Più uniti che mai

Cuore
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Pensavo di aver scoperto un segreto che mi riguardava e avevo perso ogni fiducia nella mia famiglia. La verità era molto più complessa perché papà e mamma mi hanno dimostrato che ogni errore può essere superato quando due persone si amano

STORIA VERA DI SARA M. RACCOLTA DA BARBARA BENASSI

 

La mia sarebbe dovuta essere solo una visita veloce, una capatina strategica a casa dei miei genitori, un saluto meno frettoloso rispetto a quello della mia partenza. Da allora non ero più tornata per smaltire e lasciar stemperare la rabbia che mi immobilizzava e che non avrei mai pensato di provare. D’altronde sono cose che non si cercano, ti arrivano e basta, e una volta che il veleno è entrato in te, ormai sei infetto. Sono state le parole di mia madre l’origine del mio tormento. Proprio lei, amata, amatissima, esempio irreprensibile di dolcezza, comprensione, equilibrio. Fino al giorno fatidico in cui scoprire la verità mi ha lacerato il cuore.

Ricordo tutto come fosse ora. Il momento esatto del mio svenimento, lo schianto metallico del vassoio che reggevo fra le mani, i bicchieri che si infrangono in mille vetri aguzzi e il mio corpo che vi cade sopra di peso. Poi più nulla, solo il buio. Non so per quanto tempo rimango nell’oscurità.

Quando riemergo dal sonno pesante sono sdraiata su un letto d’ospedale. Odore di disinfettante e ombre che si muovono per la stanza. Finalmente riconosco il viso di mia madre. Di fianco a lei un uomo in camice bianco le parla sottovoce.

«Un’emorragia. Dopo la trasfusione si riprenderà presto. Ma a questo proposito c’è un piccolo problema, signora».

Un’infermiera emerge dalla nebbia e controlla qualcosa di fianco al mio letto. Silenzio. Appena esce, la voce riprende: «Un gruppo sanguigno raro che, non so se ne è già informata, non corrisponde né al suo, né a quello di suo marito…».

«Capisco» si limita a rispondere mia madre.
Allora lui continua: «È necessario trovare un donatore. Magari uno dei fratelli di Sara ha lo stesso gruppo?». Il silenzio che segue dura un po’ troppo.
«No, nessuno dei fratelli ha il suo stesso gruppo sanguigno, dottore». Sento che le trema leggermente la voce mentre parla.
«In questo caso bisogna rivolgersi alla banca del sangue, rallenterà un po’ le cose».

Il tono di mia madre questa volta è deciso e non concede attenuanti. «No dottore, ho un’altra idea che ci risparmierà molto tempo e tante complicazioni inutili. Le porterò una persona che ha lo stesso gruppo sanguigno di Sara. Ma la prego» prosegue abbassando la voce tanto che la sento appena, «le chiedo la massima discrezione su tutta questa faccenda. Mio marito Sergio, e soprattutto Sara… Per lei sarebbe un colpo tremendo, non lo deve venire a sapere».

Mi gira la testa. Le due figure escono dalla stanza lasciandomi in balia di me stessa. Non mi capacito di quelle parole che, nella loro lancinante evidenza, per un momento hanno dissipato la nebbia dalla mia mente. Poi di nuovo una debolezza insidiosa mi trascina alla deriva, dentro le brume vischiose dell’inconscio. Meglio così, benvenuto oblio. Mi lascio portare lontano, via da mia madre e da quella confessione di tradimento chiara, inequivocabile, terribile.

Non so quanto tempo sia passato. So di aver riaperto gli occhi, le palpebre come due pietre pesanti, e di aver intravisto un volto familiare su di me, mia madre, no, non proprio, era il mio volto, ero io, solo più vecchia e stanca, forse. Poi arrivano altre allucinazioni come onde leggere, una luce accecante… Sono certa di essere morta. Solo dopo alcune ore la caligine dell’incoscienza viene spazzata via da una luce sul soffitto e mi ritrovo di nuovo in un letto d’ospedale tra lenzuola bianche e pareti verde chiaro. Il ricordo di tutto quello che ho sentito riaffiora e con lui un peso al petto che da allora non mi lascerà più.

