Lettera da Paris

Cuore
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Lettera da Paris è la storia vera più apprezzata del n. 23 di Confidenze, ve la riproponiamo

 

«Ti ho scaricato un’app che aiuta a trovare amici di penna» mi aveva avvertito mia sorella. Avevo ceduto, più per curiosità che per convinzione. Finché un giorno arrivò un messaggio nella casella di posta virtuale che mi lasciò senza parole. Ed era solo l’inizio

STORIA VERA DI MONICA V. RACCOLTA DA IRENE ZAVAGLIA

 

Lo smartphone nuovo me lo aveva regalato mia sorella Gaia. Da quando aveva trovato impiego in un centro per la telefonia, la sua missione era diventata quella di spargere una ventata di modernità digitale tra i familiari che non ne facevano largo uso. E io tenevo testa a tutti. «Non lo voglio» avevo protestato. «Sono affezionata al mio vecchio telefonino.Va benissimo per chiamare ed è ottimo per inviare dei brevi messaggi di testo. Cosa dovrei farci con questa mattonella stracarica di icone che non saprei neppure utilizzare?».

Gaia aveva scosso la mano in segno di diniego. «Quelle sono applicazioni. Le ho selezionate appositamente per te. È arrivato il momento di fare vita sociale, Monica, di conoscere nuove piazze, di rimetterti in gioco» aveva blaterato, chiaramente decisa a non mollare. A nulla erano valsi i tentativi di spiegarle che la modalità classica di interazione tra le persone fosse l’unica maniera in cui ero disposta a conoscere la gente. La virtualità proprio non mi interessava, facevo parte di quell’esigua fetta di popolazione che ancora ricorreva a carta e penna e che provava addirittura gusto a scrivere e a spedire una lettera.

«Ecco, a proposito di lettere, ti ho scaricato un’app in grado di aiutarti a scovare amici di penna». Gaia aveva indicato sul display ad altissima risoluzione un quadratino interattivo contraddistinto dal simbolo di un francobollo. «È un’applicazione speciale, si chiama Slowly. Gli utenti possono iscriversi gratuitamente con un nome di invenzione, l’immagine che li rappresenta è di pura fantasia e il tempo che una lettera spedita da un utente impiega a raggiungerne un altro dipende dall’effettiva distanza geografica che li separa. Per esempio, se scrivi a qualcuno che abita dall’altra parte del mondo, la lettera ci impiegherà dei giorni per raggiungerlo, se invece contatti un amico di penna che risiede non troppo distante da te, i tempi di consegna della lettera si aggireranno intorno a qualche ora. Capisci perché l’hanno chiamata “slowly”, “lentamente”? Non lo trovi strabiliante?».

In realtà, non ci avevo capito nulla. Il massimo che riuscivo a immaginare era un surrogato inconsistente della vecchia e cara corrispondenza, il solito tentativo incerto della digitalizzazione di soppiantare i sani principi della vita in tutte le sue più autentiche sfaccettature. Malgrado ciò, non me l’ero sentita di demonizzare lo slancio affettuoso con cui mia sorella provava a rendere la mia esistenza, a suo dire, più stimolante. Avevo ceduto, accettando di buon grado il suo regalo e consentendole di stropicciarmi in un abbraccio di puro entusiasmo. «Mi ringrazierai, sorellona! Ti accorgerai di non poterne più fare a meno».
I primi giorni furono come trovarsi nella sala comandi di una centrale nucleare pronta a esplodere. Gaia non si era fatta sfuggire nulla: aveva impostato i miei indirizzi email, aveva attivato tutte le chat che esistevano sulla piazza virtuale, aveva scaricato applicazioni che mi tenessero aggiornata sulle notizie d’attualità, di musica e di salute e si era premurata di farmi giungere a cadenza oraria gli avvisi sulle condizioni metereologiche, sul traffico e persino sull’oroscopo. Il mio nuovo telefono era un continuo concerto di trilli e improvvisi allarmi, tanto che, all’alba del terzo giorno, pensai seriamente di liberarmene e di tornare alla calma della mia precedente e antiquata esistenza. Resistetti, ero alla fine del mio turno in ospedale. Roberta, una delle mie colleghe infermiere, capitò al momento giusto. Chiesi a lei, nota per essere la più avvezza all’uso di tutte le tecnologie, di zittire quell’aggeggio del diavolo. «È bellissimo questo modello» cinguettò intenta a silenziare le notifiche. «Fatto. E guarda che hai delle lettere in arrivo» aggiunse restituendomi lo smartphone con un sorriso complice.

