Non sono più sola

Cuore
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“Non sono più sola” di Giovanna Sica, pubblicata nel n. 32, è la storia vera più votata della settimana. Ve la riproponiamo nel blog

 

Storia vera di Marika F. raccolta da Giovanna Sica

 

Sei mesi fa. Eccoci qua. Al solito punto dove non si sa più chi è lo schiavo e chi il padrone.

Ora fermarsi è impossibile e andare avanti diventa l’unica via necessariamente percorribile. Ora non sono più lucida io, non è più lucido lui. Ripercorriamo un copione antico: quello di tutte le donne e di tutti gli uomini che non possono stare vicini senza che i loro corpi diventino bollenti, magma incandescente, esplosione di piacere. E non riesco a capacitarmi di come lui, Paolo, non dia la giusta importanza a questa alchimia che si avvera ogni volta fra di noi. A questa fame vorace di baci, di carezze. L’impazzimento che trova pace solo quando diventiamo una sola carne.

Ho giurato mille volte a me stessa che qui, in questa specie di capanno, a fare l’amore con lui non ci sarei più venuta. Almeno fino a quando lui non si fosse deciso a trattarmi con più rispetto. A presentarmi ai suoi amici. A portarmi a mangiare un gelato. A fare un giro in vespa. Una passeggiata al mare. Qualsiasi cosa che sia un tantino di più di questo niente che stringo fra le mani, mentre Paolo si riveste dopo aver fatto l’amore con me. Un attimo prima stringo lui. La pelle morbida, calda. I baci lunghi, impregnati di desiderio. Un attimo dopo mi saluta con un «ciao, ci sentiamo», e se ne va. O meglio andiamo via tutti e due. Perché il capanno è suo, e quando abbiamo consumato quell’ora di sesso che mi concede, andiamo via entrambi. Ognuno torna nella sua vita. Nella sua città. Nel suo lavoro. Fra i propri amici. Io quelli di Paolo li conosco perché li spio su Facebook. Così come sto ogni giorno a controllare quello che scrive  sulla sua bacheca, i commenti delle femmine, le sue nuove amicizie, le foto taggate. Una poveraccia. Ecco cosa sono: una poveraccia. E me ne vergogno.

Ho provato varie volte a interrompere questa frequentazione, ma poi non ce la faccio e lo chiamo per vederci. Lui non mi chiama mai. E non perde occasione per farmelo notare quando voglio litigare perché pretendo di più dalla nostra “relazione”. Paolo se ne esce sempre con la stessa frase: «Marika, lo sai che di più non ti so dare. Sei tu che continui a chiamarmi per vederci. Per me possiamo chiuderla qua, questa storia». E invece non chiudiamo un bel niente. O meglio sono io che ho sempre la porta aperta nella speranza che lui s’innamori di me, prima o poi. Le mie amiche tutte mi dicono che sono una stupida. Che quello lì una meglio di me non la poteva trovare. Che lo chiama per l’appuntamento. Poi lo raggiunge al capanno con la sua macchina. Lo fa godere per un’oretta buona e poi gira sui tacchi e se ne va. Il sogno di ogni maschio. Almeno di quelli come Paolo che non vogliono condividere nient’altro che il sesso con una donna. Una volta, una delle tante che recriminavo più attenzioni, lui me lo disse chiaramente che non era portato per fare il fidanzatino. «Voi donne siete nevrotiche. Pesanti e tutte uguali. Vi fate tremila film in testa. Volete avere sempre l’ultima parola. Montate una tragedia che non finisce più per un anniversario dimenticato. E vorreste trasformare l’uomo che vi sta accanto in un barboncino ubbidiente. No, grazie. Sto tanto bene così. Nella mia mansardina di quaranta metri quadrati non c’è posto per una compagna. E poi a pranzo sono sempre da mia madre. Che mi cucina ogni giorno i miei piatti preferiti. Ho un buon lavoro. Gli amici. I viaggi e le partite di calcetto. Non ci penso proprio a cambiare qualcosa in questo mio equilibrio perfetto».

Dentro di me lo sapevo che non ero l’unica donna che Paolo frequentava. Forse per questo ogni tanto mi andavo a fare un giro alla casa al mare, quella che lui chiama “il capanno”. Un giorno, vidi due macchine parcheggiate lì davanti. Una era quella di Paolo. La mente offuscata, la salivazione azzerata. Un solo pensiero: vedere con chi era. Aprii la porta come una moglie tradita che scopre il marito con l’amante. E come una moglie, insultai prima lui, poi lei; alzai le mani su di loro. Ero talmente sconvolta che lui dovette darmi uno schiaffo in pieno viso per farmi rinsavire.

Ero talmente sconvolta che non mi ero nemmeno accorta di conoscere quella donna: era una sua ”cara amica”. Pure sposata, quella schifosa. Lo so, non mi sarei potuta permettere quella scenata. In fondo, non vantavo nessun diritto su di lui. Ma persi la testa. Forse quell’umiliazione così profonda, me l’andai a cercare proprio per mettere la parola fine a quella squallida relazione. Avevo bisogno di ritrovarmi di fronte i suoi occhi carichi di disprezzo per smettere di amarlo.

 

Oggi. Paolo da quel giorno non ha più voluto vedermi: ha detto che sono pazza. Io non ci ho provato nemmeno a convincerlo del contrario. Perché, forse, sono pazza davvero. Sapevo che dovevo disintossicarmi da lui. Che non mi avrebbe mai amata. E visto che quella storia di solo sesso per me era deleteria, dovevo mettere un punto e andare a capo.

Non è stato facile fare a meno di lui. Mi sono rivolta a uno psicologo. Il dottore mi ha riportata indietro nel tempo. Mi ha fatto riaprire ferite che credevo cicatrizzate. E invece, sanguinavano ancora. Sto imparando a volermi bene. A rispettarmi. A essere tenera con me stessa. Con la bambina che ero. Quella che ho odiato per tanti anni: era colpa sua se mio padre se ne era andato di casa. Sì, me lo diceva sempre mia madre: «È colpa tua se la sera fa sempre più tardi, se va con le altre donne. Fino a che eravamo solo noi due andava tutto a meraviglia». E poi una sera diventò notte fonda e poi alba e non sentimmo la sua chiave girare nella serratura.

Non torno più. Era stanco di noi, dei nostri piagnistei, i soldi che erano sempre pochi. Lui voleva essere libero e se la prese, la sua libertà. Da grande poi avevo capito che non era mia la responsabilità di quella fuga, che i miei genitori erano due persone indegne di mettere al mondo un figlio, ma ormai il danno era stato fatto.

L’adulta aveva capito. La bambina sarebbe rimasta per sempre schiacciata sotto il peso della vergogna. Ora però c’è quest’uomo, il mio dottore, che sta cercando di farmi fare pace con la piccina che è dentro di me.

Lui dice che non è troppo tardi, che posso ancora abbracciarla, chiederle perdono, concederle l’amore che finora non ha mai avuto. Devo solo inginocchiarmi per poter essere alla sua altezza, perché i bambini odiano quando i grandi gli parlano dall’alto. Devo guardare la piccola in quei suoi occhi grandi e smarriti, farle una carezza sul viso e dirle che è tutto passato. Ora lei ha me e io ho lei. Non sono più sola.

Confidenze