Mi chiamava Principessa

Cuore
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Riproponiamo nel blog una delle storie più apprezzate del n. 7

Mia nipote Mirta non ha ancora trovato l’amore, le vedo negli occhi un’ombra di tristezza. Così decido di raccontarle la favola mia e di suo nonno, due giovani innamorati e senza un soldo, che hanno sfidato ogni avversità per stare insieme

STORIA VERA DI LUDOVICA M. RACCOLTA DA GIOVANNA BRUNITTO

 

Dopo due anni di pandemia e di isolamento, mia nipote Mirta passa a trovarci spesso. Si ferma a parlare con me e mio marito e ama ascoltare le nostre storie antiche, così le definisce. Credo abbia ragione, un po’ antichi siamo visto che entrambi superiamo gli 80 anni. L’altro giorno mi ha chiesto come ci siamo conosciuti io e il nonno e, oltre alla curiosità, le ho visto riflesso negli occhi un’ombra che denuncia il suo sentirsi sola, il non aver trovato ancora un amore. L’isolamento forzato non ha aiutato le persone a stare insieme e i giovani ne hanno sofferto tanto. Le ho accarezzato i meravigliosi capelli e le ho sorriso. In quel momento ho deciso di raccontarle la nostra storia, cosa che non ho fatto con nessun altro. Un po’ per pudore, un po’ perché quando il tempo passa poi certi eventi perdono di significato o ne assumono uno diverso. L’ho fatta sedere vicino a me e sono partita da lontano.

Uno dei primi ricordi della mia infanzia è una sorta di fotografia, vedo la signora Maria, la portinaia del mio palazzo, che avvolta in uno scialle di lana grezza tossisce continuamente. Era appena finita la guerra e tutte le persone, chi più e chi meno, facevano i conti con il poco cibo a disposizione e con la salute precaria. Noi abitavamo in un bel palazzo in via Meravigli a Milano, uno dei pochi che non fosse stato abbattuto dalle bombe che avevano devastato la città. Oltre all’appartamento, mia mamma aveva ereditato anche diverse quote dell’azienda di famiglia di minuteria meccanica che, subito dopo la guerra, aveva iniziato di nuovo a prosperare. La città era da ricostruire, c’era molto da fare ma c’era anche un disperato bisogno di cura perché le malattie avevano spesso la meglio sulle persone, proprio come quella che aveva colpito la signora Maria. Mia mamma proibiva a noi figli qualsiasi contatto con lei, ma io ero caparbia e appena potevo andavo a trovarla. Lei era gentile e, seppur non mi facesse entrare in casa, aveva sempre un gesto carino per me. Qualche mese dopo che eravamo rientrati dalla casa di campagna dove eravamo sfollati, iniziai a tossire anch’io. All’inizio mi curò mia madre con rimedi casalinghi, caldo del letto, decotti di mele, miele e riposo, ma quella tosse cattiva e stizzosa non andava via. Allentava un po’ la presa per qualche giorno e poi si ripresentava. A un certo punto fu chiamato il nostro dottore che sentenziò per me il mal sottile, ero affetta da tubercolosi e avevo appena sette anni.

A questo punto Mirta fa un balzo dal divano e mi fissa, quasi spaventata. La invito a risedersi e le dico che noi umani con batteri e virus abbiamo sempre combattuto, non è una novità di oggi. Le sorrido per rassicurarla e vado avanti. Mi chiusero in una stanza della casa, mi isolarono e dovetti stare lì tutto l’inverno. Mia mamma mi portava da mangiare e mi faceva studiare passandomi i compiti attraverso la porta. La primavera portò sollievo e finalmente potei uscire. Alcuni farmaci che il dottore aveva prescritto mi avevano aiutato ad alleviare i sintomi, ma molte cure in quegli anni non c’erano ancora, bisognava sempre stare attenti e soprattutto evitare i contatti il più possibile con altre persone. La mia infanzia è passata così, ascoltando dalla finestra le voci degli altri bambini che giocavano in cortile. Qualche anno dopo i miei genitori decisero che avrei ripreso la scuola, le cure facevano effetto anche se ero sempre pallida e molto esile. Prima però di affrontare l’anno scolastico direttamente in terza media, decisero di farmi trascorrere un periodo in sanatorio.