Che lettere? Rimasi a pensarci per una frazione di secondo. Poi mi ricordai dell’applicazione degli amici di penna. Provando a capire come funzionasse, mi accorsi che Slowly segnalava la ricezione di due “lettere”: la prima arrivava da una zona remota del Giappone e avrei potuto leggerla il giorno dopo; la seconda era stata spedita da una certa LadyChef che distava da me meno di 400 chilometri e i cui tempi di consegna erano stati calcolati in circa un paio d’ore. Ma a chi scriveva quella gente? Andai a sbirciare il mio profilo utente che Gaia aveva impostato e curato nei minimi dettagli. Per gli avventori di Slowly io ero Sole, avevo 40 anni, mi interessavano i libri, la cucina, la fotografia e la scrittura, il mio avatar a fumetto mi somigliava di tutto punto e sul trafiletto utile per una breve descrizione personale mia sorella aveva scritto: “Siamo tutti storie che si inseguono in una continua meraviglia”.

Ero stata letteralmente catapultata su un pianeta che non avevo scelto. Scrivere a degli sconosciuti? E a che pro? Seppur avessi deposto il sogno di trovare un compagno che mi amasse come io volevo essere amata, e non perché mi fossero mancate le occasioni di sperimentare un rapporto di coppia, non era mai stata mia intenzione seguire la strada dei siti di incontri per cuori solitari. A maggior ragione, mi rifiutavo di iniziare proprio in quel momento, fosse solo per compiacere mia sorella. Avrei cercato di capire come fare e dopo avrei definitivamente eliminato il mio account e la relativa applicazione dal telefono.

Invece, una settimana dopo, scrivevo al mio nuovo amico Akinoro che dal Giappone studiava l’italiano e desiderava migliorare le sue conoscenze sulla nostra lingua e scambiavo ricette regionali con LadyChef, che viveva in provincia di Bologna e progettava di aprire un ristorante. Non solo, avevo ricevuto lettere da tantissimi altri luoghi e, a parte un Cupido77 che era alla spudorata ricerca dell’anima gemella, puntando comunque sull’ironia, nessuno sembrava ricorrere a Slowly per dare il via a una relazione. L’intero meccanismo si era piuttosto rivelato una maniera simpatica e, per l’appunto “lenta”, rispetto alle comuni email o alla voracità della messaggistica istantanea, di interagire con il mondo. Tutto sommato, non mi dispiaceva quella casella postale virtuale che incarnava quasi tutte le caratteristiche della tradizionale corrispondenza. Era pur sempre un’opportunità per scrivere e conoscere nuove persone con il solo fine di arricchire la propria vita e senza uscire completamente dall’anonimato.
Un giorno mi accorsi che stavo per ricevere una lettera da un utente molto vicino. Si chiamava Paris e, a dispetto del nickname, mi scriveva da un luogo che distava dalla mia posizione meno di 100 chilometri; la sua missiva ci avrebbe messo appena 30 minuti a raggiungermi.

