Lascia fuori le scarpe e il cuore

Cuore
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Vi riproponiamo nel blog la storia vera più apprezzata del n. 23 di Confidenze

 

Qualche anno fa io e mio marito abbiamo adottato una bambina da un orfanatrofio in Ucraina e quel luogo anima ancora i miei incubi notturni. Ma oggi mi chiedo: cosa mostrerò a mia figlia del suo popolo se queste terre continuano a bruciare?

STORIA VERA DI NADIA EMANUELE RACCOLTA DA MARCO ANGILLETTI

 

Come ogni sera, poggio il capo sulla federa del cuscino e lascio che sia un’ultima preghiera a proteggermi dalle grinfie di Morfeo, affinché io non conosca lo stesso tormento delle notti precedenti. Sono settimane, ormai, che gli incubi fanno razzia nel cortile dei miei sogni. Quasi fossero tagliole arrugginite, mi immobilizzano per le caviglie e permettono all’inconscio di scudisciarmi con mazzi di ortiche. Si ostinano a propinarmi le paure e i malesseri che evito di elaborare a occhi aperti.

Gli incubi hanno tutti la stessa ambientazione. Mariupol. E la causa di questa mia ipersensibilità emotiva è una soltanto: la maledetta guerra dei giorni nostri.
La vedo ogni notte, la bella città dell’Ucraina. Mi appare ben diversa dai tanti scatti in cui ne ho immortalato l’anima con la mia macchina fotografica professionale. Non vedo più le rive del Mar d’Azov, gli stormi di gabbiani sulle banchine del porto, gli scorci e i monumenti evocativi, le caffetterie, i colori della street art sul grigio dei palazzoni. Niente di tutto questo.
Nei miei incubi, Mariupol è una Babilonia di cenere e abbandono.
I palazzi mi cadono addosso, piegati dal fiato infuocato di un drago. Vedo i ristoranti, in cui ho conosciuto la cucina locale, polverizzarsi come sabbia. I balconi da cui mi sono affacciata, senza più ringhiere, né vasi di tagete, né mani che salutano. La fioritura dei ciliegi nelle retrovie della città sembra un Sahara di solitudine. I barattoli di marmellate ricevuti in dono, preparati in casa da gente umile con quelle stesse ciliegie, mi esplodono davanti agli occhi e le schegge diventano razzi che finiscono sugli orti delle case, ancora ricoperti di neve. La tocco, io che la neve la conosco troppo poco, e il bianco si sporca, la neve diventa rossa. È sangue. Poi mi ritrovo nel cortile dell’orfanotrofio e vedo un paio di scarpe da bambina lasciate sull’uscio. Sono quelle di Tatiana, le riconosco. Inizio a urlare, come qualunque madre a cui potrebbero strappare un cucciolo. Alla fine, al primo battito di ciglia, mi rendo conto che si è trattato di un brutto incubo, ancora una volta. Non mi sveglio a Mariupol, ma in Italia, a casa mia. Mi precipito di là e Tatiana dorme beata, con i capelli d’oro ingarbugliati sul cuscino. Per un attimo mi commuovo. È salva, almeno lei.

Ma quanti bambini dovrà ancora piangere l’umanità?
Mariupol è la città di Tatiana, la più piccola delle mie due figlie, nove anni. Matilde ne ha tredici. Sono sorelle: né di padre, né di madre, semplicemente sorelle di amore. Prima di tutto ciò, Tatiana era una bambina ucraina sconosciuta che io e mio marito abbiamo scelto di adottare qualche anno fa. L’adozione non è scaturita dal puro desiderio di essere madre; per fortuna il mistero della vita era già sbocciato nel mio ventre con la nascita di Matilde. Da quando eravamo fidanzati, però, io e Salvatore ci eravamo fatti una promessa: al di là di quanti figli avremmo avuto, la porta di casa nostra avrebbe dato il benvenuto anche a un bambino adottato. Si dice spesso che siamo noi donne a credere di più in questi immensi atti di amore. Nel mio caso, mio marito è stato il vero artefice di un secondo miracolo: ci ha creduto sempre con caparbietà, malgrado le difficoltà inimmaginabili.

