Non sono triste

Cuore
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Vi riproponiamo sul blog la storia vera più apprezzata del n. 14 di Confidenze

 

Ho avuto un marito meraviglioso, una vita piena, due figlie bellissime. Avrei voluto più tempo da passare accanto a Paolo? Certo, ma è andata così e quando alzo gli occhi al cielo e vedo tutto quell’azzurro, sorrido e sento che lui ne sarebbe contento

STORIA VERA DI SILVIA N. RACCOLTA DA ELENA VESNAVER

 

Che brava, che brava che è la Silvia, tiene duro per le figlie, povera anima, ma poi andrà a pezzi, succede sempre così, succede dopo, quando ti rendi conto, quando capisci.

Sentivo le parole che si incrociavano mentre accompagnavamo mio marito, il mio Paolo, al cimitero.
Eh, sì. Brava la Silvia ma anche lui, ti rendi conto? Dove lo trovava un altro.

Decisamente troppe parole, ne hanno dette sempre un’esagerazione su di noi e non riescono a perdere l’abitudine nemmeno adesso, figuriamoci, ma non importa, c’è gente che si diverte in questo modo.

C’era talmente un bel sole e un cielo azzurro incredibile, quel giorno, che ho pensato a Paolo. Sarebbe stato contento che non piovesse, perché, come diceva lui, peggio di un funerale è un funerale con la pioggia.
Ecco, mi viene ancora da ridere a questa battuta scema che faceva, ma il mio Paolo era così, rideva di tutto, altri al posto suo, altro che ridere, ma lui era l’uomo più meraviglioso del mondo.

«Mi sono innamorato di te» mi ha confessato tanto tempo fa. «Era il primo giorno di scuola, io ero con i miei compagni e uno ha gridato: “Guarda i piccoli che stupidi”, ma io non sono riuscito a ridere perché c’eri tu con i codini e il fiocco a puntini rossi. Stavi là, tutta timida, ma quando uno scemo ti ha dato una spinta, tu gliel’hai restituita più forte e io mi sono innamorato».

Nemmeno me lo ricordo il primo giorno di scuola, quel fiocco e gli spintoni, ma Paolo sì, lui era fatto così.

La primissima immagine che ho io di lui è di un ragazzetto su una bicicletta rossa che portava il pane del forno di suo papà in giro per le case.
Ti dico la verità, io non l’ho mai calcolato più di tanto. Eravamo in compagnia insieme, sui 15, 16 anni, si facevano le gite, si andava al mare, al cinema, però finiva là, anche se le amiche dicevano che Paolo mi moriva dietro, a me non importava niente di niente.
Io volevo un amore come nei film, una passione di quelle che ti portano via e non ti lasciano il tempo di respirare e sai come si dice, non desiderare troppo una cosa, potresti ottenerla, perché io ho incontrato Claudio e ho avuto il mio film, veloce, incredibile e appassionato.

Claudio era più grande di me. Io avevo 19 anni e lui dieci di più, era affascinante, pericoloso, un uomo, non un ragazzino di quelli che mi giravano intorno senza sapere bene cosa fare. Claudio lo sapeva, invece, sapeva come fare innamorare una come me, giovane come me, ingenua come me.

Sai, però, ti confesso che è stato bello. Non sono mai riuscita a fargliene una colpa, non del tutto, come si fa a provare rancore per l’uomo che mi ha fatto vivere un’estate favolosa, che mi ha fatto sentire bella e desiderata? Non si può, anche se le cose, alla fine, vanno male, nel mio caso malissimo, perché l’estate è finita, io avevo sempre 19 anni ed ero incinta.

Adesso lo so che Claudio era ovvio che sarebbe scappato, si capiva, avrà anche avuto quegli anni più di me, ma non era pronto per le responsabilità e la sai una cosa? Ogni tanto ci penso e mi chiedo se è mai cambiato. Chissà. Io credo di no.

