Non ho l’età

Cuore
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Si può ancora amare a 80 anni? Scorprilo leggendo la storia preferita del numero 47

Posso amare di nuovo alla soglia degli 80 anni, quando mi pensavo al riparo dalle tempeste emotive? Sì, perché dopo una vita di doveri e sacrifici in funzione della famiglia ho finalmente conosciuto la felicità. E non intendo rinunciarci (checché ne dicano le mie figlie!)

Storia vera di Maria N. raccolta da Sabrina Bergamini

 

Non ho l’età, non ho l’età, per amarti…” cantava una giovanissima e pudica Gigliola Cinquetti nel lontano 1964 conquistando il podio di Sanremo e il cuore di milioni di italiani. Le stesse

parole mi sfiorano le labbra oggi, a distanza di più di mezzo secolo, mentre mi ripeto nella mente che no, non ho più l’età per amare alla soglia dei miei 80 anni. Eppure, è così. Non posso farci niente, non voglio farci proprio un bel niente. Questo sentimento ha bussato alla mia porta, inatteso e spregiudicato, quando da moltissimo tempo avevo detto addio agli assalti dell’amore, o forse senza averli mai conosciuti veramente, quando mi sentivo al riparo da qualsiasi tempesta emotiva e credevo il mio cuore atrofizzato per sempre, votato alla fedeltà di un uomo morto troppo presto e da troppo tempo.

Invece, quel cuore, ha iniziato a battere al galoppo, una mattina d’inverno, e non ha più smesso di farlo, e dopo aver scongiurato l’imminenza di un infarto, ho capito. Ho capito quanto sia bello tornare a sentirsiviva. E quella porta prima l’ho sbarrata, colta da una paura folle, ma subito dopo l’ho aperta e ho deciso di lasciarla aperta, anzi ho deciso di spalancarla completamente per lasciare libero il passaggio a tutti i fantasmi del passato, ai pregiudizi del presente, al rigore che da sempre mi ha contraddistinta e lasciare entrare finalmente la gioia, la felicità senza condizioni. Ho dovuto aspettare di non avere più l’età per raccogliere tutto il coraggio che ho e trasgredire per la prima volta nella mia esistenza votata al sacrificio, al dovere, al dolore.

Sono nata in Libia, dove la mia famiglia si era trasferita durante il periodo del colonialismo con la promessa di un pezzo di terra, una casa, mezzi di sostentamento. Lì ho trascorso un’infanzia felice e serena ma con la fine della Seconda guerra mondiale le cose iniziarono a cambiare, la vita di noi coloni si fece sempre più difficile e mio padre decise di far rientro in Italia ancora prima che il colpo di stato del colonnello Gheddafi decretasse l’espulsione degli italiani e la confisca di tutti i loro beni. Ricordo ancora quel viaggio di ritorno su una nave mercantile, la paura negli occhi di mia madre che stringeva al petto gli unici tesori che le restavano: i suoi figli. Sbarcammo a Catania dove fummo accolti in una specie di campo profughi. Ancora oggi, dopo tanti anni, ho chiara l’immagine di mio padre seduto su un vecchio materasso con la valigia accanto che china la testa e si mette a piangere. Fu la prima e l’ultima volta che vidi scorrere lacrime sul suo viso sempre allegro. Non avevamo più nulla. Avevamo perso tutto. Dopo alcuni mesi ci trasferimmo in Piemonte, ospiti di parenti, e lentamente iniziammo una nuova vita, fatta di mille sacrifici e tanto lavoro. Io rimpiangevo tutto di Tripoli: il suo vento caldo che soffiava dal deserto, i suoi inverni miti, i profumi della sua terra, il nostro villaggio popolato da tanti altri esuli con cui condividevamo serate e feste in allegria. Mi mancavano la mia scuola, la mia maestra, i miei amici. In Italia dovetti iniziare a lavorare per contribuire all’economia familiare e questo mi aiutò in parte a mitigare la tristezza e dimenticare la nostalgia: bisognava guardare al presente, rimboccarsi le maniche. Dopo un po’ di tempo, riuscimmo a prendere in affitto una casa tutta nostra, a stringere nuove amicizie e ritrovare una certa routine.

Nel frattempo, quasi senza rendermene conto, ero  diventata una bella ragazza dalle forme generose che non passavano inosservate. Un pomeriggio d’estate mi recai al cinema con un’amica e all’uscita notai un giovanotto che mi fissava. Era bello come uno di quegli attori appena visti sullo schermo, forse anche di più. «Posso offrirle una sigaretta?» mi chiese avvicinandosi.

«Non fumo» risposi sentendomi le guance diventare rosse come il vestito che indossavo.

«Allora posso offrirle una caramella?» domandò porgendomene una. È così che iniziò la mia storia con Giovanni, un ragazzo siciliano arrivato in Piemonte per prestare il servizio di leva e rimasto con la speranza di trovare un buon posto di lavoro in una delle tante fabbriche che stavano iniziando ad aprire, una dopo l’altra, segno del boom economico che avrebbe travolto l’intero Paese negli anni immediatamente successivi.