Attesi incuriosita da quella nuova vicinanza. Paris mi scriveva: ”Ciao Sole, da un po’ di tempo coltivo l’idea che un ritrovato amore per se stessi sia la vera chiave per la felicità. Perché, vedi, io penso che meno bastiamo a noi stessi, più sono i pezzi d’anima che chiediamo in prestito a chi ci sta vicino: e necessità e debito non sono buone basi per costruire dei rapporti sereni. Ma tu lo saprai, tu che hai tante storie di meraviglia da raccontare e che, ne sono certo, almeno di una vorrai farmi dono. A presto, P.”.

Rimasi interdetta. Non era la solita lettera con cui si cercava di rompere il ghiaccio e di trovare un interesse comune per avviare una corrispondenza tra sconosciuti.

Cos’avrei dovuto rispondere a una persona che si presentava con quel preambolo di filosofia esistenziale? Indagai il profilo del mio nuovo amico: condividevamo alcune passioni tra cui la lettura ma, a parte appurare che si trattava di un uomo e che aveva la mia stessa età, non mi fu possibile scoprire altro. Riflettei
per diversi giorni se rispondergli o meno, accarezzai nuovamente l’idea di eliminare Slowly dal telefono per risolvere il problema alla radice e non impelagarmi in situazioni anomale, imbastii una prima bozza di lettera improntata sull’umorismo, ma poi cedetti e scrissi d’impulso dell’unica meravigliosa storia che mi riguardava e che ho sempre pensato valesse la pena raccontare: quella del mio lavoro in corsia, accanto alla sofferenza della gente e al coraggio dei dottori, in perenne bilico tra la forza per la lotta alla vita e lo scoramento di quando una malattia vince su qualsiasi speranza.

Era il mio lavoro da infermiera la mia meraviglia, l’unica meraviglia da cui traevo il nutrimento per l’amore verso me stessa e verso gli altri.

Paris ci mise un po’ a rispondermi, ma quando lo fece, usò parole di una tale profondità e delicatezza da restituirmi in gioia quel piccolo atto di sincera fiducia che avevo compiuto. Iniziò tra noi una fitta corrispondenza. Avevo avuto l’impressione che lavorasse a stretto contatto con il pubblico, ma non avevo mai chiesto conferme. Non sapevamo nulla delle nostre effettive identità, ci bastava scambiarci pezzi di noi per scoprire lentamente, così come recitava il nome dell’applicazione attraverso cui comunicavamo, la nostra vera essenza.

Le lettere divennero un appuntamento fisso, un luogo dove prendevamo forma come una donna e un uomo che non si accontentavano di guardare al mondo con l’occhio comune della superficialità. Intuii tra le righe che chi mi scriveva era qualcuno che aveva tanto sofferto per la perdita improvvisa di una compagna di vita stroncata da un brutto male.

”Ma intorno a quella voragine che non so riempire, io ho già costruito una staccionata che ho dipinto e decorato con le mie mani e che osservo da una panchina adorna di fiori e alberi da frutto mentre imparo a farlo senza cadere” mi scrisse Paris.

Capivo sempre più quanto fossi stata fortunata a incrociarlo, io che non sapevo abituarmi neppure alla perdita di un paziente.
In quel periodo venne a mancare un ragazzo molto giovane che avevo assistito per mesi. Era stato colpito da una forma rara di neoplasia alla parete toracica, il suo diaframma aveva smesso di funzionare. Quella sera scrissi al mio amico di penna: “Caro Paris, più o meno, al centro del nostro corpo, esattamente nel punto di massima convessità del diaframma, esiste un grosso tendine che ha la forma di un trifoglio. Si chiama centro frenico. Dalle tre foglie del centro frenico parte un insieme di fasci che si irradia per buona parte della cassa toracica. La foglia di destra è poi attraversata da un foro che permette il passaggio della vena cava inferiore, il più grande tron- co venoso che si occupa di trasportare il sangue povero di ossigeno proveniente dalle parti inferiori del corpo fin dentro l’atrio destro del cuore. Ho immaginato che tutte le volte che respiriamo, ci sono i petali di un fiore che, allargandosi, consentono alle emozioni di procede re dalla punta dei piedi fino al cuore, passando per la pancia e i polmoni, come se fosse il centro dell’anima. E, sai, il centro dell’anima può ammalarsi e morire”.