Quando gliel’ho detto che aspettavo un bambino, il suo bambino, ero talmente felice che non riuscivo neppure a respirare, figurati parlare. Credo di avere balbettato tutto il tempo e di aver concluso che sarebbe stato bellissimo e saremmo vissuti felici e contenti per tutta la vita ed era un peccato che lui non fosse né contento, né felice, anche se non l’ho compreso subito, ci ho messo un po’. Quanto?

Diciamo che quando non l’ho visto più, quando si è negato a ogni appuntamento, quando l’ultima volta che sono riuscita a guardarlo negli occhi non ha saputo fare altro che ripetere che non poteva, allora finalmente mi è stato tutto chiaro.

Era sposato? Per niente, Claudio era libero, talmente libero che era la persona sbagliata per farci un figlio e per pensare a una vita insieme.
Insomma, non la faccio lunga, lo sai bene anche tu che Claudio è sparito e io sono rimasta con il bambino nella pancia, sola, dalla sera alla mattina.
Non ti ripeterò le tragedie a casa, puoi immaginartelo il disastro, i pianti e le sgridate e i ragionamenti senza senso con un’unica certezza, che il bambino si teneva, lo volevo io e lo volevano tutti, ma era un disastro lo stesso.
E le chiacchiere, certo, le chiacchiere che non si fermavano mai. Quante volte ha litigato mia mamma dal fruttivendolo che tutte a dirle “povera figlia” e “anche voi ma che disgrazia”.
Mia mamma rispondeva “se le disgrazie fossero queste…”, poi però a casa piangeva e mi diceva che quella spina nel cuore non dovevo mettergliela.
Lo sapevo anch’io che avevo combinato un guaio e mi sentivo anche in colpa perché facevo soffrire le persone a cui volevo bene e poi, dico la verità, quel mascalzone lo amavo ancora, lo amavo tantissimo e sognavo che tornasse da me e io lo avrei perdonato.

Una mattina, si era già in autunno, per strada mi sono sentita chiamare, mi sono voltata ed era Paolo. Gli ho chiesto come stava, in paese si sapeva che era stato da un medico per via del suo cuore che non andava molto bene. «Ho un cuore matto, ma questo già lo sapevo. È matto dietro a te».
Un fulmine a ciel sereno.

Certo, quante volte me lo avevano ripetuto le amiche, quelle che erano sparite da un bel po’, quelle che mi salutavano a mezza voce e che erano sempre di fretta, certo, ci avevo riso che Paolo aveva un debole per me, solo che ormai la voglia di ridere mi era passata da mesi.

«Io ti sposo, Silvia, se vuoi».

Me l’ha detto così, capisci, su un marciapiede, il muro della scuola poco più in là, il negozio del fruttivendolo davanti e la gente che passava e che mi pareva sentissero ogni parola, anche se dai, ovvio che non era così. «Ti sposo» ha ripetuto, «te e tutto il resto».

Il resto, il resto era il bambino, solo che lo ha detto in un modo, ma in un modo così tenero e divertente e unico, che mi è venuto da ridere e pure da piangere e non volevo fare nessuna delle due cose in pubblico. Allora e mi sono confusa e gli ho buttato lì qualcosa tipo “ti rispondo domani”. Ti rispondo domani, capisci? Ma bisogna essere stupidi sul serio.
E il giorno dopo Paolo è venuto a casa mia e me lo ha chiesto di nuovo.
È bastato un niente e la storia ha fatto il giro del paese, puoi immaginare. Tutti sapevano che Paolo della panetteria aveva deciso di sposare Silvia, quella incinta di un altro, voglio dire, il massimo della chiacchiera. Tanti si sono impegnati per cercare di farlo ragionare, non serve nemmeno ripeterlo. “Cosa fai, sei impazzito, ti rendi conto che sarai costretto a crescere il figlio di un altro, che poi è pure un mascalzone e anche lei, per carità, ma si sapeva che quel tipo là, queste ragazze sono senza testa, senza cervello, ma sei sicuro?”.
E venivano pure da me, cosa credi e pieni di buone intenzioni, anche.