Ci sposammo esattamente tre mesi dopo quel primo incontro. Presto restai incinta della nostra primogenita Anna Maria e alla sua nascita seguì quasi immediatamente quella di Carlo. Eravamo

una famiglia felice? Ero felice? Non erano domande che si facevano un tempo, quando da una donna ci si aspettava che semplicemente adempisse ai suoi doveri: si sposasse, avesse dei figli, si prendesse cura della propria casa, rispettasse il marito, abbassasse la testa e sopportasse. Ed è questo che ho fatto.

Ho abbassato la testa e ho sopportato. Ho abbassato la testa davanti a un marito geloso in modo assurdo, capace di chiudermi in casa e portarsi via le chiavi per non farmi uscire. Ho abbassato la testa davanti a un marito autoritario che non ammetteva di essere contraddetto. In definitiva, ho consegnato la mia intera esistenza nelle sue mani. Convinta, in fondo, di fare la cosa giusta. Perché nessuno mi aveva insegnato a rispettarmi, a darmi il giusto valore, ad avere idee in cui credere. E quelle di mio marito davo per certo fossero migliori delle mie. E poi lo amavo, certo. Ma allora, in fondo, quanto sapevo dell’amore?

Ancora una volta, comunque, non avevo molto tempo per fermarmi a rimuginare, avevo una famiglia da mandare avanti e non senza difficoltà. Il tanto agognato posto fisso in una delle numerose aziende ormai presenti sul territorio non arrivò mai. Giovanni in fabbrica si sentiva male, era allergico alle vernici, aveva continui attacchi di asma. Così andavamo avanti con i piccoli lavori che sempre riusciva a trovare, ma senza la sicurezza di uno stipendio, fino a quando riuscì a entrare nelle Ferrovie dello Stato e finalmente potemmo tirare un sospiro di sollievo e iniziare a vivere in modo più sereno. La serenità, tuttavia, ho sempre sospettato che non amasse sostare a lungo tra le quattro mura della nostra casa.

Anna Maria aveva appena 17 anni quando si innamorò di un uomo più grande di lei, una persona timida e perbene che si presentò alla nostra porta una domenica per chiedere il permesso di frequentare nostra figlia. Permesso che ovviamente mio marito negò. Così dopo mesi di fughe notturne che io cercavo di coprire come meglio potevo, dopo infinite sfuriate e liti, mia figlia decise di fuggire di casa e vivere liberamente il suo amore. In realtà più che verso il grande amore, Anna Maria stava scappando da quel padre padrone che le impediva di vivere liberamente la sua giovinezza. Quando tutto questo accadde, io ero incinta.

Mentre perdevo una figlia, un’altra cresceva dentro al mio grembo. Tiziana nacque un freddo giorno di febbraio. Bellissima, ribelle e molto viziata dal fratello, da me e persino da quel

padre così severo che per la prima volta assaporò il gusto della tenerezza. A lei regalammo tutto quello che ai nostri primi due figli non avevamo potuto concedere: enormi coppe di gelato la domenica pomeriggio in collina, bambole di ogni genere, vacanze d’estate, montagne di vestiti. Nel frattempo passarono gli anni. Ne dovettero passare nove prima che potessi riabbracciare mia figlia che nel frattempo mi aveva reso nonna due volte. Accadde quando mio padre morì e lei si presentò al funerale tenendo per mano le sue bambine. Mio marito, per la prima volta, abbassò la testa. Fece due passi verso di lei e la strinse in un abbraccio lungo quanto i giorni che li avevano separati. Eravamo di nuovo una famiglia unita, felice. Ogni domenica ci riunivamo nella grande casa che eravamo riusciti a comprare grazie a tanti sacrifici. Per la prima volta mi sentivo al riparo dalle tempeste della vita. Finalmente serena, appagata.

Ma anche questa volta, durò poco. Due anni più tardi a Giovanni venne diagnosticato un tumore ai polmoni. Nonostante un tempestivo intervento e lunghi cicli di chemioterapia, morì nel giro di pochissimo tempo. Avevo 49 anni quando restai vedova. Ero ancora così giovane, eppure, mi sentivo così vecchia. Gravavano sulle mie spalle tante responsabilità.

Ero rimasta sola con una figlia di dieci anni che frequentava la quinta elementare. Non mi attraversò mai la mente che potessi rifarmi una vita, che potesse esserci spazio nel mio cuore per

un altro amore. Del resto, avevo altro a cui pensare.

Carlo, mio figlio, fresco di matrimonio, sembrava intenzionato a non mettere la testa a posto. Da ragazzo ci aveva fatto preoccupare per qualche spinello trovato sotto il materasso e un richiamo da parte del suo superiore per possesso di sostanze stupefacenti durante il periodo del militare, ma dopo una bella ramanzina tutto era stato archiviato come semplici bravate. Un giorno, invece, la moglie si presentò nella mia cucina con il viso gonfio di lacrime e iniziò a sgranare un rosario di cattive notizie: Carlo beveva, tornava a casa ubriaco, faceva uso di sostanze ben più pesanti di un semplice spinello, rischiava di perdere il lavoro e lei minacciò di lasciarlo se la situazione non fosse cambiata. Alle minacce seguirono i fatti. Carlo tornò così ad abitare a casa mia e iniziò un valzer interminabile di ricoveri presso comunità, gruppi di sostegno, servizi sociali. Mi rivolsi persino a un prete invocando il suo aiuto e le sue preghiere. Anna Maria a lungo ci fu accanto in questa battaglia contro la droga, infine buttò la spugna e si arrese al fatto che il fratello fosse ormai irrecuperabile. Carlo morì per overdose nel ’97, il suo corpo fu ritrovato sotto un ponte vicino a Lambrate, quando da giorni non ricevevo sue notizie.

