Lui mi ha insegnato a essere madre

Cuore
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Vi riproponiamo sul blog la storia vera più apprezzata del n. 30

 

Quando è nato Diego ero poco più che una bambina e non ero pronta a fare la mamma. Eppure, anno dopo anno, io e mio figlio abbiamo costruito la nostra vita insieme, tenendoci per mano. E oggi mi godo il calore dei nostri affetti

STORIA VERA DI CHIARA ALBERTA PISCOPO

 

Da bambina, ero in grado di viaggiare all’unisono tra due realtà: quella che mi circondava e che si poteva toccare, e l’altra, la dimensione in cui potevo immaginare di sdraiarmi in giardino e aspettare che Peter Pan venisse a prendermi. Una sera, accompagnai mio fratello a prendere delle pizze e vidi un uomo alto quanto me, ma in tutto e per tutto, adulto. Gli occhi mi brillarono, credetti che fosse lui il mago, il folletto che avevo sempre cercato, quello che finalmente mi avrebbe portato in quei luoghi misteriosi e inaccessibili.

Purtroppo però, mio fratello mi disse che fissare una persona non era garbato, e quindi, fra le lacrime, mi lasciai riportare a casa. Ora so che esiste il nanismo e probabilmente quell’uomo era stato realmente offeso dall’ostinazione del mio sguardo. Ma per me invece, si trattava di un momento speciale, un momento che aveva acceso la luce della magia pura. Da ragazzina poi, non sono mai stata popolare, era facile prendermi in giro, risultavo ingenua, e per nulla carismatica. E credevo che ci fosse una sorta di nuvola fantozziana su di me. Quegli anni trascorsero in maniera tragicomica, per la mia tendenza alla teatralità e perché mi lasciavo travolgere dalle emozioni completamente. Raccontare di queste emozioni, oggi, è complicato, fare ordine nella mia storia è quasi impossibile. Io però, ho ben chiaro l’attimo in cui la terra si è aperta come una voragine spaventosa sotto i miei piedi, e quello invece, in cui i frammenti spigolosi della mia vita si sono connessi in modo del tutto naturale, trasformandosi in morbide onde. Questi due momenti così totalizzanti, riguardano la stessa persona, la stessa stupefacente vita, quella di Diego.

Era mattina. Spensi la sveglia, non avevo chiuso occhio. Par- lai poco, ma mia madre non se ne stupì, salutai frettolosamente e uscii. In metro mi aspettava Francesca, al tempo, la mia più cara amica, con un sorriso rassicurante. Mi prese la mano e cercò di convincermi che fosse lo stress a determinare quei 10 giorni di ritardo. Ma io volli comunque comprare il test. Insieme, nel bagno della metro, attendevamo, sperando che bastasse, per far finire tutto in fretta e bene. Due minuti che mi parvero lunghissimi. Positivo. Non sentii più niente, il mio corpo si svuotava come una carcassa vuota, avrei voluto urlare ma non avevo più voce, persi l’equilibrio e caddi tra le braccia della mia migliore amica. Ero disorientata, nauseata, paralizzata. Cosa dovevo dire? A chi? Mi sentivo come se stesse accadendo tutto a un’altra ragazza, come se mi guardassi da fuori, come se fossi una spettatrice. Come se la cosa non mi riguardasse, come se mi ritrovassi dietro un vetro, incapace di muovermi. Eppure ero viva ed ero incinta. Avevo 17 anni. A scuola chiesi di andare in bagno e lì piansi, distrutta. La mattinata era trascorsa e dovevo tornare a casa. Mia madre mi aveva già chiamato per sapere dove fossi. Al telefono fui concisa. «Scusami, arrivo, mancano due fermate». Mi sforzavo di pronunciare ogni parola ed ero consapevole che avrei voluto chiederle scusa per tante cose. Dopo aver inspirato a lungo, entrai in casa. Il pranzo era pronto per me. Per la prima volta, la guardai come se non l’avessi mai vista davvero.

