Sette volte sette

Cuore
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Sul blog, la storia più apprezzata del n. 34 di Confidenze

 

Nella mia famiglia, sarda di origine, si tramandano molte credenze, anche legate ai numeri. Per me erano suggestioni, ma un’estate, sull’isola con mia nipote, ho fatto un sogno. E poi, un incontro del destino. Colpo di fulmine? No, l’amore non c’entra. La magia sì

STORIA VERA DI SARA B. RACCOLTA DA IRENE ZAVAGLIA

 

Esattamente a metà tra il mondo degli esseri umani e quello della magia, esistono i numeri. In base ad alcune discipline, le cifre celano un potere che trascende il loro significato puramente matematico. A saperla scandagliare, l’intera numerologia racchiuderebbe il codice segreto per interpretare tanto i meccanismi dell’universo, quanto gli intricati ingranaggi del destino degli uomini. Se non ci credete, provate a pensare a quel numero che si ripete con una certa regolarità nella vostra vita. Che sia di buono o di cattivo auspicio, chiunque ne possiede uno. Nella mia famiglia, il numero che ricorre da generazioni è il 7. Lo so perché il nonno ce lo raccontava ogni volta che veniva a trovarci a Torino dalla Sardegna.

«Ogni numero sprigiona una propria magia, ma il 7 è il numero magico per eccellenza» proferiva con la dovuta autorevolezza.
Io e mia sorella lo seguivamo attente. Ci piaceva, quando il nonno parlava di numeri.
«Il 7 rappresenta il tutto, perché 7 sono i giorni che Dio ha impiegato per la creazione e il 7 poi è composto dal 3, che simboleggia la Santa Trinità, e dal 4, che richiama gli elementi della terra».
Certe cose il nonno le sapeva bene, era stato un insegnante al liceo. Sicché, per fugare ogni dubbio, proseguiva con un interminabile elenco della presenza di quel numero magico in qualsiasi ambito potessimo considerare. Non erano, forse, 7 i giorni della settimana, i colori dell’arcobaleno, le virtù e i vizi capitali, i Sacramenti, gli anni di disgrazia provocati dalla rottura di uno specchio, i pianeti sacri, le note musicali, i simboli dei numeri romani, i sigilli che annunceranno la fine del mondo seguita dal suono di 7 trombe da parte di 7 angeli guidati da 7 portenti?

Quando arrivava ad annunciare la fine del mondo, noi bambine annuivamo sconcertate. Ma poi 7 erano anche le città regie della Sardegna che avevano ottenuto tale titolo sotto la dominazione aragonese e spagnola: tra tutte, spiccava Cagliari. La nostra Cagliari, la terra delle nostre origini.

Era stata la bisnonna Giovanna la prima a spostarsi nel continente. Segnata dall’infausto destino di essere nata settima di altrettante figlie femmine e condannata per questo, secondo la tradizione, a trasformarsi in una “coga”, ovvero in una delle terrificanti streghe sarde che si aggiravano di notte per le case nutrendosi del sangue dei nascituri, Giovanna per questo era stata mandata in Piemonte dai genitori, dove, ormai adolescente, aveva trovato impiego come donna di servizio presso una famiglia benestante.

C’era un’altra leggenda che rimbalzava tra i racconti degli adulti e che aleggiava intorno alle motivazioni che avevano causato il trasferimento della bisnonna. E verteva, più che sui suoi presunti poteri di strega, sull’eventualità che fosse stata allontanata dalla Sardegna a causa di una gravidanza indesiderata sopravvenuta in seguito a una relazione proibita con un medico cagliaritano. Una volta stabilitasi nel capoluogo piemontese, la madre di mio nonno si era accasata con un giovanotto che aveva accettato di sposarla malgrado quel figlio che non era il suo e senza la pretesa di altri eredi.
Rispetto a questa seconda versione, tuttavia, noi bambine non avevamo certezze. Solo in un’occasione, durante una vacanza sull’isola, io, che ero la più ardita, mi ero rivolta direttamente all’ interessata. «Nonna, è vero che hai amato un uomo che poi hai dovuto lasciare a forza?» avevo domandato d’un fiato, facendomi coraggio.

L’anziana donna mi aveva fissato con gli occhi annacquati dalla nostalgia dei ricordi ormai lontani. «Sono cose successe tanto tempo fa, bambina. I vivi li hanno già dimenticati. Soltanto i morti non dimenticano. I morti ricordano i loro peccati e li espiano vagando la notte in una processione di tuniche bianche. Ma guai se un vivo incrocia un corteo di morti, la sua fine è annunciata. A meno che non intervenga l’anima di un parente defunto a salvarlo» aveva risposto pacata. Un brivido mi aveva attraversato dalla testa ai piedi. Inseguivo e temevo il fascino di quella terra antica e resistente che, come la bisnonna, mi appariva palpitante in un lungo respiro di suggestiva saggezza che celava l’unica e inaccessibile verità: il mistero della vita e della morte.