Era il 1953 e in Lombardia ce n’erano diversi dove, in particolari i bambini e ragazzi affetti da tubercolosi, potevano soggiornare per essere curati e per respirare l’aria buona di montagna che si pensava facesse bene. Io fui destinata a Sondalo in Valtellina. Non ricordo molto del primo viaggio, ma la stanza che mi assegnarono era confortevole e potevo vedere le montagne. Feci conoscenza con qualche altra bambina, ma alla fine ero sola anche lì.

A settembre quando la bella stagione stava per finire arrivò in sanatorio Livio. Lo notai subito perché aveva una coppola che non si toglieva quasi mai e dovunque era lo si poteva individuare. Eravamo tutti in camici bianchi e, specie i ragazzi ai quali venivano rasati i capelli, sembravano tutti uguali, tranne appunto Livio. Mirta adesso sorride e guardo suo nonno davanti alla tivù nella stanza accanto, con ancora la sua coppola ben calcata in testa. Una mattina Livio mi si avvicinò e con fare brusco mi chiese se fosse vero che io avevo una stanza tutta per me.

Annuii, un po’ intimorita, ma lui si inchinò e mi disse una frase che mi accompagnò per tutto l’inverno. «Allora avevo visto giusto, sei una principessa!».

Da quel giorno ogni volta che mi passava davanti si inchinava. Io non capivo se lo facesse per prendermi in giro o se fosse serio, ma mi faceva piacere trovarmelo intorno. Da quando c’era lui, le giornate avevano preso un ritmo diverso. L’ultimo giorno lo salutai e lui mi allungò la mano, gliela strinsi. Con un sorriso impacciato mi disse che sarebbe tornato a fine primavera prossima e, diventando rosso fuoco, gli dissi che sarei tornata anch’io. L’esame delle medie richiese più tempo del previsto, ma a metà giugno era tutto finito con esito positivo. Potevo partire per il mio soggiorno estivo con gran stupore di mia madre che per la prima volta mi vedeva contenta di andare a Sondalo.

Quando arrivai vidi Livio sul balcone a prendere il sole. Era lui non c’era dubbio, la coppola era la stessa, ma era diventato più alto e aveva un’espressione più adulta che non ricordavo. Il giorno dopo mi raggiunse mentre prendevo il sole, attività obbligatoria in sanatorio, e restò vicino a me in silenzio. Vedevo che mi studiava e lo lasciai fare, anche perché non conoscevo le parole da dire a un ragazzo. Poi piano piano con il passare dei giorni iniziammo a parlare. L’estate volò in un baleno. Con Livio c’era sempre qualcosa da fare, una passeggiata, un gioco, la ricerca di funghi o di frutti nel parco che circondava il sanatorio. A settembre ci salutammo e lui allungò di nuovo la mano, io lo attirai a me e lo abbracciai. Quando mi scostai ci ridevano gli occhi di una gioia imprevista per entrambi.