Bugie, solo bugie! Rivedo mia madre scivolare per casa furtiva e silenziosa. Una presenza che all’improvviso mi sembra sinistra, illusoria, ingannevole. Sparisce da casa quando mio padre è fuori per lavoro e, per quello che ne so, può ancora, dopo ben 18 anni, continuare a vedersi con lui, con l’altro. Ma chi può essere quell’uomo che mi ha generata? Dopo il mio ricovero e la trasfusione, lui è al corrente della mia esistenza, visto che è venuto a donare il sangue. Solo mio padre ne è all’oscuro. Pover’uomo. Giorno dopo giorno, per me è sempre più difficile assistere alla beffa di mia madre nei suoi confronti, mi fa troppo male. Lui non merita questo e nemmeno io. Io che ho provato perfino a seguire le sue orme anche nel lavoro, tanto mi sento simile a lui. Figlia di un altro uomo: per me è insopportabile anche il solo pensiero. Per colpa di mia madre io, la più piccola tra i miei fratelli, sono la diversa. Cosa avrei dovuto fare? Raccontare tutto, urlare la mia rabbia, la mia solitudine, il mio dolore anche se questo avrebbe fatto emergere quella terribile realtà? Ho troppa paura di ferire a morte mio padre. Come ha potuto mia madre, all’apparenza sempre

innamorata e felice, tradire quell’uomo buono e generoso che la venera? Lei che ha sempre predicato la trasparenza, la lealtà, lei… Ma chi è lei? All’improvviso non la riconosco più. Lei ha un amante, un amante dal quale ha avuto una figlia… Io.

Troppi pensieri intollerabili mi rendono una persona che non voglio essere: rabbiosa, sospettosa, incattivita. L’unica via d’uscita che vedo è andare via.
Un anno dopo il mio ricovero, oramai di nuovo in salute, ottengo un posto come lettrice di lingua italiana alla Queen’s University di Belfast. Quella partenza è semplicemente provvidenziale. Una coincidenza? Non so che dire, so solo che ho pregato tanto per ottenere quel posto e le mie preghiere sono state esaudite. Ricordo i miei genitori che si asciugano gli occhi e mi salutano storditi, mentre i miei fratelli gesticolano e mi mandano baci dall’altra parte del gate dell’aeroporto. Nel giro di poco tempo l’Irlanda diventa il mio rifugio. Avevo pensato bene: la distanza e il nuovo lavoro sono la giusta panacea e danno tempo alle mie ferite di guarire.
Passati ben due anni dalla mia partenza, blandita la rabbia, posso concepire un rientro a casa proprio all’inizio del 2020.

Da un po’ di tempo si sente parlare della diffusione di un virus. L’Italia ha sospeso tutti i voli da e per la Cina, ma per il resto d’Europa tutto è ancora normale. A questo punto parto serena, ignara che nel giro di poco tutto sarebbe cambiato. Trovo i miei genitori felici di riavermi con loro. Mia madre di certo si accorge che le mie tacite ostilità nei suoi confronti sono finite, o almeno sospese, ma non osa dirmi nulla e si gode il momento. Momento che appare tranquillo, ma di colpo prende una piega ben diversa e non per causa mia. La situazione sanitaria profilata dalla televisione sembra precipitare, soprattutto nel nord Italia dove emergono i primi casi gravi, preoccupanti, letali. La parola pandemia ci pietrifica di fronte allo schermo. Il virus si diffonde rapidamente, entra ovunque e senza che ce ne accorgiamo varca anche la nostra soglia.

Una mattina mia madre denuncia qualche linea di febbre e molta stanchezza. Mio padre è agitatissimo e non sa cosa fare.
Chiamo il nostro medico di famiglia che ci prescrive il tampone molecolare. Tutti negativi e lei, solo lei, è positiva.