Come se la mia più grande nemica fosse andata via, e fosse rimasta solo mia madre. Deglutivo massi pungenti di sensi di colpa, avrei dovuto dirglielo, invece non fiatai. Mi serviva il silenzio per pensare, per cercare una scialuppa di salvataggio. Chiesi di uscire, e andai da Manuel, il ragazzo con cui stavo da qualche mese. Avrei dovuto dirgli che sarebbe di- ventato padre, perché ero sempre più convinta che quel bambino, sarebbe rimasto con me. Mi aprì la madre di Manuel, che insieme a suo padre, mi accoglieva sempre con gioia. Lui dormiva al buio, in camera sua. «Ciao» Manuel aveva gli occhi ancora chiusi. Non risposi. Gli passai il test e a quel punto, non fui la sola a tacere per diversi minuti.

«Va bene, lo teniamo». Nemmeno lui ebbe dubbi al riguardo. Io, ovviamente, gli risposi di sì. Sembrava un lieto fine perfetto, ma quel buio innaturale, in quella stanza, assomigliava alla mia percezione del futuro. Dovevo trovare il coraggio per dirlo alla mia famiglia. E dovevo pure organizzarmi con la scuola, perché mi mancava ancora un anno per il diploma. Tornai a casa, ma uscii di nuovo, dovevo camminare. Non fermarmi, mi sembrava l’unico modo per non affondare. Senza sapere come, mi ritrovai a telefonare a Enza, una delle mie sorelle, quella con la straordinaria capacità di ascoltare, di attutire i colpi e di farti sentire meglio, la sorella che non si arrabbiava mai. A ogni squillo, ero tentata di metter giù, facevo ancora in tempo a tacere, a tenermi tutto dentro, ma lei rispose. Dopo tre parole, aveva già compreso, perché lei mi capiva sempre. E io le chiesi forse l’impossibile, le chiesi di starmi vicino e di portare via le mie paure, di darmi la forza, il coraggio. Ma non riuscimmo a parlarne subito, ci mise qualche ora prima di richiamarmi. Lo avremmo detto a Flavia, la sorella più grande, e insieme avremmo cercato il modo migliore per dirlo a nostra madre. Non mi sgridarono, non urlarono. Io sentivo, percepivo la loro agitazione, ma il desiderio, la voglia di comprendermi erano più grandi. Loro pensavano esclusivamente a cosa fare. Pensavano a me. Decisero che la cosa migliore fosse dirlo a nostra madre insieme. Enza inventò una scusa per far sì che ci ritrovassimo tutte da lei. Quando finalmente arrivammo, sapevo che la bomba era lì, pronta a esplodere. E allora mi fermai per guardarle tutte, per custodire e salvare, anzi salvaguardare, quell’immagine così forte.

«Che mi dovete dire? Cosa succede? Chiara, stai male figlia mia?». Gli occhi le si inumidirono, avrei giurato che stesse per svenire.

Poi Enza pronunciò le parole fatidiche.

«Mamma, Chiara è incinta». A quel punto, accadde l’inaspettato, anche se soltanto ora, mi rendo conto che mia madre non avrebbe potuto reagire in un altro modo. «Mamma mia, quistu è?». Parve riprendere fiato all’improvviso, come se un mostro avesse abbandonato il suo stomaco. «Pensavo fossi malata, ca tanivi nu bruttu male!». E pianse commossa. «Lu criscimu, ci imu fare?». Si asciugò il viso, le guance. «’Na vita è, basta ca stai bona fija mea». Per lei, contava solo questo. Che io non avessi un brutto male, che una vita nuova potevamo crescerla, ma non perderla. Mia madre si augurava solo questo per me, da sempre, che stessi bene. E che potessi finire la scuola, diplomarmi, lavorare, assumermi le mie responsabilità. A Milano, insieme a Manuel, che aveva già parlato con i suoi genitori, iniziammo a mettere insieme i primi pezzi della nostra lista. Il fasciatoio era indispensabile, la carrozzina pure. Cominciai qualche lavo- retto come baby-sitter e a fine estate, avevamo pronto un corredino di tutto rispetto. Mia madre mi iscrisse, come privatista, al mio ultimo anno di scuola superiore. Avrei studiato da casa e dato l’esame con i miei compagni. Nel cocente caldo estivo, il mio pancione cresceva, vivevo con Manuel e con i suoi genitori. E quando lui lavorava, ero sola. Restavo seduta sul divano, spesso in silenzio, chiusa in me stessa, a fissare il vuoto. Non riuscivo a dare una mano, non riuscivo a inserirmi. Volevo tornare a casa, a casa mia, e un giorno, finalmente accadde. Francesca mi venne a trovare e promise di starmi sempre vicina, ma non era più la stessa cosa.

