Luca ancora per sempre

Cuore
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“Un racconto che lascia amaro e amore … Il sentimento autentico di una donna che fa di tutto per salvare il proprio compagno dal baratro in cui sta precipitando” scrive Wanda, una nostra lettrice, sulla pagina Facebook. Vi riproponiamo sul blog la storia più apprezzata del n. 17 

 

Eravamo fatti per stare insieme, due pezzi a incastro unico e irripetibile. Sognavamo di sposarci, di avere dei figli e di costruire la nostra felicità. Ma tra noi c’è sempre stata una rivale. Più forte della volontà, più potente del desiderio. Ha vinto lei

STORIA VERA DI MARTA T. RACCOLTA DA VINCENZA CASCIO

 

1992 primavera: portavo a spasso i miei 19 anni appena compiuti con genuina e ingenua bellezza, maglioni informi a confondere la vista di un corpo già sbocciato e un paio di sigarette in tasca, rubate di nascosto dal pacchetto di mia madre. Sognavo di avere la sua gestualità, lei che fumava con eleganza e naturalezza, invece tossivo convulsamente a ogni boccata. Avrei imparato anch’io e sarei diventata ufficialmente grande: a quei tempi, la sigaretta rappresentava un inevitabile battesimo.
Era di giovedì, il giorno dei matti, quando lo incontrai. Me ne stavo appollaiata sulla panchina del parchetto vicino a casa, con addosso un sole già caldo e un libro di Kafka tra le mani. Camminava lentamente sul marciapiede, dal lato opposto della strada che ci divideva, le mani nelle tasche dei jeans scoloriti, una T-shirt bianca che evidenziava un corpo scultoreo e braccia nervose, ma la cosa che più mi incantò furono i suoi capelli: una nuvola di boccoli, alla Shirley Temple per intenderci, lunghissimi e neri come il carbone. Più lunghi dei miei, che lunghi lo erano eccome, neri come i suoi, ma lisci. Rimasi stregata a osservare quello che mi parve un quadro bellissimo e insolito, incastonato dentro un’anonima cornice di paese.
Dovette percepire il mio sguardo incuriosito perché si fermò, si accese una sigaretta e avanzò sorridendo verso di me. “Fuma cosi bene” fu la prima, stupida cosa che pensai, prima di affogare immediatamente in uno sguardo verde. Sì, toglieva il fiato, non poteva essere del mio piccolo paese, ne avrebbero parlato tutti. «Ciao… Luca, piacere».

«Ciao, piacere mio, mi chiamo Marta». «Posso sedermi qui?».
«Certo, stavo solo leggendo».
«Kafka, uno dei miei preferiti. Hai letto Lettera al padre?».

«No, non ancora. Me lo consigli?». «Assolutamente sì. Te lo presto, se vuoi». Iniziò cosi, con un inconsapevole Kafka, che di certo avrebbe approvato questo incontro. Rimanemmo su quella panchina fino all’imbrunire, poi lui sembrò aver fretta di andarsene, non prima di avermi proposto di vederci il pomeriggio seguente.

«Alle cinque qui?».
«Si, alle cinque». Tornai a casa trascinandomi dietro una mente confusa e un cuore giovane che batteva troppo velocemente: il colpo di fulmine esiste eccome, dissi alla cornetta del telefono e a Manuela, la mia migliore amica. Le raccontai tutto e lei sognò insieme a me: la nostra gioventù era molto diversa da quella di oggi, era spartana, primitiva, semplice.
Il giorno seguente arrivai alla panchina alle cinque in punto e lo trovai già lì. Entrambi impacciati, le mani sudate e gli occhi incollati uno all’altra. La faccenda era chiarissima: condividevamo lo stesso fulmine, la stessa freccia scoccata da chissà chi. Iniziò così, dicevo, con un libro e un amore già scritto nelle stelle. Ogni giorno, alla fine del suo turno di lavoro e dei miei studi, c’incontravamo e parlavamo di noi per ore e ore, scoprendo di avere un’affinità mentale straordinaria. Circa due settimane dopo m’invitò a cena per il sabato sera: mi venne a prendere con la sua scassatissima 127 verde e andammo in un piccolo ristorantino bavarese, mangiammo bevendo birra e ridendo come due pazzi. Quanta maestria ci mette il destino, a volte, per permettere a due come noi d’incontrarsi e di stare così bene, così bene che è impossibile verbalizzare quanto, si può soltanto sentirlo e volare. Uscendo dal ristorante barcollai sui tacchi, che non portavo mai, mi appoggiai a lui ridendo e facendo una battuta sulla mia goffaggine, ma lui stavolta non rise, mi strinse forte contro il suo corpo e mi baciò. Restammo cosi per un tempo indefinito, sotto una pioggia timida e sottile, incurante di tutto quello che succedeva intorno a noi.