Le due estati che seguirono ci servirono per imparare a innamorarci. Livio abitava a Milano, in zona Porta Ticinese, era il quarto di sette figli e la sua famiglia
era di origini modeste. Sua mamma era lavandaia e suo papà ciabattino, lui era garzone da un fabbro e stava imparando i segreti del mestiere. Quanto, insomma, di più lontano si poteva immaginare dalla mia famiglia. Avevo riflettuto molto su di lui, in inverno mi sembrava che la nostra storia fosse lontanissima,
ma poi con l’avvicinarsi della primavera venivo colta da una frenesia incontrollabile che mi faceva saltare solo se scorgevo qualcuno con la coppola. Di tutto quello che mi passava in testa, del mio vagheggiare un futuro incerto con lui, la mia famiglia non sapeva né sospettava nulla. Ero una figlia obbediente e studiosa, frequentavo le magistrali, e questo bastava. L’uso degli antibiotici aveva fatto sì che la tubercolosi potesse essere curata definitivamente e il soggiorno a Sondalo dei miei 18 anni sarebbe stato l’ultimo. Ormai ero guarita. Anche Livio che era diventato un giovane uomo stava bene, ma fingeva tosse e malesseri per tornare a Sondalo. Insomma, quella era la nostra ultima estate e la trascorremmo insieme ogni minuto che ci fu concesso. Sapevamo entrambi che la nostra storia fuori da lì sarebbe stata impossibile. Il sanatorio, per quanto fosse in pratica un ospedale, era il nostro luogo, ci proteggeva e ci nascondeva agli occhi del mondo che per una coppia come la nostra non aveva spazio. Quell’estate ci siamo amati nel parco. Un albero è stato il nostro tetto e il manto erboso il tappeto sul quale ci siamo stesi. La suora che aveva visto il mio camice tutto sporco d’erba mi aveva ripreso aspramente, ma la dolcezza e lo stupore dell’amore che mi aveva invaso mi rendeva felice al di sopra di ogni cosa. Amavo Livio e lui amava me, il resto non contava. Lui diceva che io ero e sarei stata sempre la sua principessa.

A me questo bastava.

Mirta ride perché conosce il nonno e sa che, nonostante i pensieri annebbiati degli ultimi anni, è un uomo appassionato e sa dimostrarlo anche a lei con abbracci infiniti. Talvolta, pensando a Mirta e alle altre mie nipoti mi chiedo se nella loro vita conosceranno mai una passione così forte da riuscire a trascorrere mesi senza vedersi né sentirsi, ben sapendo però che l’altra persona è lì e attende. Talvolta le vedo spaesate, sempre in comunicazione con qualcuno con il quale però non dialogano mai veramente. Forse il mio è solo il giudizio di una vecchia signora, ma se Livio potesse capire quello che dico, so che approverebbe. Io e lui abbiamo combattuto l’uno per l’altra e ci siamo detti chiaramente le cose che contavano e contano sempre anche quando non si è vicini. Il nostro accordo prevedeva che saremmo tornati in città e ciascuno avrebbe parlato con la propria famiglia, poi ci saremmo scritti gli esiti e avremmo proseguito la nostra storia. Livio era diventato un fabbro provetto e io avevo terminato le magistrali, avrei insegnato e insieme avremmo trovato casa. Quando ho parlato a mia madre di Livio, lei è praticamente svenuta. È venuto fuori un tale disastro, un caos che ha scosso la mia famiglia. Nessuno si aspettava da me una tale disobbedienza, una tale caparbietà, ma non ho cambiato idea nonostante abbiano provato tutti a dissuadermi. L’inverno è stato lunghissimo e non sono mai potuta uscire di casa, né in qualche modo scrivere a Livio, ma io sapevo che lui era lì che mi aspettava. Mirta mi chiede come facessi a esserne così sicura e le do una risposta birichina che ci fa ridere entrambi: «Quando due hanno tossito insieme per un paio di estati intere, niente più ti può dividere». E poi io ero certa che nessuno al mondo mi avrebbe chiamato principessa, Livio lo faceva e ogni volta il cuore mi balzava in petto. Sono dovuti passare tre anni prima che potessi rivedere Livio da sola, prima della maggiore età non mi hanno fatto uscire di casa. Gli avevo scritto tramite una ragazza che lavorava in sartoria, che vedendomi piangere mi aveva chiesto cosa avessi. La mia confessione accorata l’aveva toccata e mi aveva aiutato a mantenere la corrispondenza. In pratica abitavamo a una manciata di chilometri di distanza e ci scrivevamo per fissare degli incontri che funzionavano così: a tal ora, del tal giorno, di solito domenica, tu stai alla finestra che affaccia in strada e io passo e ti saluto, resto lì finché posso, mi riconosci dalla coppola, quando devi andare accosta la tenda e io capisco. Come spiegare a Mirta quelle domenica di attesa alla finestra? Chissà se poi a parole le sensazioni, l’amore si possono raccontare per davvero nella loro intensità. Non so se Mirta possa capire, ma lei mi prende la mano e me la stringe. Mi dice: «Continua, nonna». Arrivata la maggiore età, inizio a insegnare alle elementari e ad avere qualche libertà in più. I miei genitori non approvavano la mia scelta e la mia caparbietà e neanche capivano perché volessi sposare un uomo di umili origini che, a sentir loro, mi avrebbe fatto fare la fame. L’ultimo gesto sgarbato fu quello di diseredarmi dal patrimonio di famiglia, mi dissero che visto che non cambiavo idea me la sarei dovuta cavare con i miei guadagni e quelli del fabbro.