Mio padre intanto, non mi parlava più, da quando aveva saputo del mio stato. E nel mio ventre avveniva la trasformazione più incredibile che avessi mai potuto immaginare. Sentivo che c’era una vita, e che il mio corpo la proteggeva. Io e Diego condividevamo il battito, lui mangiava con me, sentiva attraverso di me. Percepiva la luce e riconosceva qualche voce, e quando succedeva, mi dava pure un calcetto. Una notte, mi accorsi che quel momento era arrivato, che Diego stava per nascere. Mi accompagnarono di corsa all’ospedale. L’ospedale dove lavoravano Manuel e sua madre. Mi dissero di camminare, di stimolare le contrazioni, ma la stanchezza e il dolore aumentavano ogni minuto. Non avrei mai creduto che si potessero provare tanto dolore e tanta paura. Urlai, sempre più sfinita, passò la notte e pure la mattina. Poi per fortuna, arrivò un’ostetrica che mi aiutò. Mi calmò, sussurrandomi: «Io sono qui, il tuo compagno è qui, e noi, non ti lasciamo». Mi accarezzò la fronte. «Se stai cosi agitata, non uscirà mai, stai calma». Il suo viso era lì, vicino: «Io non me ne vado, ok?».

Così, dopo 14 ore, sentii piangere un bambino. Tutto rosso e viola, venne posato sul mio seno, vicino al cuore, tremava come una foglia sottile e piangeva. Mio figlio era nato. Poi, dopo aver dormito ed essermi ripresa, tanto da poter governare i pensieri, presi Diego in braccio, concedendomi il tempo di guardarlo. Sentivo di non aver mai compreso pienamente, come succedeva in quel momento, tutto quello che poteva significare aver scelto la sua vita. Niente contava di più di quella scelta. Poco dopo, entrarono tutti. Manuel e i suoi genitori, mia madre, le mie sorelle. Ci fecero tante foto, mi sentivo grande, adulta. E invece quando le riguardo ora, vedo una bambina. Dopo tre giorni, tornai a casa. Io e Diego saremmo rimasti da mia madre fino a quando non fossi stata in grado di essere indipendente. Non mi sentivo completamente in forma e credevo che fosse quella, la parte più complicata da affrontare. Finché non mi accorsi che Diego poteva piangere per ore e ore. E le giornate sembravano infinite e allo stesso tempo, non erano sufficienti per nutrirlo, pulirlo, cullarlo. Mi sentivo limitata, una fallita, ma andai avanti. Quando sei madre, non hai altre scelte, devi andare avanti. E inoltre, dovevo anche studiare, non era facile per niente. Nonostante le migliori intenzioni, in un atti- mo, si ristabilì imperioso l’impegnativo conflitto con mia madre. Lei cercava costante- mente di tenermi al passo. Ma io percepivo il suo atteggiamento come un soffocante, eterno rimprovero. Ma tentai di fare la mia parte, senza riserve. Cominciai un lavoro part time in un’azienda di moda. Tre giorni al lavoro. Quattro a studiare, per preparare la tesina. Sette su sette, con un fagotto a cui non sapevo come spiegare, cosa ne sarebbe stato di noi. Discutere con mia madre era l’attività più estenuante, e quando non ressi più, feci i bagagli e tornai a vivere da Manuel. Oggi so che è stato l’ennesimo dolore che le ho dato, ma in quel momento dovevo trovare un mo- do per allentare la tensione e quell’allontanamento era necessario. Nemmeno a casa di Manuel era sempre facile trovare il perfetto equilibrio, però io non mi arrendevo. Presi il diploma finalmente, spuntandola con una sufficienza piena. Viste le circostanze, mi ritenevo soddisfatta, mi sentivo fiera di me. All’uscita, Francesca mi sorrise felice, Manuel portò dei fiori e con i nostri amici festeggiammo senza sapere se davvero ci fosse qualcosa per cui essere felici. Osservai i miei piedi. Erano in bilico, a metà tra la ghiaia del cortile e l’asfalto dei parcheggi. Mi fermai un attimo a pensare. Anch’io ero in bilico: ero una ragazza giovanissima, ma facevo il mio ingresso nel mondo degli adulti. Ma quel giorno, mi comportai come se vivessi in un pomeriggio normale. Uno di quei pomeriggi in cui si finisce la giornata a scuola, si ride con gli amici di stupidaggini e si rievocano marachelle, drammi e piccole follie. Diego era così piccolo, ma mi guardava attento, credendo che io avessi tutte le risposte. Lui dipendeva da me, si affidava a me. Ma io, così giovane, avevo meno risposte di chiunque, e non potevo neanche dirglielo, non potevo confidarmi con lui.