Se dovesse giocare una partita in cui si sfidano cuore e ragione,Tatiana scenderebbe in campo con la prima squadra e indosserebbe la maglia con il numero tre, come le tre vite che ha vissuto.

La prima è quella relativa ai suoi primissimi anni in una famiglia complicata, con una madre sdraiata su letti di bottiglie, in un continuo annaspare nei fiumi dell’alcol. Il padre fingeva di giocare a nascondino, ma lo faceva soltanto per sottrarsi alla giustizia.

L’incolumità di Tatiana era talmente in pericolo che la nonna paterna è arrivata a denunciare alle autorità la situazione vissuta dalla bambina. Quanto è impavido l’amore: rinnega i vincoli di sangue, pur di salvare un brandello di cuore.

La seconda vita è quella in cui Tatiana è diventata una scheda. Nome, cognome, segni particolari, fotografia, dettagli sullo stato di salute e sui tratti comportamentali. La scheda è stata inserita prima nel faldone di una casa famiglia, poi in quello di un orfanotrofio di Mariupol. Un foglio timbrato ha rappresentato per lungo tempo un cranio in più da sfamare, istruire e preparare alla vita, nella speranza che prima o poi una coppia di genitori con serie intenzioni avrebbe poggiato l’indice su quella scheda e le avrebbe permesso di iniziare una fase nuova.
La terza vita di Tatiana appunto, quella attuale, in un paese straniero che l’ha accolta con tutto l’amore possibile, in una città del Sud dove il mare, il vento, i grembiuli di scuola e i cuori buoni della gente la riempiono delle giuste attenzioni.

L’adozione non è una passeggiata a cavallo, piuttosto un’arrampicata su roccia. Richiede destrezza, spalle larghe, continuità di movimento, tanta pianificazione e ovviamente equilibrio. Non lo dico per scoraggiare chiunque volesse iniziare la scalata, ma chi sceglie di adottare non sempre viene messo nelle condizioni di comprendere appieno il dispendio di energia, materiale e spirituale, che ne consegue. Una psicologa e un’assistente sociale hanno guidato me e Salvatore per oltre nove mesi. All’inizio è capitato di chiedermi se stessimo facendo la cosa giusta, lo ammetto. Matilde era la più emozionata, ribadiva di continuo la voglia di avere una sorella o un fratello. Può sembrare assurdo, ma sono arrivata quasi a scoraggiarla, per vedere quanto fosse disposta a rinunciare allo scettro di figlia unica. Una madre non si lascia intimorire dalla paura, ma è sempre pronta a soppesarla, a valutarne gli effetti, a imbottire di protezione ogni possibile bersaglio. Una volta ottenuta l’idoneità all’adozione, ci siamo rivolti a una onlus con una certezza: orientarci verso l’Ucraina. Fare del bene non conosce santuari migliori di altri, ma l’Ucraina vanta uno dei primati più brutti, quello di avere molti orfanotrofi. Che grande controsenso! Il granaio che sfama il mondo e non riesce a rifocillare i bambini con l’amore.

Abbiamo iniziato l’iter burocratico con l’associazione e, alla fine, ci siamo recati a Mariupol per la prima volta. Io me ne stavo con il naso appiccicato al finestrino, affascinata dalla diversità urbana e culturale, tra la gioia di ogni respiro e un briciolo di ansia. L’autista è stato la nostra guida e, con il tempo, è diventato nostro amico. Lui è una di quelle persone di cui non ho più notizie da quando è scoppiata la guerra. Ci penso di continuo.

Seduta davanti alla scrivania dei funzionari locali, non immaginavo che sarebbe iniziato l’esame più impegnativo della mia vita. Ci è stato messo davanti un faldone pieno di fotografie di bambini, le famose schede. È una sensazione devastante. Sembra un catalogo dove puoi scegliere le sembianze di un figlio in base ai problemi che ha, all’aspetto esteriore, all’emozione che un’immagine ti suscita. I figli, lo abbiamo imparato con Matilde, sono gemme rese preziose dal fascino dell’inaspettato.

