Un matrimonio bianco

Cuore
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“Un matrimonio bianco” è una delle storie vere più apprezzate del n. 40 di Confidenze. Ve la riproponiamo sul blog

 

In poco tempo io e Sara eravamo diventati due buoni amici, o forse due soci nell’impresa “Carolina”: per lei accudire nostra figlia, guardarla crescere e insegnarle tutti era l’unica cosa importante. Mi sentivo come una figura sullo sfondo di un teatrino dove le attrici principali erano loro

Storia vera di Fabio M. raccolta da Guglielmo Pizzinelli

 

Fu mentre compivo un gesto banale come grattare del parmigiano sulla pasta appena condita che ricordai la data in cui mi ero messo con Sara. Calcolai che erano cinque anni e un mese esatti. L’orecchio attento al programma radio di musica classica, consumai solitario la mia cena, rimuginando sul nostro rapporto. Quella sera, lei era al cineclub con le amiche. Siamo sempre stati una coppia affiatata, assai simili come carattere e come visione della vita e dei valori. Ricordo la grande intesa che ci faceva tanto divertire nei primi due o tre anni della nostra relazione. Fu quella a trascinarci nell’avventura di una convivenza e a farci decidere di scegliere una nuova casa da condividere per la vita.

Più tardi, lo psicologo mi avrebbe chiesto com’era il rapporto fisico tra me e Sara all’inizio, pur sapendo benissimo – suppongo – quale poteva essere la risposta. Ma forse la mia lo aveva un po’ spiazzato. «Cosa vuole che le dica: per entrambi il sesso e la passione all’inizio avevano una certa importanza. Ma io non l’ho mai ritenuto il criterio dominante né per la scelta di un partner, né per valutare lo stato di salute dell’unione. E credo nemmeno Sara». Probabilmente, a posteriori, fu questo a fregarci. Il terapeuta mi chiese quanto spesso lo facevamo. «Come per molte altre coppie, la media al principio era sempre due o tre volte a settimana, anche nei primi due anni di convivenza. Poi, la frequenza è andata calando». Lui prese nota e annuì in silenzio. Così mi sentii di aggiungere: «Unica eccezione, il periodo limitato al momento in cui abbiamo deciso di avere Carolina, certo». Avere un figlio. Una scelta, un progetto di vita, un’avventura. Ma una volta arrivata Carolina, per Sara improvvisamente non c’era mai tempo né voglia di fare altro che non fosse occuparsi di lei. Accudirla, allattarla, svezzarla, guardarla crescere e imparare cose nuove, insegnarle tutto… Io ero come diventato una figurina sullo sfondo di un teatrino in cui le uniche attrici di rilievo erano lei e la piccola. Portavo a casa i soldi, ero carino, cordiale, servivo a fare piacevoli conversazioni la sera a cena e nei weekend, ma di fatto per la mia compagna stavo diventando un riferimento scontato e neppure importante. Io e Sara così siamo velocemente diventati due “buoni amici”, o, detto in altri termini, due soci nell’impresa “Carolina”, se preferite.

«Sa» mi disse lo psicologo quando gli confessai da quanto tempo non facevo sesso con la mia compagna, «un tempo venivano chiamati matrimoni bianchi quelli combinati e mai consumati. Oggi con questo termine si indica all’incirca un 30% di coppie di lunga data che, dopo i primi tempi, non hanno più nessuna voglia di fare l’amore. Negli ultimi dieci anni, al di là di disfunzioni e specifiche patologie, nella realtà di tutti i giorni il numero dei coniugi che vive ormai come fratello e sorella è triplicato». Annuii distrattamente: ricevere quei dati e quelle percentuali forse avrebbe dovuto consolarmi?

Dopo circa un anno di astinenza, cominciai a compensare in altri modi. Prima con fantasie e ricordi ripescati nel passato. A volte con pornografia di vario tipo trovata in rete. Poi, tramite i social che ormai sono penetrati nella vita di tutti, presi a flirtare su Facebook con amiche e vecchie compagne di liceo. Nulla di rilevante, qualche battuta, un ammiccamento qua e là. Una che ricordavo come particolarmente audace già all’epoca, un giorno mi inviò una foto di lei nuda su una spiaggia sarda, la mano poggiata tra le gambe, un gran sorriso provocatore stampato sul volto. Questa e altre situazioni simili furono una discreta fonte d’ispirazione per qualche settimana. Quei rapporti a distanza, innocui e del tutto virtuali, durarono per quasi due anni e me li feci bastare. Finché su Twitter non ritrovai quella che, negli anni dell’università, era stata la mia compagna di giochi per parecchi mesi: Esther. Lei era diversa dalle altre donne che avevo conosciuto e con le quali avevo fatto l’amore: era un turbine, una forza della natura, instancabile. Con lei sembrava di essere tra le lenzuola insieme a una pornostar. Mi sono sempre chiesto quanti uomini avesse avuto nella sua vita. Di certo, tutti quelli che aveva voluto. Impossibile resisterle. Nerissima di capelli, occhi neri intensi, corpo sinuoso. Fu molto contenta di essersi rimessa in contatto con me.