“Mica vuoi sposare un malato, ti toccherà fare l’infermiera tutta la vita, tirati su tuo figlio e stai tranquilla, tanto ormai”.
Alla gente non gli entra proprio in testa che le parole pesano come sassi, certe volte e quel “tanto ormai” era un macigno che mi schiacciava, significava tanto ormai sei segnata, tanto ormai cosa vuoi combinare, tanto ormai cerca di fare per il bambino il meglio che puoi e mettiti in un angolo zitta e buona.

Quanto ci ho pianto su quel “tanto ormai”. Un giorno Paolo è venuto a cercarmi a casa, io non avevo ancora deciso niente ed era pure una brutta giornata, così gli ho detto che non volevo la sua pietà.
«Mica ti sposo per pietà. Io voglio te».
Era sincero, l’ho sentito. E a quell’uomo limpido ho detto sì.
Nella mia testa immaginavo un matrimonio quasi di nascosto, con noi, i testimoni, i genitori e nessun altro. Avevo pensato che il mio tailleur blu, mai messo, sarebbe stato adeguato all’occasione e dopo, dopo non sapevo cosa sarebbe successo e non ci volevo pensare.
«Scherzi? Io ti voglio vedere con un abito da sposa come si deve».

Paolo non aveva voluto sentire ragioni. Niente tailleur blu, lui mi voleva con il velo e dopo avremmo fatto una grande festa e dopo il viaggio di nozze ed era inutile che piangessi, le lacrime non fanno gli occhi belli e poi io li avevo belli a sufficienza, quindi non mi serviva piangere. Mi credi? Io mi sono innamorata di Paolo quando mi ha portata a scegliere l’abito, che è una stupidaggine da vecchi pensare che se lo vede lo sposo porta sfortuna. Mi sono innamorata a vedermi specchiata nei suoi occhi mentre cercavo di non inciampare nello strascico lunghissimo che a lui piaceva da morire. Mi sono innamorata quando siamo andati a prendere un gelato e lui faceva il muso per via del vestito che non era bianco come si deve, ma leggermente dorato.
«È bellissimo» mi ricordo di aver sussurrato. «È la cosa più bella che io abbia mai avuto».
E ci siamo baciati. Un bacio che aveva il sapore di pistacchio e cioccolato e che se ci ripenso ora, mamma mia, lo sento ancora sulle labbra.
Il matrimonio nostro, di Paolo e mio, è stato una cosa favolosa. Io avevo il mio abito incredibile che brillava nella mattina piena di sole, la mia pancia che cresceva e tutti mi guardavano a bocca aperta, che mai più sono stata così bella, perché mi sentivo forte di amore, forte anche per la creatura che mi cresceva dentro, per quell’uomo che mi stava vicino e non avevo messo in conto, ma era lì.

Poi siamo partiti per il viaggio di nozze, cosa credi, io non lo avevo neppure immaginato ed è stato il primo dei tanti viaggi che abbiamo fatto perché Paolo adorava viaggiare e farlo con me era ancora meglio, diceva.

«Già avere il cuore che fa schifo è una disgrazia, vuoi anche restare chiusi in casa? Fai la valigie, mia bella signora» diceva.
Fai la valigie, mia bella signora, quante volte me l’ha detto e io prima avevo paura per lui, paura che si stancasse, paura che quel cuore malandato me lo portasse via. Alla fine, credimi, non ci ho pensato più e ho imparato a prendere la vita come faceva lui, un giorno alla volta. Quando è nata Valeria, come faccio a descriverti la sua gioia? E due anni dopo, quando è nata Bianca?

Le sue piccole, le sue principesse. Uguali nel suo cuore, figlie del suo amore tutte e due. Il paese? Certo, qualcuno continuava a chiacchierare, ma sempre di meno e io nemmeno sentivo, ero troppo impegnata con la mia bellissima famiglia.

«Che lavoro ti piacerebbe fare?», mi ha chiesto Paolo un giorno.