La vera inquietudine di quelle opzioni di scelta era sentirsi toccare le corde dei sensi di colpa: salvarne uno significava lasciarne nel baratro altri 300, se non di più. Sono passati alcuni giorni prima che il mio indice si poggiasse sulla scheda di Tatiana, dopo un’occhiata piena di amore tra me e Salvatore. Perché proprio lei? La sua foto ci ha parlato: le pupille di Tatiana sono un abisso in cui non hai paura di sprofondare, ti scuotono con dolcezza e ti invitano a esplorare i sentieri interiori.

Il passo successivo è stato quello di varcare la soglia dell’orfanotrofio. Tatiana ci è corsa incontro con la camminata di una scimmietta, educata e clemente, mentre stringeva con tenerezza un peluche sottobraccio. Ho trattenuto a fatica l’emozione, avrei voluto subito riempir- la di baci, ma non potevo. Lei e il suo peluche. Pensavo che certe scene fossero un’esasperazione cinematografica e, invece, era proprio così. Anche gli stanzoni dell’istituto, con una distesa di letti sistemati con cura millimetrica, sembravano una scena vista nei film. Ogni stanza aveva 20 o 30 letti, piccolissimi, simili a quelli dei sette nani. Nel caldo delle nostre case, non ci rendiamo conto di quanta solitudine possa esserci intorno. A Mariupol ho toccato con mano un’altra faccia dell’esistenza, quella che molti di noi per fortuna non hanno sperimentato: un limbo dove suona sì la campanella tra i banchi alla fine delle lezioni, ma fuori, ad aspettare quei bambini, non c’è mai nessuno.

Tatiana ci ha chiamati mamma e papà da subito, spiazzandoci, e non sembrava un primo incontro, aveva tutte le sembianze di una sorta di ritorno a qualcuno o qualcosa che le era sempre appartenuto. Ho avuto l’impressione che gli operatori preparassero i bambini prima degli incontri.
«Mamma torna a prenderti!». Bugia e verità in un unico gesto.

Nelle visite successive, è cresciuta l’intensità dei nostri sguardi, insieme a timidi sorrisi e alle parole filtrate dall’interprete. L’orfanotrofio continuava comunque a mettermi ansia e non perché avesse un aspetto tetro; al contrario, in Ucraina ci sono strutture davvero accoglienti, immerse nel verde e con tante giostrine all’aperto. L’elemento destabilizzante era il solito rituale prima di entrare: ci facevano togliere le scarpe e le lasciavamo sull’uscio. Mi rimbombavano in testa, ogni volta, le parole di un operatore con le quali mi spiegava la regola interna più importante dell’orfanotrofio.

«Lascia fuori le scarpe e il cuore».
Il cuore non può varcare la porta di un posto del genere. Che tu possa lavorare lì o essere un visitatore speciale, sei costretto a indossare la maschera dell’anaffettività. È vietato donare amore, perché nessun bambino possa illudersi di valere più di un altro, perché si corre il rischio di affezionarsi, perché una carezza a volte può fare male più di un rimprovero. Così dicono.
Sarà per questo che l’immagine delle scarpe lasciate fuori dall’orfanotrofio continua a perseguitarmi nei sogni. È come se una parte di me fosse rimasta là fuori, contro la mia volontà. Chissà quante scarpe senza passi, in questa guerra, quante scarpe macchiate dalla polvere di un sotterraneo o peggio ancora dal sangue, quanti lacci su cui inciampa il cuore.

Le scarpe che indossava Tatiana mentre giocava in giardino erano di due numeri più piccole. In uno dei nostri incontri gliene avevamo regalato un paio della giusta misura, ma poi le abbiamo viste ai piedi di un altro bimbo. Avevamo disatteso un’altra importante regola: le cose materiali non sono di nessuno, tutto è di tutti. Se non ci si può affezionare alle persone, figuriamoci alle cose.

Dopo mesi di colloqui e infiniti documenti, il 25 luglio del 2019 Tatiana ha indossato di nuovo le scarpe senza che nessuno gliele strappasse dai piedi. È uscita dal cancello dell’orfanotrofio, direzione Italia! Camminavo per Mariupol tenendole la manina, con lo stesso incanto con cui da piccola tenevo stretto un aquilone. Avrei baciato la strada, le panchine, ogni persona incontrata, perché Mariupol aveva donato alla nostra famiglia una tenera spiga del suo popolo.

