Le ginestre

Cuore
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Le ginestre, selezionata da ConfyLab e pubblicata sul n. 8 di Confidenze, è tra le storie vere più apprezzate sulla pagina Facebook questa settimana. Ve la riproponiamo sul blog

 

Era la tenuta della mia infanzia, il luogo dove io e Sergio sognavamo di far crescere il nostro amore. Niente è andato come doveva. Ma forse oggi qualcuno può ancora realizzare il nostro desiderio

STORIA VERA DI MARICA T. RACCOLTA DA RAFFAELA PANTANO

 

Stamattina sto facendo colazione nel mio lussuoso soggiorno, le ampie vetrate danno sul vasto giardino, la tavola è apparecchiata per tante persone, invece siamo solo io e mio marito Simone, dirigente dell’azienda di famiglia. Lui di solito si alza presto ed esce. Oggi è a casa, ha dormito di più, perché siamo tornati  tardi stanotte. Prendo un caffè amaro, non sono stanca, sono abituata a questa vita, vado alle feste e a tante occasioni mondane, mentre lui è occupato con affari e viaggi all’estero. Lo guardo e mi sembra un estraneo con il quale divido la casa, siamo sposati da tanti anni ed è come essere assuefatti l’uno all’altra. Lui esce, dandomi un bacio leggero, mentre squilla il mio cellulare. Rispondo a malincuore, vedendo che è Everlyn, la seconda moglie di mio padre, che incontro raramente dopo la sua morte. Lei è tornata in America e ha un nuovo compagno: «Cara Marica, ti ricordi la tenuta dei tuoi  nonni ”Le Ginestre”, dove passavi sempre l’estate? Tuo padre l’aveva messa in vendita, ma per molto tempo non si è trovato un compratore, ora l’agenzia mi ha comunicato che c’è una persona interessata, si devono firmare i documenti. Io non posso andare  perché questo mese mi sposo e poi dei lasciti di tuo padre m’ importa poco, quindi è tuo dovere recarti là».

Non riesco a rispondere, perché il nome della tenuta mi ha paralizzato, non sapevo che non fosse mai stata venduta, nessuno me ne aveva parlato. Evelryn continua: «Sei d’accordo?».

A malapena rispondo di sì. Barcollando vado nella mia stanza, mi butto sul letto e piango amaramente. Come in un film rivedo quella parte importante della mia vita. Sono stata una bambina serena, pur non avendo avuto la mamma, che morì dopo la mia nascita. Vivevo con mio padre, un uomo rigido e poco affettivo, ma avevo due grandi donne che mi volevano bene: Bettina e la figlia Luisa che mi hanno allevata e coccolata, tanto da non farmi sentire l’assenza di mio padre, occupato ad amministrare la sua azienda. La mia felicità era completa quando d’estate andavo con Bettina e Luisa nella grande tenuta “Le Ginestre”, che era stata la casa dei nonni paterni e che, dopo la loro morte, era rimasta in gestione ai fattori. Sin da bambina quel luogo mi affascinava per i colori del cielo e dei campi: la villa era così chiamata per i molti cespugli di ginestre che la circondavano, inebriandoci con il loro profumo. Intorno c’erano le case dei contadini che lavoravano la nostra terra, i bambini mi guardavano, ma non si avvicinavano.

Non so quando tutto cominciò. Ricordo un pomeriggio, mentre Bettina sonnecchiava, io giocavo a palla, e quando questa rimbalzò fuori dal cancello, io la rincorsi, ma caddi. Qualcuno mi aiutò ad alzarmi e per la prima volta vidi due occhi neri e grandi che mi fissavano. Mi persi in quegli occhi che appartenevano a un ragazzino. Dissi: «Chi sei?».

«Sono Sergio, figlio dei contadini che lavoravano la vostra terra».

Fece per andarsene, ma io lo trattenni: «Non importa chi sei, voglio stare con te».

Così tutti i pomeriggi, mentre Bettina riposava, mi incontravo con lui in un luogo appartato, circondato da cespugli di ginestre. Stavamo bene insieme: Sergio era avido di sapere e intelligente, perciò gli donai libri da leggere, voleva continuare a studiare, ma non era possibile, dovendo lavorare nei campi.

L’estate successiva gli portai i miei quaderni di scuola e lui durante l’ inverno studiò. Con l’ aiuto di padre Usbaldo (il parroco del paese) che sapeva di noi due, continuò a studiare, anche dopo avere terminato la scuola dell’obbligo. Intanto eravamo cresciuti, ben presto ci scoprimmo innamorati e fu tutto meraviglioso, facevamo tanti progetti: «Ci iscriveremo entrambi alla facoltà di agraria, come tu sogni» gli dicevo «e trasformeremo questa terra in una grande azienda e daremo lavoro a gente povera».

