Sotto il cielo italiano

Cuore
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Sono nata in Brasile e per amore mi sono trasferita a vivere a Roma. Ma non è andata come immaginavo. Per anni ho riposto la mia felicità nelle mani dell’uomo sbagliato e ne sono uscita distrutta. Poi qualcuno mi ha indicato un’altra strada e l’ho seguita

STORIA VERA DI MARIA VERÔNICA A. RACCOLTA DA BARBARA BENASSI

 

Moglie e buoi dei paesi tuoi… è corretto questo proverbio? Non nel mio caso e comunque per quel che mi riguarda sarebbe più esatto dire: “Mariti e buoi dei paesi tuoi”. Ma la storia è lunga e comincia in un luogo molto lontano.

Io e Federico ci siamo conosciuti nel 2002 in Brasile, il mio amato Paese, e per tutto l’anno che ci siamo frequentati durante il suo Erasmus all’Universidade de São Paulo, è stato un ragazzo fantastico. Con maniere da principe azzurro mi faceva recapitare a casa mazzi di fiori, regalini e non si risparmiava in piccole gentilezze. Fin dai primi mesi che stavamo insieme parlava di matrimonio e insisteva affinché mi trasferissi in Italia per conoscere i suoi.
Scaduto il suo anno a San Paolo, al momento della sua partenza, il mio cuore aveva trasformato il suo invito in un imperativo, anche se in quel Paese lontano non conoscevo nessuno a parte lui e l’unica frase che capivo era “ti amo”. A ogni modo, malgrado fossi inesperta e innamoratissima, una saggezza antica da veterana su questioni di cuore mi imponeva di non pesare su di lui o sulla sua famiglia e di conservare la stessa indipendenza di cui godevo in Brasile, dove avrei lasciato la mia casa, i miei studi e il mio lavoro.
E dato che a quei tempi avevo 23 anni le opportunità non tardarono a presentarsi.

Dopo brevi ricerche, attraverso un’agenzia, trovai una sistemazione a Roma come ragazza alla pari presso una famiglia. Il contratto prevedeva che avrei alloggiato presso di loro fino al venerdì con i weekend liberi, eccezion fatta per le serate in cui dovevo fare la baby-sitter. Come resistere? Sembrava perfetto per me e naturalmente non esitai un attimo ad accettare. Arrivai in Italia i primi di giugno e subito Federico mi presentò ai suoi genitori, che mi accolsero benissimo tanto che sua madre col tempo divenne la mia seconda mamma e tutt’oggi, se ripenso a lei, sento un moto di affetto nei suoi confronti per le mille cose che fece per me. Non da ultimo cercare di risolvere il mio primo grosso problema.

Nella famiglia che mi ospitava come ragazza alla pari, la madre dei bambini, divorziata da un brasiliano ormai da diversi anni, era spesso in preda a crisi furiose e sembrava sempre arrabbiata per qualcosa che non capivo appieno, visto che parlavo pochissimo italiano. L’unica cosa che mi era chiara era che mi sentivo continuamente aggredita e sotto accusa. Fu in quell’occasione che la madre di Federico si attivò per farmi assumere presso un’altra famiglia e da quel momento tutto andò per il meglio. Il padre era un ingegnere brasiliano che lavorava per una multinazionale nella capitale, mentre la madre era un’italiana adorabile che nel giro di poco mi fece innamorare dei suoi sette meravigliosi figli, dal primo all’ultimo, anche se con il più grande di 13 anni si venne a creare presto un feeling particolare. Fin da subito si rivelò il mio miglior collaboratore e insegnante che, con pazienza e pugno di ferro da precettore d’altri tempi, mi svelò i segreti della lingua italiana attraverso le vessazioni affettuose dei suoi fratelli. «Se non pronunci bene le parole, dovrai rileggere la favola della buona notte da capo» oppure, «se non parli bene, noi non capiamo e non possiamo fare quello che dici…» erano le frasi più ricorrenti che in un modo o nell’altro mi spronarono nell’apprendimento più di qualunque corso di lingua e il cui metodo brutale trovo efficace ancora oggi quando insegno alle mie allieve della parrocchia.

Così, sistemata in una famiglia accogliente, col tempo riuscii finalmente a guardarmi intorno. Roma mi si svelò in tutta la sua bellezza folgorante, conobbi molte altre ragazze alla pari come me e insieme a Federico incontrai amici della sua cerchia che divennero presto anche miei.

Dopo due mesi dal mio trasferimento potevo dirmi soddisfatta, ma a ben guardare di problemi ce n’erano e anche tanti e proprio dove meno me l’aspettavo.

Non so cosa sia successo di preciso, ma so per certo che il Federico che avevo trovato al mio arrivo in Italia non era lo stesso con il quale avevo vissuto uno splendido rapporto in Brasile.

Sicuramente durante il suo Erasmus a San Paolo non aveva preoccupazioni economiche, dato che all’epoca la differenza tra il real, la moneta brasiliana, e l’euro era sei a uno, ma soprattutto il suo modo di fare era gioioso, sereno e pieno di dolcezza nei miei confronti, mentre una volta a casa mi stava mostrando il suo vero volto. E non mi piaceva affatto.