Lo chiamavano così. L’anno dopo io e Livio ci sposammo. Fu una cerimonia semplice in Comune, alla quale la mia famiglia non partecipò. Non avevamo soldi per un banchetto o altro e ce ne andammo insieme a mangiare sui Navigli. Uno dei pranzi più belli che io abbia mai fatto. La trattoria El Brellin aveva appena aperto al posto di una drogheria che riforniva le lavandaie di Milano di acqua calda, spazzole e sapone per il loro lavoro. Livio aveva eseguito dei lavori di restauro per loro e fu accolto come un cliente più che importante. Da lì è iniziato il nostro matrimonio. Qualche anno dopo Livio ebbe una recrudescenza della tubercolosi, malattia che resta silente nel corpo di coloro che l’hanno avuta e che può in particolari condizioni riacutizzarsi, e dovette smettere il duro lavoro di fabbro che tanto gli piaceva.

La giovane Mirta che di tutto questo non sapeva niente, né credo avesse mai potuto sospettarlo, mi fissa quasi incredula. Lei ci ha conosciuto come due vecchi in gamba e tranquilli che abitano ai margini della città in una villetta a schiera, niente a che fare con i due giovani innamorati, poveri e malaticci che invece siamo stati.

Ci spostiamo in cucina per bere una tisana, mi piacciono quelle al rabarbaro che hanno un fondo amaro, come qualcosa di nascosto di cui però bisogna sempre tener conto. Mentre preparo, Mirta ha mille domande scritte negli occhi. La guardo e continuo. Il ripresentarsi della malattia di Livio in realtà ha avuto un aspetto positivo, ci ha costretto a pensare di fare qualcosa di diverso. Così abbiamo messo insieme i pochi risparmi che avevamo e abbiamo aperto il primo negozio di ferramenta in centro. Ne sono seguiti altri e durante gli anni è capitato anche di aiutare economicamente mia sorella e mio fratello che in poco tempo hanno dissipato il patrimonio lasciato loro dai miei genitori.

Io e Livio, nonostante tutto, ci siamo sempre fatti forza l’uno con l’altra, anche nei momenti nei quali siamo stati lontani. L’aver attraversato insieme quella malattia ci ha avvicinati in un modo profondo e ci ha reso accettabili anche le asperità che inevitabilmente ci hanno colpito durante la vita, compreso l’offuscamento dei pensieri di Livio.

Mirta mi abbraccia e mi dice che vorrebbe tanto amare e essere amata così intensamente. Le dico di tenere aperta la porta del cuore, di non chiudersi in se stessa e di uscire, di incontrare amici, di farsene nuovi perché prima o poi arriverà anche per lei la persona giusta. Poi mi affaccio nella stanza accanto e Livio si gira, mi sorride, non so se in questo momento mi riconosce o no. «Principessa» dice «mi porteresti un bicchier d’acqua?». E io commuovo. ●

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