Sogni innocenti dei nostri splendidi anni…

Mi diplomai con il massimo dei voti e anche Sergio pensava, dopo il diploma, di iscriversi all’università. Mio padre era soddisfatto di me, in quel periodo stava più a casa e voleva sposare l’ americana Evelyn. «Per premiarti scegli una località di villeggiatura alla moda» mi disse una volta. Ma io volli andare a ”Le Ginestre”, così papà organizzò una grande festa per il mio compleanno che cadeva  il 12 agosto. E mi chiese quale regalo volessi.

«Te lo svelerò la sera della festa e tu prometti che dirai di sì» gli comunicai. Da alcuni segnali, forse, aveva capito che mi ero innamorata e immaginava che gli avrei presentato il mio ragazzo, così sorridendo mi rassicurò: «Sicuramente ti accontenterò».

Volevo fargli conoscere Sergio, il quale dapprima fu titubante, ma poi acconsentì.

La sera della festa la villa splendeva di luci e di fiori, io indossavo un meraviglioso abito dalle mille sfumature di rosa e guardandomi allo specchio vedevo  una donna bellissima con occhi luminosi.

Questa fu l’ ultima immagine di me felice: nella mia vita non riapparve mai più!

Arrivata in sala ricevetti moltissimi complimenti e mio padre esordì: «Prima che cominci la festa Marica vuole farmi una sorpresa».

Tutti guardavano Simone, ma io mi girai verso l’entrata, da dove veniva Sergio, bello come mai, e incurante degli sguardi allibiti lo presi per mano e lo portai davanti a mio padre che, impallidito, gridò: «Ma è uno scherzo?». Poi rivolgendosi a Sergio lo aggredì: «Come ti sei permesso di metterti con mia figlia? Pezzente tu e la tua famiglia che ho sfamato».

La mano di Sergio era diventata fredda, lui si staccò da me, mentre la collera e l’ira trasparivano dai suoi occhi, ma riuscì a dominarsi. Mi lanciò uno sguardo dolce e malinconico e andò via per sempre da me. Mio padre si rivolse agli ospiti salutandoli dicendo che la festa era finita.

Rimasti soli continuò a gridare contro di me, incurante delle mie lacrime, poi chiamò Bettina e Luisa dicendo: «Avete tradito la mia fiducia, permettendo questi incontri, siete licenziate».

Io supplicavo «Non hanno nessuna colpa, sono come mamme per me».

Ma lui fu irremovibile e loro abbracciandomi dicevano: «Non pensare a noi! Lotta per te».

Non contento mio padre chiamò il fattore e ordinò: «Quei cafoni devono andarsene».

Poi mi trascinò in camera e chiuse a chiave la porta.

 

La mattina mi svegliò in modo brusco e disse: «Preparati, andiamo via». Mi alzai a fatica e vidi il mio vestito ridotto una straccio come la mia faccia, cercai dovunque Sergio, ma non lo vidi. Così finì la mia giovinezza e con essa i miei sogni!

A casa trovai zia Barbara, sorella di mio padre, vedova, senza figli, arcigna come mai.

Mio padre sentenziò: «Barbara ti controllerà, non pensare di andare via, perché sei minorenne e senza soldi». Questo lo sapevo, ma non immaginavo che papà sarebbe arrivato a tanto. Barbara mi stava continuamente vicina, ma io riuscii ugualmente a parlare con don Usbaldo che mi informò di non aver ricevuto più notizie di Sergio e della sua famiglia. Intanto non stavo bene, mangiavo poco e avevo sempre la nausea. Una sera mio padre mi disse: «A settembre, andrai all’università, in Inghilterra, dove c’è anche Simone».

Ma Barbara con un sorrisetto ironico puntualizzò: «Guarda caro che la tua figlioletta, secondo me è incinta». Io non ci avevo pensato, ma appena lei lo disse, capii che forse aveva ragione. Mio padre inferocito urlò: «Domani andremo dalla ginecologa e ci libereremo da questo impiccio, tu devi sposare Simone, perché dobbiamo unire le due società».

Non parlai, in fondo ero contenta: qualcosa di Sergio mi era rimasto. La ginecologa confermò: «È incinta di cinque mesi, troppo tardi per pensare a un’interruzione di gravidanza».

Mio padre rimase senza parole, la mattina dopo mi disse: «Andrai con Barbara, nella sua casa di montagna, e là partorirai. Daremo il bambino in adozione: nessuno dovrà sapere».