Davanti alla nuova minaccia, mia madre torna a essere ai miei occhi e soprattutto nel mio cuore l’antico angelo di un tempo, la creatura tanto amata. Ma l’amore non basta a evitare che le sue condizioni peggiorino di colpo. Il medico non può fare altro che mandarci l’ambulanza. Prima di lasciarci, mia madre ci saluta con un bacio da lontano, senza toccarci.

Da quel momento ogni giorno aspettiamo lo squillo del telefono per l’aggiornamento dall’ospedale. Stazionaria in terapia semi-intensiva. «È forte» ci dicono.
Mio padre nel suo studio lavora per l’università tramite computer, mentre io ho preso un permesso per questioni familiari. Il tempo sembra non passare mai. Lo inganno facendo la spesa online anche se non mangiamo quasi nulla, rispondendo alle numerose telefonate che si susseguono nella giornata, riordinando le camere, gli armadi, i cassetti.
Proprio in uno di questi, tra le cose di mia madre appaiono i suoi diari come fossero lì per essere trovati e letti. Sembrano i quadernetti di una bambina delle elementari, legati insieme con uno spago da cucina. Da uno, sbuca una foto un po’ rovinata. Mia madre insieme ai miei fratelli piccoli in spiaggia a Riccione dove è cresciuta. La data è scritta a mano sotto l’immagine con i corpi in costume e i visi sorridenti. La foto mi piace, anche se c’è qualcosa che non mi torna. La fisso, non capisco cosa abbia di strano, in fondo è allegra, io devo ancora nascere e loro sembrano felici.

Mi arrendo. La tengo da parte, perplessa.
Sfoglio le pagine del diario seguendo la calligrafia sottile e delicata che rimane uguale nel tempo. Non sapevo che scrivesse. Non sapevo parecchie cose di lei in verità. Adesso però una cosa la so. So cosa cercare lì dentro, tra quelle pagine gialle fitte fitte di parole: il tradimento, il momento esatto quando è iniziato l’inganno di mia madre.

Invece, man mano che avanzo nella lettura emerge il profilo di una ragazza sentimentale, bisognosa di famiglia, introversa, silenziosa e idealista, figlia unica di due genitori troppo giovani e inattendibili che inevitabilmente hanno divorziato dopo alcuni anni disastrosi di matrimonio.
Sento di riconoscere quella creatura schiva che ha sperimentato poche avventure, tutte piuttosto ridicole e perlopiù platoniche, prima di incontrare mio padre. Riconosco anche lui dalle descrizioni scritte con calligrafia minuta: il vocione tonante, l’energia travolgente, il cuore senza filtri di un eterno bambino, vulnerabile nel suo candore.
A quanto sembra i due si piacciono subito: lui impulsivo e passionale, lei quadrata e ingenua. Il racconto procede veloce e arriva spedito al matrimonio. Ci sono pochi accenni alla casa, ai genitori, al viaggio di nozze, alle due gravidanze, ai miei fratelli, eppure mia madre sembra placata, felice, serena, come una barca che ha trovato un porto sicuro durante una bufera. Non a caso scrive poco, salta lunghi periodi.
Poi mi colpiscono due righe scritte in fretta e furia. “Oggi è successo. Sergio ha pianto. Mi gira la testa. La bambina nascerà a settembre. A ogni modo, caschi il mondo, la famiglia resta unita”. Poi più nulla.
Comincio a sentire freddo e la nuca sembra attraversata da mille spilli. Eccomi! Sono io che nasco a settembre di quell’anno. Quindi mio padre sapeva. Mi sento affranta per lui, ma più leggera. Ho bisogno di abbracciarlo. Mi alzo ed entro nel suo studio. Lui mi guarda, nota il diario tra le mie mani e chiude gli occhi.

