Odio il Natale

Cuore
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Ogni anno, quando si avvicina il Natale, per me è un tormento chiedermi se ho una famiglia e qual è, se ne ho due o nessuna. È il momento in cui, più che in ogni altro, io mi sento sbagliato e colpevole

STORIA VERA DI EDOARDO F. RACCOLTA DA MAURIZIO RIBOLDI

 

Per carità, non pretendo di essere originale: che il Natale non sia per tutti una festa di gioia è noto. Per gli anziani abbandonati, per le persone sole, per chi è povero o vive in strada perché preda di un disagio esistenziale, il Natale è il momento in cui esplodono conflitti che attendevano solo la miccia per deflagrare. Ma anche per molti che non vivono queste situazioni e hanno vite decentemente felici e regolari, quello è il giorno che ti ributta in faccia impietosamente i tuoi errori e ti ricorda che tutto si paga e indietro non è possibile tornare.

Rincorrendo il fatidico giorno, i negozi si addobbano con stucchevoli decorazioni tutti gli anni uguali – ma perché sempre fiocchi di neve, visto che non nevica più? Perché babbi natale, slitte, renne, che qui neanche sappiamo cosa sono? E più cammini in questo paesaggio surreale, più ti è chiaro che, se hai sbagliato famiglia, hai cercato di correggere l’errore e sbagliato altre volte e ora hai finalmente qualcosa di tuo, non potrai mai vivere la gioia della famiglia riunita attorno a un tavolo, dei tuoi amori tutti insieme.

Per le persone separate, come me, che hanno lasciato una moglie e dei figli per vivere il rapporto con un’altra persona, non può esistere un Natale sereno. Ogni volta esplode il conflitto interiore tra la famiglia, che, per me, è quella di mia figlia e dei nipoti, e la mia compagna: con chi trascorrere il Natale, a chi dare la priorità e chi, invece, lasciare solo. E durante la cena, o il pranzo, il pensiero è inevitabilmente rivolto a chi è rimasto a casa, a chi è stato escluso, a chi hai lasciato solo e vorrebbe essere con te. Così, non riesco a stare bene, ho la mente sempre altrove, mi sento comunque nel posto sbagliato, senza la benché minima possibilità di essere parte viva di quel contesto.

Tanti anni fa ho lasciato Mara, mia moglie, e mia figlia ed è stata una scelta drammatica che ha prodotto in me una lacerazione profonda; forse anche per l’educazione religiosa ricevuta, andandomene ho sentito che stavo infrangendo qualcosa di inviolabile. Anche finito l’amore, in me la consapevolezza di essere parte di un unico nucleo, la famiglia, è sempre stata radicata, forte. E anche dopo, con le altre donne con cui sono stato, non mi sono mai sentito una famiglia, ma una coppia, perché quella che avevo lasciato era unica e irripetibile.

Credo che una coppia felice sia molto meglio e molto di più di una famiglia infelice, come stava diventando la mia, ma la famiglia rimarrà sempre e solo quella, per me. Azzoppata e ferita, piena di rimorsi e recriminazioni, di ricordi talora violenti che ancora sovrastano quelli della gioia, che pure c’era stata, ma quella resta l’unica famiglia.

Sto da tanti anni con una donna che amo e che mi ama; conviviamo, lei è la mia compagna, condividiamo tutto, c’è un’unione totale; anche se non me l’ha mai chiesto, forse desidererebbe che ci sposassimo, ma di fatto è come se lo fossimo. Lei sente di essere, con me, una famiglia, anche se non sta scritto su un pezzo di carta, anche se non abbiamo figli, ma io non ce la faccio, a questo pensiero c’è qualcosa che si ribella prepotentemente in me.