Non protestai, perché, come al solito decideva lui. Arrivammo alla “Solitaria”, un casolare tra i monti. Era inverno, a me non importava, trascorrevo le giornate tranquilla pensando che, nato il bambino, mio padre si sarebbe raddolcito e me lo avrebbe fatto tenere, infatti dell’adozione non si parlò più. Veniva a visitarmi un’ostetrica, Alba, mandata da mio padre. La notte che dovevo partorire una tempesta di vento e acqua scuoteva la casa, i dolori aumentavano e Alba disse: «È meglio darle del sonnifero», ma anche intontita sentii il pianto di mio figlio. Tesi le braccia per prenderlo, ma invece comparvero dei fogli che mi fu detto di firmare. Qualcuno mi aiutò, immediatamente dopo Alba mi fece una puntura e caddi in un sonno profondo. Quando mi svegliai chiesi del bambino, ma Barbara rispose: «È stato dato in adozione, tu eri  consenziente».

 

U

n urlo lacerante mi scosse e capii di essere stata ingannata. Vidi mio padre e mi scagliai contro, ma lui ripeté: «È stato un bene, non l’avresti mai potuto tenere senza mezzi, io non ti avrei aiutato. Sei giovane e potrai farti una vita come conviene, non pensare di rintracciarlo perché è impossibile».

Capii di non poter fare nulla, forse il destino aveva deciso così, ma per me era finita, come pure era finito l’affetto per mio padre.

Tornata a casa, cercai di rassegnarmi, ma non mi iscrissi all’Università, passavo le giornate tra feste e shopping. Nel frattempo mio padre si era sposato con Evelyn che sembrava una bambola. Avevo molti amici e corteggiatori, tra cui Simone,il più assiduo e alla fine per inerzia o per andare via da casa acconsentii a sposarlo. Fu un matrimonio favoloso e come tutti dissero: la sposa era bellissima, ma mi sentivo come una comparsa.

Simone si mostrò un marito perfetto e innamorato, ma io ero distante e apatica alle sue carezze e lui, a poco a poco si distaccò e si dedicò completamente al lavoro. Figli non ne arrivarono, né io li cercai. Solo una volta zia Barbara mi disse:«Sei felice? Avevi tanti sogni… forse ti manca qualcosa del tuo passato?».

Le risposi ironicamente: «Sono felicissima e non rimpiango niente». Non ne parlammo più. Mio padre perse la vita in un incidente, non ne fui particolarmente colpita, tra noi non c’era più niente. Simone si occupò di tutto unendo le due società, a me stava bene così, certo i soldi non mi mancavano.

Oggi, però, la telefonata mi ha sconvolta, passo tutto il giorno in trance e, a sera, comunico la notizia a Simone: «Non è necessario che tu vada, tanto se ne occuperà l’agenzia» mi dice lui.

«Domani partirò, ho già deciso».

Mi guarda in modo strano e aggiunge: «Un attacco di nostalgia?». Le sue parole mi lasciano perplessa, forse anche lui ricorda.

Quando arrivo alla tenuta, trovo ad aspettarmi il titolare dell’agenzia che mi fa notare lo stato di abbandono: la casa è quasi diroccata e i terreni deserti, dove c’erano le ginestre ci sono solo rovi. Io chiedo notizie sui compratori: «Vengono dalla Germania. Sono madre e figlio. Lui si chiama Stefano, forse è un agronomo, vuole creare una fattoria modello, da quel che ho capito ha molti sogni, ma pochi soldi».

Passo una notte agitata e il mattino mi reco in agenzia. «Questi sono gli acquirenti» mi dice l’incaricato. Resto frastornata perché nella figura di Stefano mi sembra di vedere qualcosa di familiare: i capelli neri e riccioluti, gli occhi grandi, ma azzurri, mi ricorda Sergio. Può essere mio figlio? Non riesco a non guardarlo mentre l’agente immobiliare dice: «Tutto è in regola, loro sono decisi, sul prezzo proposto ci si può accordare. Signora Marica che ne pensa?».

Cerco di scuotermi, ma ho mille dubbi: «Non sono molto decisa, voglio pensarci». Li vedo contrariati, ma un dubbio pazzesco mi tormenta: Stefano è mio figlio? Chi mi può aiutare? Passo ore a torturarmi e mi ricordo di padre Usbaldo. Domando se è ancora vivo e avuta la conferma mi reco da lui, ma grande è la mia meraviglia quando dalla sua casa vedo uscire Stefano.

 

Trovo padre Usbaldo invecchiato, lui mi riconosce, mi abbraccia con affetto e gli racconto dei miei dubbi. «Voglio sapere che n’è stato di Sergio e se Stefano è mio figlio».

Lui mi accontenta: «Sergio emigrò in Germania, dove trovò un buon lavoro ed ebbe una brava compagna, ora purtroppo non c’è più».

Mi sento svenire, ma lui continua: «Sappi, se questo ti può consolare, che tu sei stato l’unico amore della sua vita. Riguardo al bambino non ti posso dire niente perché ci sono dei segreti che non posso rivelare. C’è una persona che ti può aiutare, è tua zia Barbara».