Sa che dovrà raccontare ancor prima che io apra bocca. Per sfatare ogni dubbio gli dico: «Voglio sapere. So che tu sai».
Inspira rassegnato e comincia a parlare. «Grazyna, la baby sitter dei tuoi fratelli, era polacca. Ai tempi c’era papa Wojtyla e tante ragazze polacche

arrivavano per lavorare in famiglie come le nostre. Grazyna era troppo giovane, troppo bella, troppo tutto, mentre io ero un ragazzo troppo stupido, troppo avventato, e mi sono invaghito, Dio sa quanto, e tu sei il risultato».

È una raffica che mi investe in pieno. Colpita e affondata. Ricordo di sfuggita quel nome di donna, il suo viso ovale, il suo sorriso. Intanto mio padre continua a sparare a zero colpendo quello che resta di me. «Tua madre ha aggiustato tutto, ha capito e ha messo le cose a posto».

«A posto?» è il massimo che riesco a dire. Il resto rimane fermo tra mie labbra, bloccato da uno stupore che mi paralizza.
«Grazyna non voleva portare avanti la gravidanza. Doveva sposarsi di lì a poco ed era anche nipote di un vescovo polacco. Per lei era troppo. Io ero talmente sconvolto che non ho saputo nemmeno nascondere la cosa a tua madre. Ricordo che, quando le raccontai tutto, dovette sedersi prima di iniziare a parlarmi con dolcezza, come fossi un bambino».

Mio padre tira su col naso poi riprende. «Disse che si sarebbe trasferita a Riccione per un lungo periodo insieme ai bambini e a Grazyna. Lì conosceva una brava ostetrica, una sua amica d’infanzia. Avrebbe fatto nascere il bambino e lo avrebbe registrato sotto il nome della nostra famiglia. Non era legale, ma tutto andò per il meglio. Grazyna è venuta spesso a trovarti quando eri piccola e quando hai avuto l’emorragia, è lei che ha donato il sangue».

Non riesco ancora a parlare, così guardo la foto con mia madre e i miei fratelli che avevo infilato nel diario a tenere il segno. Ora realizzo cosa non mi convinceva: nell’agosto in cui mia madre avrebbe dovuto essere di otto mesi e si sarebbe dovuto vedere il pancione, era solo una figura sottile in costume con i figli.

Mio padre continua il racconto. «Lei ha reso possibile il miracolo. Voleva mantenere unita la famiglia e sapeva che il mio era stato un momento passeggero. Aveva ragione. Mai come allora l’ho amata, e non l’ho mai più tradita. Mi ha permesso di restare con i miei cari e al tempo stesso di non rinunciare a te che eri mia figlia. Grazyna le scrive ancora oggi per avere tue

notizie e le è profondamente grata. Non ti ha mai persa e al tempo stesso ha potuto vivere la sua vita. È complicato e può sembrare orribile, strano, o folle, ma è così che è andata e noi siamo stati sempre tanto, tanto felici».

Lui parla e non sa quanto io abbia sofferto, eppure nel suo sguardo leggo gioia e, nonostante tutto, purezza. Ha avuto uno sbandamento, non ha nascosto nulla, e mia madre ha gestito una situazione difficile per non perdere la serenità. Non c’è bene, non c’è male, solo amore. Se avessi parlato prima mi sarei risparmiata tanta sofferenza. Un pensiero leggero vola a Grazyna, magari un giorno la rivedrò.

Mentre io e mio padre rimaniamo in silenzio, squilla il telefono. È l’infermiera dell’ospedale. «Sua madre sta meglio. Pensiamo che tra due giorni potremo dimetterla». Scoppio a piangere e stringo mio padre che piange con me. Nel nostro abbraccio c’è un sollievo che ci scalda il cuore e ci rende umani, non perfetti, ma ancora più vicini. Mia madre tornerà a casa e ad aspettarla ci saremo noi, più uniti che mai.

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Pubblicata su Confidenze n. 39
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