Arrivata nella nuova casa,Tatiana si è guardata intorno smarrita e ha osservato subito le foto di famiglia tra le calamite del frigo. «Dove sono io?» è stata la sua richiesta. Abbiamo recuperato le foto della sua infanzia con alcuni bambini dell’orfanotrofio di cui lei, per lungo tempo, ha ricordato i nomi. Da allora, non faccio altro che dedicare una marea di scatti fotografici alle mie figlie, perché non perdano mai la carezza dei ricordi.

Matilde è stata dolcissima con la sorella, dal primo istante. La abbracciava e le parlava attraverso il traduttore di Google. Poi i progressi con l’italiano. Dopo soli tre mesi, Tatiana faceva il verso alla nonna di Cappuccetto Rosso, la sua favola preferita, e ne ripeteva le parole.

Ora è come se qualcosa fosse cambiato in lei.
Da madre, mi rendo conto che ha congegnato dei gesti di difesa rispetto al suo passato. Non so dire se si tratta di ovvia dimenticanza dovuta allo scorrere del tempo oppure di un meccanismo di protezione per il dolore vissuto. Non ricorda quasi nulla di allora. Un istinto di sopravvivenza, a tratti un rifiuto per le sue vite precedenti. Anche l’approccio con la lingua madre è cambiato: è passata dal parlarla, al comprenderla senza rispondere, fino a non capirla più.

A volte la guardo di nascosto e le emozioni traboccano di splendore. Ora è un uragano italianizzato che non riesce a trattenere le emozioni, abbraccia e bacia tutti incondizionatamente, come se dovesse dispensare agli altri tutto l’amore che per lunghi anni lei non ha conosciuto. È speciale, non in quanto adottata o ucraina. È speciale perché è bandiera della resilienza.

«Io sono Tatiana e vengo da Mariupol», negli ultimi tempi continua stranamente a ribadirlo. Così dice alla maestra Lia che la segue di pomeriggio con i compiti. Sarà che in televisione non si parla di altro.

Lei per ora non ha piena coscienza delle sue origini e di cosa stia succedendo al suo Paese, ma perché possa prenderne consapevolezza, un giorno, avrà bisogno anche di Mariupol. Io non voglio affatto che cancelli il suo passato: quando sarà pronta, sarò lì a raccontarle ogni cosa.

Ecco perché non riesco a sbarazzarmi dei dannati incubi. Perché è come se stessero cancellando i righi iniziali della biografia di mia figlia, i primi vagiti, le ghirlande di fiori messe in testa nei giorni importanti, le camicie con i ricami tradizionali, il teatro di arte drammatica, le fontane, le strade delle sue prime ginocchia sbucciate.

Ho sempre immaginato un viaggio in Ucraina con la mia famiglia. Le avremmo mostrato i suoi luoghi e il popolo fiero che le ha fatto festa quando è nata. Cosa mostrerò a Tatiana se quelle terre continuano a bruciare?

Con Salvatore, ci diciamo sempre che con il nostro amore l’abbiamo salvata tre volte: da un orfanotrofio, dall’isola- mento di una pandemia e da un’orribile guerra.

Potrei lasciar correre, pensare soltanto alla fortuna che abbiamo, al fatto che lei sia felice e al sicuro. Non ci riesco, perché la guerra persevera nel cancellare la prima e la seconda vita non solo di Tatiana, ma anche di tutti i bambini racchiusi negli schedari che ho sfogliato. Mi rivolgo a te, Morfeo, dio dei sogni. Basta torturarmi! Siediti accanto a me, nell’ora in cui la luna sovrasta le case e le avvolge di silenzi. Chiudiamo gli occhi insieme e aiutami a intonare una ninna nanna per tutti i bambini che sono rimasti lì, come se a distanza potessimo cullare ciascuno di loro. Un canto materno per chiedere scusa a quei figli di nessuno e alle loro storie, per tutte le atrocità con cui il nostro tempo li sta saziando. Dimmi che, come me, anche tu non riesci a lasciare fuori il cuore.

Siamo poeti senza parole quando ci privano delle nostre radici. Siamo violini fuori tempo se ignoriamo il pianto ingiusto di una creatura senza colpe.

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