Un sabato mattina di gennaio, due Carabinieri si presentarono alla mia porta. Quando li vidi non servirono parole. Tiziana si mise a strillare in preda a una crisi isterica, adorava suo fratello, io al contrario fui avvolta da una calma soprannaturale. Dai miei occhi non uscì nemmeno una lacrima, le avevo spese tutte durante quella che era stata una lunga agonia e da tempo presagivo la fine. Poi, gli anni passarono. Le mie nipoti si fecero adulte, Tiziana diventòuna donna bella e autonoma. Anna Maria rimase vedova anzitempo ma non restò sola troppo a lungo.

E io? Io restavo immobile a guardare scorrere gli eventi, la vita degli altri, come una grande statua di sale. Sempre presente, sempre pronta ad aiutare quelle due uniche figlie che mi erano

rimaste e che puntualmente avevano bisogno di consigli, piccoli sostegni economici, incombenze da risolvere.

Un giorno mi guardai allo specchio e mi resi conto di quanto ero invecchiata. Contai le rughe, poche a dire il vero, che solcavano il mio viso e calcolai che a breve avrei compiuto i famigerati 80 anni. Mi resi conto, in quel frangente, di quanto poco ero ormai utile alla mia famiglia.

Le nipoti le vedevo solo durante le feste comandate, Anna Maria passava una volta a settimana per accompagnarmi a fare la spesa, Tiziana la vedevo ancora meno spesso. Mi sentii improvvisamente inutile e sola. Durante l’estate inciampai in un vaso, slogandomi la caviglia.

Costretta al riposo, iniziai a trascorrere molto tempo in terrazza, con il naso dentro a qualche libro o lasciando semplicemente vagare lo sguardo sul mio quartiere ormai quasi del tutto abbandonato. Un giorno notai un uomo alla finestra, proprio di fronte a me, che mi fissava. Non lo avevo mai visto prima, di certo si era trasferito da poco. Iniziammo a fare conoscenza. Ci univa la stessa passione per i fiori e così iniziammo a scambiarci consigli, poi a scambiare qualche commento banale sul tempo, il caldo insopportabile e infine ci ritrovammo a raccontarci le nostre vite.

«Deve trovarla una tragedia la mia esistenza. Con tutti questi drammi. Però mi creda, non lo è stata. In mezzo a tanta sofferenza sono sempre riuscita a intravedere il verde della speranza, l’azzurro del cielo. Sono sempre riuscita a ritagliarmi un angolo di pace dentro me stessa. Non vorrei suscitare in lei sentimenti di compassione o pena» dissi a Luigi, dopo avergli svelato la mia vita così travagliata.

«Assolutamente no. Non provo pena per lei, al contrario. Provo una grande ammirazione. È una donna meravigliosamente coraggiosa e questo coraggio nessuno glielo ha mai riconosciuto. E poi le sofferenze non hanno cancellato la bellezza nel suo sorriso» rispose, mettendomi in imbarazzo come non accadeva dai tempi del vestito rosso che indossavo la prima volta che conobbi mio marito.

I nostri incontri si fecero sempre più assidui. Oltre all’amore per i fiori, scoprimmo di condividere la passione per il liscio. Mi promise che appena guarita mi avrebbe portato in una sala da ballo che frequentava prima che sua moglie morisse. «Per carità. Sono trascorsi così tanti anni che non saprei più riconoscere una mazurca da un valzer» risposi scoppiando a ridere. Mantenne la promessa e una sera mi ritrovai a volteggiare tra le sue braccia, leggera come non mi sentivo da tanto tempo. Leggera e felice. Qualche tempo dopo, mi confessò che provava per me sentimenti che andavano oltre l’amicizia. Erano gli stessi sentimenti che provavo anche io. E a cui decisi di non rinunciare. Le mie figlie non la presero per nulla bene. «Sei impazzita mamma? Vuoi farti ridere dietro? Non hai più l’età per amare!» la voce di Tiziana mi trapanò l’orecchio attraverso la cornetta del telefono.

Io restai in silenzio per qualche istante, soppesando le sue parole. Poi presi fiato e citando un’altra celebre canzone risposi: «L’amore non ha età». E chiusi di netto la comunicazione.

Così eccomi in procinto di partire per una crociera sul Mediterraneo, un gradito regalo di Luigi. Mentre ripongo i vestiti dentro a una vecchia valigia le mie labbra vengono sfiorate da quel ritornello che non riesco a togliermi dalla mente: “Non ho l’età, non ho l’età, per amarti…”.

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