«Marta, io mi sono innamorato di te. Vuoi essere la mia ragazza?».
Si usava così una volta, si chiedeva il consenso per entrare nella vita e nel cuore di una persona, una cosa dolcissima che ora temo non succeda più, non in queste modalità.

La risposta che gli diedi credo sia prevedibile e quando mi chiese se volessi andare a casa sua risposi di sì. Una volta in macchina, però, si rabbuiò improvvisamente e non ne capii il motivo. Era calato un silenzio imbarazzante, cosi iniziai a parlare a ruota libera per colmare il disagio che sentivo dentro, fino a che lui m’interruppe: «Devo dirti una cosa importante Marta, prima che succeda tutto».

«Dimmi Luca, che succede?».
Accostò l’auto e la spense, il suo profilo perfetto stagliava la penombra. Si toccò nervosamente una ciocca di capelli e poi si mise le mani sul volto. «Luca, ti prego, dimmi quello che mi devi dire. Per favore».

«Marta, non ti sei accorta di niente, vero? Io sono un tossico. Mi buco da tre anni, la mia prima dose di eroina è stato un regalo per la sera dei 18 anni. Pensavo fosse un gioco, una volta sola, e invece no. Ho bisogno di eroina due volte al giorno. Senza, credo, morirei. La mia vita è un inferno Marta. Finora non ti ho mai parlato della mia famiglia e un motivo c’è, ed è giusto che tu lo sappia. Io non ce l’ho una famiglia: mia madre si prostituisce da sempre, non so chi sia mio padre e ho un fratello più grande di me che vive non so dove, credo in città, per la strada, eroinomane anche lui e malato di Aids. Non lo vedo da anni ormai, anche lui è figlio di nessuno. Io condivido con lei un appartamento nelle case popolari, non ho i soldi necessari per andarmene. Devo farmi, Marta, i soldi che guadagno lavorando mi bastano appena per quello. Mia madre si prostituisce in casa, ma ci vediamo poco. Vedo più gli uomini che entrano ed escono dalla porta della sua camera. Non ceniamo mai insieme, non abbiamo nessun tipo di rapporto o di scambio. Quando i soldi non bastano faccio piccoli furti: auto e autoradio, spaccio, qualche rapina. Sono un drogato, uno schifoso drogato e ladro, uno scarto umano e frequento un giro di gente come me. Di emarginati come me. Ho solo un amico che è fuori dall’ambiente, si chiama Mattia ed è il mio migliore amico. Lo conosco da sempre, è un bravo ragazzo, non capisco perché si ostini a starmi vicino, non credo di meritarmelo. E tutte le ragazze che ho frequentato finora sono della mia stessa pasta. Tu sei l’unica cosa bella che mi è capitata in questo schifo di vita, l’unica cosa per cui varrebbe la pena vivere e ricominciare. Ma io sono questo e tu lo devi sapere. Salvati amore mio, vai via, ti meriti un bravo ragazzo che non sono io, siamo ancora in tempo per dimenticarci. Vedrai che un giorno riuscirai a non pensarmi più. E dimmelo quanto schifo ti faccio, dimmelo in faccia. Non tremare Marta, non ti faccio niente, non aver paura di me. Ti porto subito a casa».