Ho giurato amore eterno davanti a Dio e ho infranto il giuramento, credo non ci sia altro da dire. Nonostante le difficoltà, nonostante l’attribuirmi la colpa della separazione avesse inizialmente allontanato da me mia figlia, sposata con due bambini, adesso ho rapporti costanti con la sua famiglia. Prima per mia figlia, poi per i nipoti, ho sempre dovuto mantenere contatti con mia moglie. So che dovrei dire ex moglie, ma faccio fatica. Perché in quell’ex c’è il ritratto del mio fallimento come marito e, inizialmente, anche come padre.

Un padre non dovrebbe lasciare una figlia piccola, anche se non ama più la madre di quella bambina: potrei vivere in eterno, senza riuscire a perdonarmelo. Ho sbagliato nell’educarla, sono stato troppo indulgente, ho mendicato il suo perdono, il suo affetto per tutta la vita e non mi sembra vero, adesso, che le cose stiano andando bene tra noi. In tutti questi anni, forse anche per questo, ho sempre badato bene a tenere distinte le due situazioni; certo, mia figlia e i miei nipoti conoscono e frequentano la mia compagna, qui a casa e fuori, ma non ho mai voluto, non so se a torto o a ragione, che lei conoscesse Mara, o fossero presenti entrambe in uno stesso contesto. Figuriamoci a Natale.

Ho sempre pensato che fosse inutile, che potesse essere imbarazzante o, in ogni caso, motivo di disagio, se non dolore, per Mara, che non si è mai rifatta una vita, e anche per me che non sopporto più di farle del male. La mia compagna, invece, ritiene che sia un suo diritto esserci ovunque, in quanto, appunto, mia compagna, e, davanti al mio rifiuto, mi accusa di voler tutelare la sensibilità di mia moglie e non la sua, di non aver ancora compiutamente realizzato, dentro di me, la separazione e di essere ancora psicologicamente dipendente dalla mia prima “casa”. A volte mi chiedo se, con tutto l’amore che pure sicuramente prova per me, il suo non sia egoismo o l’espressione di un’insicurezza nel confronto con l’ombra della prima moglie.

Quest’anno andrò da mia figlia, per la notte della Vigilia, e sto vivendo come un incubo l’attesa del Natale, perché so che tra poco, qui in casa, gli umori cambieranno, l’atmosfera si farà tesa. E più ci avvicineremo al fatidico giorno, più so che maledirò il Natale, macerandomi nelle solite domande: è giusto che io vada là? O dovrei stare qui con lei? O portare anche lei, come vorrebbe? Anche uscire insieme per comprare i regali è penoso: l’atmosfera è fredda, non diciamo una parola perché sappiamo che, quando li aprirò davanti ai miei famigliari, lei non ci sarà. Aleggerà nell’aria, io dirò alle bambine che quello è il regalo del nonno e suo, farò il suo nome continuamente, a ogni apertura di pacchetto, simulando una serenità che non sento.

Vorrei che, per un anno, mi restituissero il Natale semplice di quando ero piccolo con i miei genitori e le mie sorelle; tutti insieme, prima che eventi tragici ci separassero. O il primo Natale dopo la nascita di mia figlia, quando eravamo felici e guardavamo commossi quella bimba bellissima che ci era stata donata. Nessun conflitto, solo pace e serenità. La felicità è sopravvalutata, dura pochi attimi, ma è una condizione impagabile che inseguo da tutta la vita. Invece sarà come sempre, dilaniante e conflittuale. E nessuno si accorgerà della mia sofferenza.

Così come nessuno si chiede quale pensiero sia peggio, per me, nei giorni di vigilia, se mi pesi di più pensare a lei sola, che si sente esclusa, non parte di una famiglia, o pensare a una tavola imbandita e apparecchiata per tanti dove mia figlia riesce solo a guardare il posto lasciato vuoto da me. Nessuno capisce che così, per me, il Natale sarà solo un momento di tristezza, trascorso a chiedermi se ho una famiglia e qual è, se ne ho due o nessuna. Il momento in cui, più che in ogni altro, io mi sentirò sbagliato e colpevole.

Odio il Natale.

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Pubblicato su Confidenze 52/2017

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