«Non parliamo più in portoghese, parliamo italiano» fu una delle prime cose che mi impose.

E non ci fu niente che lo convinse a cambiare idea. Parlare in italiano con lui all’inizio fu durissimo, visto che non ero in grado di esprimere i miei sentimenti, i miei bisogni, ma ciò che più mi fece male fu la sensazione che la mia felicità lo disturbasse e che invece dalla mia insicurezza lui traesse potere.

E infatti ci prese gusto. Oltre a rifiutarsi di parlare ogni tanto nella mia lingua, iniziò a criticarmi su tutto, in particolare sul mio aspetto.
«Hai i seni troppo piccoli» mi ripeteva in continuazione, oppure: «Hai messo su qualche chilo di troppo».

Devo ammettere però che malgrado mi dispiacesse non essere più attraente per lui come una volta, come quando sotto il sole cocente del mio Paese mi aspettava per ore sotto l’aula dell’università solo per vedermi passare, i suoi apprezzamenti negativi non riuscivano a offendermi davvero.
Se è vero che in Brasile si dà molta importanza al fattore fisico e che i brasiliani ricercano un’estetica che guarda le forme, la bellezza nella mia famiglia non era mai stata importante. I miei genitori non hanno mai fatto affermazioni sul mio corpo e hanno sempre prestato attenzione invece a qualità più astratte: l’intelligenza, la bontà, la voglia di imparare. E anche quando da piccola a scuola mi prendevano in giro perché ero troppo alta e magra, la cosa non mi toccava davvero perché a casa mio padre mi rassicurava abbracciandomi: «Tesoro, le persone parlano tanto per dire. L’importante sono la conoscenza e l’istruzione perché queste cose non si deterioreranno mai, te le terrai per sempre, mentre il fisico con il tempo cambia, potrai ingrassare, dimagrire, quello che hai nella testa invece può solo evolvere».
Era con gli echi di queste parole che riuscivo a farmi scivolare addosso le critiche di Federico e inoltre, siccome in quel mio primo anno a Roma ero circondata da tanti amici, di fronte al suo atteggiamento ero in grado di reagire anche con un certo impeto.

«Se non sei contento, puoi andare…».
Ma Federico non se ne andava mai veramente. Anche se ci lasciavamo era sempre pronto a riagganciarmi ogni volta che qualcuno iniziava a corteggiarmi facendo della nostra storia un movimento ondivago perpetuo, un tira e molla apparentemente senza fine.
Uno dei soliti litigi provocati da lui, che ci portò a un’altra rottura, capitò un mese prima della scadenza del mio contratto come ragazza alla pari e per come la vedevo io era ora di farla finita e di rientrare per sempre a San Paolo.
I miei erano felicissimi di riavermi a casa e mal sopportarono le telefonate quotidiane che Federico aveva iniziato a fare dal mio rientro.
«Ho capito che ti amo troppo, torna ti prego, andremo a vivere insieme e ti prometto che sarà tutto diverso» non faceva che ripetermi.
E io, ancora innamorata del ragazzo che avevo conosciuto in Brasile, quello al quale per la prima volta mi ero concessa e che mi aveva fatto sognare con occhi da bambina un matrimonio in chiesa, non riuscii a resistere alle sue promesse.

Così tornai in Italia piena di speranze e con l’impegno preso con i miei di terminare gli studi che avevo lasciato a metà in Brasile, ma le cose non andarono come immaginavo.

Innanzitutto non mi vennero riconosciuti gli esami che avevo sostenuto, così dovetti ricominciare da capo. In quel frangente scelsi un corso di laurea in interpretariato e traduzione presso l’Università di Studi Internazionali che si rivelò molto più impegnativo del previsto. Inoltre le mie amiche au-pair erano tutte rientrate nei rispettivi Paesi e questo mi faceva sentire più isolata che mai. E infine, cosa più importante per me, l’atteggiamento di Federico, dopo un primo momento di entusiasmo non era affatto cambiato, anzi a volte le sue critiche nei miei confronti si erano pure inasprite.

Fu così che iniziarono per me quattro anni molto duri, durante i quali persi a poco a poco la gioia di vivere e la fiducia in me stessa, ma mai il sorriso. Avevo sempre la sensazione di essere protetta, che malgrado tutto avrei trovato una via d’uscita e in effetti fu così.
In quel periodo, nei fine settimana, lavoravo in una pizzeria e qualche volta mi intrattenevo a chiacchierare con un signore gentile che si prendeva il tempo di ascoltarmi e fu grazie a lui che riuscii a trovare un cammino di pace.

«È proprio sulla piazza qui vicino, è una chiesa piccolina, ma ti farà trovare la serenità nella preghiera e nell’aiutare gli altri, se vuoi» mi suggerì timidamente una volta prima di andarsene.

Seguii il suo consiglio e la mia vita inaspettatamente cambiò. Una sera infatti che mi sentivo particolarmente sola, entrai in quella piccola chiesa dove trovai il grande conforto della preghiera e la calda accoglienza della sua comunità guidata da don Cesare.