Mio padre una volta aveva detto che un drogato si riconosce non solo dall’aspetto, ma anche dall’odore di sterco. Non era vero: Luca sapeva di muschio bianco e tabacco. Scesi dall’auto sbattendo la portiera, senza dire parola. Mi aveva regalato un sogno e adesso se lo riprendeva. Io non potevo frequentarlo, chissà cosa mi avrebbe fatto. Picchiata, violentata, derubata? O sarei diventata anch’io una drogata? Scese dalla macchina e provò a trattenermi per un braccio, ma io lo respinsi con rabbia. «Non mi toccare, sei solo un bugiardo». Corsi via verso il portone di casa.

Passai tre giorni infernali, non mi rimanevano che le lacrime e un amore appena nato già in frantumi. Cosa avrei potuto fare se non disperarmi? Mi mancava come l’aria. Anch’io ero già drogata in fondo: di lui e dell’amore che provavo e che offuscava tutto il resto. Il quarto giorno lo aspettai fuori dal lavoro: erano le 14:07 esatte quando lo vidi avanzare in lontananza. Camminava con le spalle ricurve, in quel momento mi sembrò un uomo diventato improvvisamente vecchio, già vinto dalla vita. Non poteva andare così, non poteva finire tra noi. Eravamo fatti per stare insieme, due pezzi a incastro unico, mai più riproducibile. Io, così piccola, lo abbracciai talmente forte che temetti di fargli male. Iniziò una vita fatta di bugie su bugie dette ai miei genitori e di controllo serrato: non sapendo con chi parlarne e non conoscendo il suo mondo, pensai che la soluzione migliore fosse marcarlo stretto. Lui si bucava la mattina appena sveglio e nel tardo pomeriggio. Decisi che dalle 14 in poi, finito il suo lavoro e le mie lezioni in università, sarei stata sempre con lui. Comprai scatole su scatole di siringhe per evitarne l’uso con gli altri. L’aids stava diventando una piaga, dovevo proteggere lui e me stessa. Quasi due anni dopo lo costrinsi a entrare in una comunità di recupero: se davvero, come diceva, voleva sposarmi e avere dei figli con me, doveva farlo. Accettò. Furono sette lunghissimi, terribili mesi. Gli permettevano di chiamarmi una volta a settimana, per pochi minuti, e in quei frangenti piangeva e mi diceva che stava male, che non poteva starmi lontano. Lo pregai di resistere, che saremmo stati felici un giorno e finalmente liberi di gridare il nostro amore al mondo.

In quei sette mesi la disintossicazione fu durissima per lui: il metadone era una palliativo, ma piano piano iniziò a convivere nella sua reinventata pelle.

Chissà quando mi avrebbero permesso di rivederlo… Una mattina di fine estate, mentre uscivo di casa me lo trovai davanti al portone. Non credevo ai miei occhi. Era stanco e sudato, mi abbracciò, mi baciò fino allo sfinimento. Era scappato dalla comunità, non poteva stare lontano da me. «Marta, oggi andiamo al Sert. Continuo con il metadone fino a quando mi disintossicherò, ma non posso più vivere lontano da te. Se non mi uccide

l’eroina mi uccide l’amore. Marta, mi vuoi sposare? Mi sposi quando guarisco?».
«Sì amore mio, sì mille volte. Ma tu devi resistere, devi farlo per noi. Giuramelo». Lo fece. Per circa un anno, contiuò a disintossicarsi, andando al Sert ogni giorno. Stava rinascendo piano piano e la mia vita ruotava intorno a lui e alla sua guarigione: non ci staccavamo un attimo l’uno dall’altra. Misi i miei genitori di fronte alla realtà e fu terribile. Mi trasferii a casa sua, che era un degrado in tutti i sensi ,con la madre perennemente ubriaca, completamente fatta e in balìa di se stessa e degli uomini che ne violavano il corpo. A volte la sentivo piangere. Non mi rivolse mai la parola. Una mattina pulii tutto, comprai lenzuola nuove per il nostro letto, tende colorate e tante candele. La sua stanza, la nostra stanza, era pulita, quasi normale. Lui si commosse, alla vista del mio lavoro. Sembrava una vita destinata a diventare libera e felice, come la sognavamo.

Una sera, dopo tempo immemore, accettai l’invito delle mie amiche per un’uscita tra noi. Non le vedevo da tanto e avevo bisogno della loro compagnia. Raccontai loro come andavano le cose, si congratularono con me per il coraggio e la determinazione e dissero che il nostro amore, nonostante le difficoltà, era una passione da film. Tornai a casa sua e non lo trovai.