Mi rispose: ”Cara Sole, allora permettimi di scendere nel tuo respiro, consentimi di seguirlo superando quei veli grigi fluttuanti di tristezza, fino a giungere al cuore pulsante della tua anima e accarezzarne piano i petali, chinandomi a baciarne ciascuno e alleviandone il dolore e le fatiche che li gravano”.

Nessuno mai aveva immaginato di baciarmi l’anima. Mi accorsi di tremare di felicità e di emozioni contrastati. Possibile che un semplice messaggio mi facesse quell’effetto? Gli chiesi di quello strano nome di fantasia: perché mai “Paris”? Rimase vago. Iniziò invece a terminare le sue lettere dedicandomi l’invio di un determinato numero di fiori. Lo fece per diversi giorni. Mi inviò virtualmente tre margherite, quattro edelweiss, sette rose, cinque agapanti e così via, fino a che non mi ritrovai con un mazzo immaginario di fiori bellissimi e… un numero di telefono! Non potevo sbagliarmi: quello che aveva voluto farmi avere era un numero di cellulare. Non solo, se prendevo in prestito l’iniziale di ciascun fiore che avevo ricevuto, la parola di dieci lettere che riuscivo a comporre era: meraviglia.

Non sapevo quale credito avessi con il destino per meritarmi una favola così bella, ma di certo, non volevo lasciarmela sfuggire.
“Prima di sentire la tua voce, voglio perdermi nei tuoi occhi” gli scrissi in preda a un’eccitazione senza eguali. Replicò fornendomi finalmente un indirizzo. Non mi ero erroneamente illusa: vivevamo sotto la stessa porzione di cielo. Ci andai nel mio giorno di riposo dall’ospedale. Non sapevo come avrei fatto a trovarlo, se quello era l’indirizzo di un’abitazione non avrei avuto un nome reale di cui chiedere. A pochi metri dalla rivelazione, fui tentata di tornare indietro. Mi tranquillizzai solo quando notai l’insegna di un bar: “Caffè Paris”, ecco dove ero diretta. Oltrepassai l’ingresso del locale con il cuore che mi martellava nelle tempie. Tutto di quel posto ricordava un affascinante bistrot parigino. Una cameriera mi venne incontro con modi gentili. Non le diedi retta. Afferrai di impulso il cellulare e composi quel numero che avevo imparato a memoria. L’uomo dietro al bancone, un tipo dai grandi occhi languidi e dall’espressione vissuta che non avevo smesso di fissare come calamitata da una forza misteriosa, recuperò il suo telefono e disse “pronto”. Nello stesso momento in cui lo fece, il suo sguardo incontrò il mio e vidi dipingersi sul suo volto un sorriso di infinita tenerezza. Era lui, era Paris, aveva usato lo stesso nome del caffè che gestiva. Era da dietro quel bancone che mi aveva scritto le centinaia di lettere con le quali mi aveva conquistata. Era lui, in tutta la sua dolcezza e la sua umanità. Esisteva in carne ed ossa, e poteva anche non essere l’uomo più bello del mondo, ma era l’unico con cui volevo provare a trascorrere un pezzo della mia vita.

Tra i tavolini dello stesso caffè, oggi ci scorrazza Tommaso che ha appena due anni. Avremmo voluto chiamarlo Slowly, ma ci è sembrato eccessivo per nostro figlio. Io e Dario, detto anche Paris, continuiamo a scriverci. Lo facciamo di tanto in tanto, quando abbiamo bisogno di comunicarci parole maturate lentamente tra le pieghe del nostro amore, nato e cresciuto lì dove nessuno avrebbe mai scommesso che potesse nascere un sentimento di simile portata.

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