Durante la notte, era il suo pianto a svegliarmi, a commuovermi. Diego aveva fame, voleva che gli cambiassi il pannolino o semplicemente, aveva bisogno di me, della persona di cui si fidava di più a mondo. Anno dopo anno, Diego e io, abbiamo costruito la nostra vita insieme, e contro ogni pronostico nefasto, oggi vedo con sollievo e gratitudine le mura della nostra casa, il calore dei nostri affetti. E il fatto insindacabile che io sia cresciuta tantissimo e che nulla più possa spaventarmi così tanto. Qualcuno nel tempo, aveva provato a ferirmi, a giudicarmi. Avevo forse dei pessimi amici, ma anch’io sono stata deludente come amica, assente magari. E ho ferito sì, tanto quanto loro. Ma quello che ho compreso, che ho imparato in questi anni, lo devo soprattutto, se non esclusivamente a lui, al mio bambino. Mio figlio mi ha insegnato a essere sua madre, mi ha tenuto la mano e ha camminato con me. Ha costruito con me e per me, il migliore dei mondi possibili.

Così oggi, come dieci anni fa, guardarlo negli occhi cancella i miei confini, i miei limiti, quel senso di fallimento che mi portavo addosso.
Non sono perfetta, gli errori non mancano, ma c’è lui con me, mi guarda, mi vuole bene sul serio, e so con certezza, che questa vita ci ha voluti insieme. E insieme scriviamo capitoli meravigliosi camminando sul filo del tempo, di questo tempo, del nostro tempo.

Da quando Diego è comparso nella mia vita, piccolo come un chicco di sabbia, abbiamo visto tante cose insieme. Lo spettacolo più bello è stato sentirlo parlare, vederlo camminare, scoprirlo gentile. Scoprire la bellezza dei suoi capelli, delle sue ciglia, dei suoi occhioni che cambiano sempre colore e che mi permettono di fare un viaggio sempre diverso.

Una volta quel bambino mi parlava piangendo, adesso si cimenta in discussioni vere e proprie. E io sono fiera persino dei nostri conflitti, che però si sciolgono sempre in un abbraccio e che mi insegnano, e che mi rivelano la sua intelligenza e la sua maturità. Oggi è lui, quando torno a casa, a chiedermi come sto, a preoccuparsi per me. Mi chiede del lavoro, è incuriosito da quello che leggo, e quando apro la porta e me la chiudo alle spalle, lascio che si ripeta la stessa magia. Quella magia che io cercavo da bambina, quella magia che ho sempre sentito, percepito come reale, ma che non sapevo dove fosse, come si realizzasse. Ora lo so. Ti voglio bene Diego. Ti voglio bene mamma! ●

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