«Non ne posso più di questa vita, Dio mio dammi un segno, dimmi se devo perseverare oppure se lo devo lasciare» pregavo con fervore da martire inginocchiata davanti all’altare. E il segno non si fece attendere. L’ultimo weekend di febbraio partimmo per andare a sciare sull’Appennino con alcuni amici e in quel frangente caddi sulle piste e mi feci male a un ginocchio. Niente di grave, ma per evitarmi le scale per raggiungere le camere mi sistemarono su un divano letto nel salotto dove passai buona parte del mio tempo. Una notte mi svegliai di soprassalto e con tutte le mie forze salii le scale per raggiungere la mia camera dalla quale ero certa di aver sentito dei rumori. Lì per lì non volli credere a quello che vidi, ma l’evidenza era spiazzante.

Nel letto della nostra camera Federico e una ragazzona bionda sembravano divertirsi un mondo. «Fuori da qui» riuscii a balbettare in uno stato alterato di coscienza, incapace di coniugare l’uomo che era stato dolcissimo dopo il mio incidente sugli sci, che mi aveva portata in ospedale, preparato da mangiare e coccolata con quello sdraiato insieme a un’altra tra le mie lenzuola.

Dopo quell’avvenimento avrei voluto fuggire all’istante, ma dovetti aspettare il giorno dopo che arrivasse un pulmino a prendermi. Una volta a casa, tra una preghiera e un pianto, decisi di tagliare definitivamente i ponti con Federico.
Ma a un mese da questa decisione sua madre si presentò da me.
«Avete litigato? Ora gli parlo io, ma quando ti chiamo ti prego rispondi altrimenti mi preoccupo» non smetteva di ripetermi.
Come ho detto quella donna era come una seconda madre e dato che per me non era facile prendere le distanze da lei, un giorno vedendo il suo numero risposi in automatico.
«Non posso stare lontano da te. Ti prego vediamoci» mi sussurrò Federico con una voce di seta.
Malgrado sapessi che come un ragno avrebbe tentato di tessere di nuovo la sua tela intorno a me, accettai lo stesso di incontrarlo solo per mettermi alla prova. «Non voglio più avere a che fare con te, hai superato il limite» mi sentii pronunciare decisa, una volta seduta in macchina con lui che mi fissava implorante.
«Ti prego perdonami» continuava lui imperterrito.
Ma in risposta scoprii di avere dentro di me una forza tutta nuova che mi spingeva lontano da quell’uomo che avevo tanto amato e di cui ora vedevo solo i difetti.

Dopo quella separazione netta e definitiva ciò che mi sostenne davvero furono l’amore dei mei genitori, che con le loro parole affettuose mi fecero sentire speciale, e la preghiera. Non smettevo mai di ringraziare il Signore per avermi aiutata a liberarmi di Federico e per avermi dato la forza di andare avanti.

Dovevo solo portare a termine le cose che ritenevo importanti, come il mio percorso di studi, e ricominciare ad amarmi. Così a poco a poco ripresi a vivere.
Lo studio, una volta liberata dall’afflizione, mi sembrava anche più facile, così come fare nuove amicizie, mentre la parrocchia e la preghiera mi aiutavano a trovare la mia centralità affidandomi al Signore.

E fu proprio qui, nelle grandi sale illuminate dalla luce al neon di don Cesare, che incontrai per la prima volta mio marito.
A settembre, per sostituire il vecchio insegnante di italiano per stranieri, un uomo serio e monumentale che impartiva conoscenza a immigrati di tutte le età con generosità da filantropo, venne inserito un nuovo volontario, Sergio, un insegnante giovane e dinamico che non tardò ad attirare la mia attenzione.

Un giorno, dopo che ci avevano già presentati, mi chiese di aiutarlo a tradurre in italiano dei documenti per alcuni immigrati provenienti dal Mozambico e da allora per un motivo o per un altro non smettemmo mai di collaborare tanto che mi fece inserire come insegnante in una classe di sole donne mozambicane. Con le mie alunne e con lui al mio fianco raggiunsi una serenità che ricordavo solo di aver provato nella mia terra.
Io e Sergio condividevamo molto, l’amore per le persone, per le lingue e per il volontariato, gli argomenti tra noi non mancavano di certo e una sera, a una festa di fine corso, finalmente gli chiesi di fare a metà con me di un dolce. Un cucchiaino dopo l’altro, la discrezione si sbriciolò e trovammo il coraggio di confessare il nostro amore. Se in passato mettevo tutta la mia felicità nelle mani del mio ex e ne uscivo distrutta, con la preghiera ho imparato a riporre la mia felicità nelle mani di Qualcuno molto più grande di tutti noi e oggi, che con Sergio siamo sposati da 14 anni, abbiamo due bambine e ci amiamo con una foga da adolescenti, il mio cuore brasiliano non smette di ringraziare per i tanti doni che mi sono stati concessi sotto il bel cielo italiano. ●

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