Lo vedo affaticato e non insisto più, anche se penso che Barbara sia l’ ultima persona che mi può aiutare.

Torno sconsolata a “Le Ginestre” e seduta su una pietra scoppio a piangere, quando improvvisamente sento di nuovo il profumo delle ginestre, mi inoltro tra rovi e trovo i cespugli dei fiori: È un buon segno!

Decido di andare da Barbara.

«Che sei venuta a fare dopo così tanto tempo? Di cosa hai  bisogno?» mi dice.

«Don Usbaldo ha detto che solo tu mi puoi aiutare»

Le racconto l’incontro con Stefano e la supplico: «È lui mio figlio?».

Lei ha un attimo di trasalimento, ma la voce è dura: «Non so cosa cerchi e se insisti nelle tue farneticazioni, sarò costretta a informare tuo marito».

Sapevo che da lei non avrei ottenuto nulla, mi alzo e me ne vado. Singhiozzando raggiungo la macchina, quando a un tratto sento una mano sulla spalla e vedo Barbara: «Vieni in casa, ti racconterò tutto». Il suo volto ora è cambiato. «Nell’istituto dove fu portato il neonato lavorava un assistente, amico fidato di don Usbaldo. Seppe che il bambino era stato adottato da una famiglia e lo riferì a Usbaldo che volle incontrarmi (lo chiamo così perché è stato il mio unico amore, ma lui mi lasciò per seguire la sua vocazione) e mi pregò d’informarti. Io dissi che eri felicemente sposata e che non si poteva sconvolgere la tua vita. Ma Usbaldo, che era sempre rimasto in contatto con Sergio, gli disse del bambino. Sergio rintracciò la famiglia che l’aveva adottato e diventò il compagno di Amelia, che nel frattempo aveva perso il marito in un incidente. Insieme allevarono Stefano con tanto amore. Perdonami, Marica, ti abbiamo fatto troppo male». Ci salutiamo, quasi con affetto, ma ho tanti dubbi: devo dirlo a Stefano? E a Simone?

Torno da don Usbaldo per ringraziarlo e lui mi dice che la decisione di mantenere il segreto spetta solo a me. In albergo, con sorpresa trovo Stefano con la madre, ma anche mio marito: «Perché sei venuto?» gli chiedo.

Lui mi guarda: «Sembri strana, perché stai qui a perdere tempo? I documenti sono pronti, firmali!». Ancora fogli davanti ai miei occhi, le lettere sembrano ballare e un tremore mi scuote, Simone insiste, ma io non ce la faccio: «Non posso vendere!». Ho deciso sconvolgerò la mia vita e quella degli altri, ma non importa. «Non posso vendere,posso soltanto regalare la tenuta a Stefano, perché è mio figlio».

Un silenzio tombale scende nella stanza, mi alzo e balbettando abbraccio Stefano. «Sei mio figlio! Sei mio figlio». Lui non risponde al mio abbraccio e io mi lascio cadere avvilita sulla sedia. Gli racconto ogni cosa. Lui reagisce arrabbiato: «Ti sei inventata tutto? Stai farneticando?».

Ma Amelia interviene:«È tutto vero, lei è tua madre, non te l’avevamo detto per proteggerti. Perdonami».

Stefano si volta verso di lei: «Non ti preoccupare, tu sarai sempre mia madre».

 

Io annientata rispondo: «Sì, è giusto così, ho anch’io le mie colpe, sono stata debole e non ho saputo lottare per riaverti, ma ero come svuotata».

Stefano mi guarda in modo strano e fa per andarsene, ma lo fermo: «Accetta la tenuta, falla rivivere, se non per me, per i sogni di tuo padre». Anche Amelia insiste: «Solo così realizzerai i sogni di Sergio, lui ha lottato tanto per questo».

Alla fine Stefano accetta, mi sento più tranquilla, ma non ancora felice. Lui salutandomi dice: «Grazie, col tempo ci rivedremo». Va via abbracciando Amelia. Simone non ha più parlato, è terreo in volto, usciamo, io non so cosa fare, ma lui dice: «Vieni andiamo a casa, per troppo tempo non hai parlato, non sei stata veramente mia, c’era come un’ ombra tra noi e non hai mai fatto tentativi per avere bambini nostri, ma sei mia moglie, ti ho voluto bene e forse qualcosa è rimasto».

Ci incamminiamo vicini, non è troppo tardi per ricostruire un rapporto, sincero questa volta. So, però, che una parte di me è rimasta qui e sarà così per sempre. E se Stefano vorrà ritornerò, insieme a Simone per respirare ancora l profumo delle ginestre, che non è altro che il profumo della felicità.

 

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