteva usare come gli pareva. Insomma, a un certo punto ho pensato: “Se facciamo un figlio lo salvo e non ci saranno più problemi”.

 

 

Perché nasconderlo? Giada è nata perché io volevo salvare suo padre. Non so se è stato per egoismo o per troppo amore, però: sia quel che sia, Giada è nata ed è stato meraviglioso.

Matteo venne a vivere da me, smise di drogarsi e la piccola nacque sana. Giada sembrava un piccolo e perfetto miracolo: era quasi da non crederci che due persone imperfette come noi due, che di meraviglioso avevano solo il sentimento che li univa, fossero riuscite a creare una tale bellezza. Eppure, eccola lì e l’adoravamo tutti.

Sì, la vita sarebbe andata avanti e sarebbe stata bellissima.

Gli unici a non essere felici erano i genitori di Matteo.

Non gli andava che vivessimo insieme nel mio appartamento che, a detta loro, era miserevole; non gli andava che fossi io la donna che Matteo aveva scelto; non gli andava neppure Giada e questo resta un mistero, anche perché l’avevano vista solo una volta. Ma di cosa mi stupisco? Nemmeno adesso la vedono mai, le mandano regali per Natale e per il compleanno, soldi naturalmente, e finisce lì. Accidenti, continua a farmi male.

Le cose non cambiano, dovrei averci fatto l’abitudine, ormai. No, non cambiano: possono scegliere un’altra strada, svoltare, ma poi tornano, inesorabilmente.

Giada aveva due anni quando Matteo riprese a drogarsi. Non ci furono segnali particolari, fra noi non successe niente di strano, nessuna tragedia. Lui mi amava, io lo amavo, adoravamo la bambina, eppure Matteo ricominciò e io capii che non ce l’avrei mai fatta a salvarlo. Non questa volta, non ci sarei riuscita mai più.

Tirammo avanti qualche mese: gli avevo fatto giurare che Giada non si sarebbe accorta di nulla e così fece. Povero Matteo, ci provò, più o meno, anche se per lui la situazione non era mica tragica, «una canna ogni tanto, Piera, cosa vuoi che sia, lo fanno tutti, sai?».

Quando se ne andò, lo ammetto e me ne vergogno, finalmente ripresi a respirare.

Siamo rimaste io e Giada, ha fatto presto Matteo a cancellarci dalla sua vita. In questi anni ha visto sua figlia pochissimo e quando ho cercato di spiegargli che non andava bene, che doveva essere più presente, che Giada era anche sua, rispondeva che era colpa mia, ogni volta.

«Sei tu che non mi permetti di essere suo padre».

Non so cosa avrei potuto fare di più, sul serio: ho cercato di tenere vivo il ricordo che Giada aveva di suo padre, di rendere magiche quelle poche visite che le faceva, di trasformarlo in un eroe, o quasi. Ed è lì che ho sbagliato, ora lo so, ma io volevo che la mia piccola fosse felice e allora tutto serviva.

Solo che Giada oggi ha 17 anni e non è felice.

Ripensandoci, non lo è mai stata davvero, neppure da bambina, non sempre almeno, anche se io facevo di tutto perché lo fosse.

Ho cercato di darle tutto quello che voleva, sempre, e l’ho difesa dal mondo: troppo, lo so da me, però, che altro potevo fare?

«Potresti lasciarla crescere senza farti troppi problemi, come abbiamo fatto tutti. Giada è una ragazza come tante, sei tu che la vedi diversa» mi dicono.

Va bene, lo ammetto, per me Giada è speciale, è fantastica, è la cosa più bella del mondo, ma non per tutti è così, visto che è stata bocciata per due anni di seguito e comincio a pensare che non sia solo perché gli insegnanti ce l’hanno con lei.

Quante volte ho provato a parlarle? Ma lei niente, non mi risponde, oppure dice che è colpa mia, che se ci fosse papà sarebbe tutto diverso. Figuriamoci. Lo so che lo dice per farmi male, comunque ci riesce benissimo.

Adesso lo chiamo suo padre, adesso gli telefono: non so a cosa serve, probabilmente a nulla, ma sono stanca di sentire il peso di tutto sulle mie spalle, anche di questa figlia difficile che non so più da che parte prendere.

Matteo risponde dopo innumerevoli squilli, come al solito, però mi sembra a posto: è una buona giornata, evidentemente, così gli racconto di Giada, della bocciatura, la seconda, accidenti. Gli dico che avrei bisogno di un po’ di aiuto, di sostegno, che a Giada serve un padre, un appoggio, insomma, sua figlia ha bisogno di lui e sarebbe bello se si degnasse di farsi vedere, ogni tanto, anzi, sarebbe proprio il caso. Oddio, mi sto arrabbiando ed è la cosa più sbagliata con Matteo.

«Hai fatto tutto tu, Piera. Hai voluto la bambina, hai voluto che venissi a vivere con te e quando me ne sono andato, non hai fatto niente per farmi sentire un padre. Ti ricordi cosa mi hai detto? “Ci penso io”, hai detto e visto che pensi di essere così brava, continua. Non hai bisogno di me» chiude.

Resto immobile con la cornetta del telefono in mano. Dall’altra parte non c’è più nessuno, solo un silenzio pesante e vuoto. Egoista. Maledetto egoista.

Ma cosa speravo? E cosa si aspetta Giada da un padre così? Si merita molto di più e me lo meriterei anch’io.

 

 

Va bene, ho tante colpe, non ho saputo crescere mia figlia come si deve, mi sono innamorata dell’uomo sbagliato, mi sono chiusa in un guscio di rimpianti e non ho nemmeno tentato di rifarmi una vita decente, ma ho fatto tutto per amore, un amore che non merita di essere fatto a pezzi e calpestato. No, non lo merito, nessuno lo merita.

Mi ritrovo a piangere con singhiozzi che mi squassano il petto come da anni non succedeva perché ero troppo impegnata a fare tutto e a sbagliare.

Sento la porta che si apre e mi asciugo in fretta le lacrime.

Giada entra, gli occhi bassi; resta in piedi e, anche se vorrei tirarmela vicino e abbracciarla, mi trattengo.

«Mi dispiace, mamma» sussurra. «Non volevo dirti quelle cose, non volevo essere bocciata, non mi piace darti pensieri. Solo che non so più cosa fare».

Guardo la mia ragazzina, dolcissima quando vuole, che legge tanto, suona due strumenti e di nascosto scrive poesie, però non riesce a trovare un posto nella vita e non permette a nessuno di scoprire i tesori che ha dentro.

Mi piacerebbe dirle che nemmeno io so più cosa fare, che ho paura e che sì, è colpa mia, di tutto: non ho saputo salvare suo padre e ora sto perdendo lei e questo è molto peggio e se succede non me lo perdonerò mai.

Non so come farò a sistemare le cose, non so se ce la farò, non so niente, però non glielo dico, sono io l’adulto.

«Cosa faccio, mamma?».

Cosa facciamo? Come ci riconquistiamo un amore intero? Ancora non lo so, ma se ci abbracciamo tanto forte da non sentire la paura, possiamo cominciare.

 

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