Tornò a notte fonda, con l’eroina nelle vene. Pianse, mi chiese scusa, aveva rivisto la vecchia compagnia. Lo picchiai forte, uno schiaffo in pieno volto che lo fece cadere, maledicendomi per aver pensato di essere più forte io. Era lei la più forte, era la droga quella che Luca amava di più.

Nemmeno questa volta però riuscii a lasciarlo. Luca era un tossicodipendente atipico: non mi chiese mai soldi, non mi derubò mai, non usò mai violenza contro di me, né fisica né verbale. Mi amava tantissimo. Spesso mi portava piccoli regali: una fedina d’argento, i miei cioccolatini preferiti, libri, fiori. I soldi che gli avanzavano li spendeva per me. Che avanzavano o che rubava. Ormai i rapporti con i miei genitori erano compromessi: mio padre arrivò a picchiarlo davanti ai miei occhi, una mattina. Lui non reagì, gli disse solo che ci amavamo davvero, che prima o poi sarebbe riuscito a diventare un uomo degno di me, che mi amava più della sua stessa vita. Stavamo insieme da sei anni ormai e la situazione era sempre la stessa: io che facevo la spola tra casa e farmacia, io che a volte, con estremo cinismo, nascondevo quello schifo sotto il maglione e lo costringevo ad astinenze terribili. «Ce l’ho addosso la tua schifezza, prendila, se hai il coraggio». E lui che cadeva a terra rantolando, sudando, implorandomi di dargliela. Alla fine gliela gettavo addosso e uscivo. Eravamo soli io e lui, senza vie d’uscita.

Ormai ero al limite della sopportazione. Una sera chiamai i miei genitori chiedendo loro se potevo tornare a casa: non ce la facevo più. Mi dissero di andare subito, che mi avrebbero aiutato e si ritrovarono davanti l’ombra della propria figlia, una ragazza provata, dimagrita, disperata. Luca venne a cercarmi la mattina dopo: ero in casa da sola ma non gli aprii la porta, accettai di parlargli brevemente dalla finestra. Era disperato, piangeva, mi supplicò di non lasciarlo, che ne sarebbe uscito per me, per noi, per i figli che avremmo avuto. Aveva in mano delle margherite di campo legate con un nastrino rosso e fu l’ultima cosa che vidi, abbassando gli occhi e chiudendo con forza la finestra. Non potevo più permettermi altre possibilità, erano andate tutte sprecate, sbriciolate. Passai giornate buie, infernali. L’amore è una droga, l’amore ti circola nelle vene e ti eleva in alto, l’amore disperato invece te le chiude.

Erano le sei di mattina quando il telefono di casa squillò. Rispose mia madre, la sentii mormorare, poi il suo: «Grazie, te la passo» . Era Mattia: tra i singhiozzi mi disse che quella notte Luca aveva avuto un incidente, «No Marta, non è vivo, mi dispiace tesoro, Luca non c’è più, ha rubato un’auto e si è schiantato contro le vetrine di un negozio». Overdose, malore, infarto, suicidio: non lo saprò mai. Corsi in obitorio e trovai la bara chiusa. Mi misi a urlare, fuori di me, dovevano farmelo vedere per l’ultima volta. Due infermiere mi presero dolcemente e mi portarono in una saletta, ma quello che successe poi è avvolto nel buio, nell’oblìo della mia mente. Ricordo solo una voce maschile che diceva: «Un altro ragazzo così…». La fine giusta e ovvia di un drogato, giusto? Voi tutti non sapete cosa celavano quelle vene sfatte, quelle braccia colabrodo. Non conoscete il suo sorriso, non avete mai visto il suo sguardo su di me. Ma io sì, io lo conosco, io so tutto.

Ho una famiglia ora, dei figli. E se da lassù esistono finestre, saprà di certo che uno di loro si chiama come lui. Che ha i boccoli neri come i suoi e i miei stessi occhi. È andata cosi, ma quanto mi manchi, ancora e per sempre, Luca.

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