Io senza neppure pensarci ho tirato fuori il vecchio sogno di fare l’estetista e mio marito è rimasto un attimo in silenzio, poi ha detto che andava bene.
Ho fatto tutti i corsi per prendere il diploma e lui ha tenuto le bambine e mi ha sempre incoraggiato. Se ho la mia attività è merito suo, capisci? Solo merito di Paolo, che ha voluto che diventassi una donna indipendente e sicura, con la sua autonomia.

Gli anni sono passati e sono stati anni belli, con le ragazze che crescevano e insieme a loro crescevo pure io e sai, non c’è stato un giorno durante il quale Paolo non mi abbia fatta ridere con una delle sue buffe

storie, con una battuta. Avresti dovuto vedere come imitava il modo di camminare del sagrestano e gli attori in televisione, o quando cantava con le bambine. Il mio Paolo.

Sì, gli anni sono passati e lui ha dovuto curarsi di più, tenersi riguardato, ma non esiste un giorno che ce lo abbia fatto pesare, appena poteva si partiva per un viaggio, da soli o con le ragazze.

Sai cosa abbiamo fatto la sera prima che succedesse? Siamo andati al cinema e per tutta la strada del ritorno abbiamo parlato di quanto era bello il film.
A un certo punto, quella notte, mi sono svegliata e non so perché ho spalancato gli occhi e ho visto il soffitto nero, la luce debole della radiosveglia che colorava la parete. Ho sentito una macchina che passava per strada, che dove va la gente di notte, chissà.

Poi ho sentito che Paolo respirava male, a fatica.
Ho capito. Ci ho messo tre secondi a prendere il telefono e a chiamare l’ambulanza, sempre stringendogli la mano e ripetendo nella mia testa che non doveva farmi scherzi, no, proprio non doveva.
Sono arrivati in fretta, c’era una dottoressa giovane, brava, che è riuscita a farmi lasciare la mano di Paolo, perché dovevano aiutarlo e io dovevo farmi da parte, anche se non volevo.
Ho telefonato alle ragazze, siamo corse insieme all’ospedale, per tutta la strada ci siamo ripetute che sarebbe andata bene, che si sarebbe risolto, che Paolo sarebbe stato di nuovo bene, magari non proprio bene, ma sarebbe stato di nuovo con noi, c’erano tremila cose che dovevamo fare ancora, insieme.
Solo che non era più possibile.
Mi hanno detto che non aveva sofferto per niente, non se n’era accorto, era andato via sereno, vicino a me e credo, credo davvero, che sia stato un altro regalo della provvidenza, il regalo che si meritava un uomo buono come lui. Nei giorni successivi c’è stato tanto da fare, preparare tutto, consolare le ragazze, parlare con tutti quelli che gli avevano voluto bene, così tanti credimi, così tanti e di piangere non ho avuto il tempo, figurati, non avevo il tempo per niente e mi dicevo dopo, dopo piangerò, dopo tirerò fuori tutte le lacrime che ho dentro, ce la farò.
E poi è arrivato il momento, eravamo al cimitero, il mio Paolo era stato sepolto e io sentivo attorno tutte le solite chiacchiere, quante e sempre le stesse, come non fossero mai passati gli anni, come se io fossi ancora la ragazzetta nei guai e lui il giovane che non aveva mai voluto sentire consigli.

Ma il tempo era passato, invece e io avevo avuto un marito meraviglioso con cui avevo vissuto una vita piena e bella e l’avrei voluta più lunga, certo, ma era andata così. Vicino avevo le nostre figlie, buone e brave, che avevano avuto il privilegio di crescere con un papà che le aveva adorate e allora le chiacchiere, le critiche, i sussurri, ma chi li sente più.

Mentre tornavamo indietro e la gente si perdeva un po’ di qua e un po’ di là, è stato in quel momento che ho alzato gli occhi e il cielo era di quell’azzurro, di quel pulito pulito, che essere triste improvvisamente mi sembrava inutile e sbagliato.

«Hai visto che cielo, mamma?» ha mormorato Valeria. «Come nella canzone che piaceva tanto a papà. Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro...».
Siamo tornate a casa cantando a mezza voce e anche se ogni tanto ci siamo soffiate il naso, il mio Paolo sono sicura che era contento. ●

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