Giovanna venne a mancare circa un ventennio dopo. All’età di 106 anni compiuti, spirò lo stesso giorno dello stesso anno in cui nacque prematuramente mia nipote Alice: il 7 luglio del 2007. Nessuno osò concretizzare a parole il presagio sfavorevole che aveva suscitato quella particolare coincidenza di date.

Mia sorella Lucia mise a tacere qualsiasi inconsistente superstizione e si dedicò alla figlia. Sfortunatamente, e a dispetto di ogni buona intenzione, sin dalla prima infanzia Alice manifestò una salute cagionevole. Era una bambina intelligente, dolce, sensibile; ciò nonostante, cresceva male. Minuta nella costituzione ai limiti del rachitismo, era costantemente inappetente, svogliata, poco vitale. Iniziò la trafila dei controlli pediatrici: nessun dottore fu in grado di definire di cosa Alice soffrisse.

«Sono i numeri» ripeteva mia madre. «Tutti quei 7 influiranno negativamente. È risaputo che le persone la cui esistenza è caratterizzata dal numero 7 sono dotate di una singolare ricettività».

Lucia si dileguava dopo averla fulminata con la sguardo. Io tentavo, invano, di non farmi condizionare negativamente.
Alla fine del primo anno di scuola elementare, mia nipote peggiorò. Era, se possibile, ancora più smagrita e lamentava una costante stanchezza. Lucia inveiva contro tutti i medici presso che l’avevano fino a quel momento visitata: era inaudito che l’unica causa che riuscivano a indicare, fatta eccezione per la mancanza di qualche vitamina e dei sali minerali che veniva comunque sopperita con dei buoni integratori del tutto inefficaci, fosse riconducibile alla sola sfera emotiva. Tensione, stress, ansia: i medici davano responsi vaghi, insufficienti.

Decidemmo di trascorrere il periodo estivo in Sardegna: un cambiamento nello stile di vita, l’aria salubre e il buon cibo avrebbero di sicuro fatto bene alla bambina. Ogni anno affittavamo un appartamento in una località differente; quell’estate optammo per la vecchia casa di campagna della bisnonna, rimodernata e situata in una seducente zona a ridosso di una formazione collinare e a pochi chilometri da Cagliari. La situazione non migliorò. Valutammo la possibilità di portare Alice da una “bruxa”, una di quelle donne che erano riuscite a invertire i loro poteri di strega diventando guaritrici, esperte di erbe magiche, la cui credibilità occupava ancora un posto di rilievo all’interno delle comunità sarde. Lucia si rifiutò: era scettica, non intendeva piegarsi a nessuna soluzione che non contemplasse il normale raziocinio.

Alla vigilia del settimo compleanno di Alice, organizzammo una festa all’interno del cortile della casa. La piccola mi aiutò a sistemare i festoni e a portare in tavola le pietanze. Quando fu il momento di spegnere le candeline, ci accorgemmo con sgomento che era scomparsa. La cercammo dentro e fuori le mura di casa, ciascuno confidando che non le fosse accaduto nulla di male.

La trovò mio padre: passeggiava serenamente lungo un viottolo sperduto di campagna. Lucia se la strinse al petto e pianse tutte le lacrime che aveva trattenuto negli ultimi anni.

La sera stessa, mi accoccolai accanto a lei per la consueta favola della buonanotte e con la speranza di capire quale fosse stato il motivo del suo allontanamento. «Ho visto una fila di persone fuori dal cancello e l’ho seguita» mi rivelò candidamente la bambina.

Mi sollevai a scrutarla: «Quali persone, Alice?». «Sì, zia, c’erano tante persone vestite di bianco che camminavano per la strada. Volevo seguirle, ma poi non c’erano più».
Ripassai mentalmente la lista degli eventi in programma nel piccolo borgo in cui risiedevamo: per quella giornata non rammentavo di una processione religiosa e men che meno di una tradizionale sfilata folkloristica. Contattai la Pro Loco per averne conferma: mi garantirono che, per quanto concerneva le pianificazioni ufficiali, nessuna passerella di gente in tenuta bianca era stata autorizzata a sfilare per le vie del paese. Domandai a Laura se avesse mai raccontato ad Alice alcune delle leggende sui morti più in voga durante la nostra infanzia. «Stai scherzando, Sara? Non mi sognerei mai di infarcire la testa di mia figlia con quelle storie assurde» si indignò. Mi rassegnai: mia nipote, oltre a essere fragile fisicamente, soffriva, probabilmente, anche di allucinazioni. Uno strano presentimento si impossessò delle mie giornate. Diverse notti dopo sognai di dormire nella stessa casa in cui mi trovavo. Nel sonno onirico, mi agitavo alle prese con visioni di cartelli che portavano impresso il numero 7 e con l’intercettazione di un lungo corteo di anime che scorgevo in lontananza. All’improvviso, sentivo bussare alla porta; un ticchettio continuo e deciso che finiva per svegliarmi. Andavo ad aprire e, titubante, mi trovavo davanti uno sconosciuto, un signore di una certa età con i baffi e i capelli bianchi che mi salutava mesto. Gli chiedevo di cosa avesse bisogno e lui, sorridendo, rispondeva con un’unica frase, prima di sparire nei fumi scomposti di altre vaghe scene. Rispondeva, testualmente: «7 volte 7».

«Cosa può significare?» fece mia madre torcendosi le mani. Avevamo tenuto Lucia all’oscuro di tutte quelle stranezze per non peggiorarne il già precario stato d’animo. «Non ne ho idea, mamma. Sarà stato il frutto delle mie insane costruzioni mentali, dell’inconscio che lavora a nostra insaputa…». Mia mamma si produsse in un segno di diniego. Non osai contraddirla: sarebbe stato inutile.

Per stemperare la tensione, la domenica successiva proposi ad Alice una gita a Cagliari. «Ti va di venire con la zia? Faremo una sosta in una delle pasticcerie più fornite e potrai scegliere tutti i dolci che desideri».
La bambina ne fu entusiasta. Partimmo di buon mattino, godendo di un meraviglioso cielo intagliato di nuvole basse, del fascino dei quartieri storici della città e del panorama mozzafiato che ci attardammo ad ammirare dal Bastione di Santa Croce. Individuai tra le vie del centro l’insegna di una pasticceria che vantava i migliori dolci tradizionali. Era gremita di turisti e di persone del luogo in attesa del loro turno. Quando fu quasi il momento del nostro, tesi l’orecchio alla conversazione che si stava svolgendo tra un avventore e quella che dedussi fosse la titolare del negozio. «Allora, dottor Iginio, è scappato via dal Nord Italia per venire a farci visita?» stava dicendo la donna.

Il dottore in questione, un uomo elegante, dai modi cordiali e dalla cadenza non propriamente sarda, allargò le braccia come a voler intendere che non avrebbe mai potuto rinunciare alla magnificenza che lo circondava. «Non fraintenda, Grazia, a Genova si sta bene, ma il lavoro in ospedale assorbe tutte le mie energie.
In Sardegna mi rigenero» esclamò.
Grazia sorrise raggiante allungandogli un vassoio ben confezionato. «Ecco la torta, e buon compleanno. Quanti anni ha detto che compie?».

L’uomo si schermì con un gesto eloquente della mano: «Non mi ci faccia pensare. Siamo praticamente al giro di boa. Eppure, mi sento un fanciullo. Potrei tranquillamente affermare che oggi compio 7 volte 7 anni».

Mi girai di scatto. Di sicuro, impallidii. E la mia espressione non passò inosservata.
«Si sente bene?» mi chiese subito dottore. «Quanti anni ha detto di compiere?» risposi solo. L’uomo mi fissò costernato. «Oggi, mio malgrado, festeggio i 49 anni».

«No, no, prima… Quanti anni ha detto di compiere?» insistetti.
Si grattò la testa. «Ho detto di sentirmi un 7 volte 7, più che un quarantanovenne».

Lo afferrai per un braccio: «Qual è la sua specializzazione medica?». Avevo perso ogni parvenza di lucidità. Ma sentivo con tutta me stessa che quello era il dottore che cercavamo da ben 7 anni.

Alice venne curata nel più rinomato ospedale pediatrico di Genova. Iginio riuscì dove tanti suoi colleghi avevano fallito, diagnosticando una rara malattia genetica denominata sindrome di Bartter, la quale, a causa del malfunzionamento dei reni, provoca l’impossibilità del corpo di riassorbire sostanze importanti come il sodio, il cloro e il potassio. Ci spiegò che i sintomi della malattia potevano manifestarsi dall’età prenatale alla prima infanzia, comportando la nascita prematura, la ridotta crescita e svariate altre problematiche spesso difficili da rapportare alla patologia stessa.

Non sono mai riuscita ad appurare se, tra la mia famiglia e quella d’origine del dottore che ha salvato la mia nipotina, corresse un particolare legame. Qualche

giorno prima di lasciare la Sardegna, mi impegnai in un’accurata analisi del contenuto dei bauli che la bisnonna Giovanna aveva debitamente conservato durante gli anni in cui era tornare a vivere nella sua amata terra. Non trovai niente che potesse ricondurmi al misterioso amore che l’aveva voluta fuggitiva quasi un secolo prima. Soltanto una foto catturò la mia attenzione: l’immagine in bianco e nero di un giovane medico con lo stetoscopio al collo che, a osservarne attentamente il profilo, poteva anche ricordare lo sconosciuto anziano che mi era venuto in sogno. O magari, no. Il magnetismo di un dettaglio può stimolare una tale suggestione da giocare alla mente brutti scherzi. Mi capitò, invece, tra le mani, un quaderno di appunti di mio nonno. Dalle date riportate, risaliva, probabilmente, al periodo dei suoi studi universitari. Sulla prima pagina, nella sua consueta e svolazzante grafia, il nonno aveva scritto: “Insegna Ippocrate che il 7, per le sue virtù celate, mantiene nell’essere tutte le cose; esso è dispensatore di vita, di movimento ed è determinante nell’influenzare gli esseri celesti”. E chi ero io per poter contraddire Ippocrate? Qualcuno più saggio di me ha detto che l’ultimo passo della ragione non può che essere quello di riconoscere l’esistenza di un’infinità di cose che la sorpassano.

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