 

 

 

Chattammo per qualche settimana: lei era in trasferta in Puglia per seguire un progetto. Poi rientrò a Torino e, inevitabilmente, ci incontrammo. Decidemmo per una merenda in centro. Arrivò indossando un “quasi nulla” che però le stava benissimo in quella calda giornata di fine settembre. Dopo tanti anni ci baciammo sulle guance e seguì un breve, ma affettuoso abbraccio durante il quale rimasi discretamente incantato dal suo profumo fresco e leggero. Faticai a staccare gli occhi dai suoi mentre ripercorrevamo gli eventi accaduti nelle nostre vite, quando eravamo lontani. Quanto a occhiate e gesti, Esther non fece sconti. Era una macchina da seduzione: sembrava fatta apposta per far ribollire il sangue a un uomo. La merenda diventò un aperitivo, che diventò una cena vicino casa sua, che diventò un bicchiere “della staffa” su da lei. E dopo solo mezz’ora che eravamo a casa sua, finimmo a letto.

Facemmo l’amore in modo travolgente, quasi furioso, scatenato; senza domande, incertezze, o stupore, come se tutto fosse stato già concordato da settimane nei messaggi in chat. Io sudatissimo, lei divertita ed eccitata, alla fine ci ripromettemmo di rivederci e di rifarlo. E così fu una, due, dieci volte. Ma lei era single, io no. Io dovevo trovare i momenti giusti anche solo per rispondere ai suoi WhatsApp, per sgattaiolare fuori o per rientrare in ritardo, deviando verso casa sua al ritorno dal lavoro o da un viaggio di affari. Esther sembrava non fare molto caso a tutto questo, anzi ne pareva divertita. «È un po’ come quando eravamo all’università, solo che tu hai il tuo guinzaglio» disse una sera.

«Be’, mi ricordo che quando eravamo all’università lo facevamo anche quattro volte di fila, se è per quello» commentai. Rise. «Per me non c’è problema».

Era vero, aveva ragione. E io in quel periodo ero rinato: ero più ottimista durante le mie giornate, più rilassato, persino più attivo. Una sera a cena, Sara mi chiese come mai ultimamente facevo sempre tardi in ufficio e avevo così tante cene di lavoro. Giustificai la cosa con il cambio del management al livello superiore nella mia divisione. Sapevo di poter contare sull’appoggio di un collega e amico che anche lei conosceva, nel caso mi avesse chiesto di darle conferme. Ma in realtà non ero preoccupato di una sua possibile reazione. Era stata lei ad allontanarmi progressivamente da sé, nonostante rimanesse una compagna affettuosa per tutti gli altri aspetti del rapporto.

 

 

 

«Si rende conto che così non risolve il problema con la sua compagna, vero?» mi pungolò lo psicoterapeuta durante una successiva seduta. Risposi di sì, ma che non sapevo come affrontare la cosa con Sara. «Cosa dovrei fare, confessarle di avere un’amante? E poi?». Ribatté che solo io potevo e dovevo sapere cosa fare, ma aggiunse che stavo aggirando il problema, invece di andare alla radice. Certo, solo che al momento stavo bene, ero eccitato come un ragazzino: ogni volta che salivo le scale di Esther, ne uscivo – come diceva il mio collega – “bello sereno” e volevo solo godermi ogni singolo momento di piacere e di divertimento con lei. Ridevamo un sacco, io e Esther.

Poi, un sabato pomeriggio, lei gettò la bomba. «Ok, dài. Vieni a vivere con me».

«Qui, da te?» dissi, spiazzato.

«Ma no, non qui. A Zurigo. Mi hanno affidato la startup di una filiale là. Parto tra tre settimane. Dai, sarà divertentissimo!». Esitai con il cuore che andava più veloce. Ma percepii pure un filo di terrore che si insinuava in me. Che stava dicendo? Risposi vagamente che io non potevo allontanarmi da Torino, che non era nei miei progetti.

«Fanne altri» disse. Le ricordai che avevo una figlia di tre anni e che non potevo mollare tutto così. Replicò: «Non vedo perché no» quindi sottolineò che molti altri uomini lo facevano. Molti, sì. Ma io non l’avrei mai fatto. L’istante seguente una tristezza senza fine s’impadronì di me. Conoscevo Esther e sapevo cosa sarebbe successo nel momento successivo. Il suo viso cambiò, il suo corpo si chiuse. La guardai: già sentivo la sua bellezza e il fascino che la contraddistingueva perdersi come sabbia tra le mie dita e allontanarsi da me, alla deriva, oltre la mia portata. «Speravo che mi rispondessi di sì. Speravo che sentissi il mio stesso trasporto». Esther era così, lo sapevo. Era una persona dalle decisioni impulsive, di getto. E quando le prendeva, andava dritta sino in fondo alle sue scelte.

Risposi che mi spiaceva molto di averla delusa; in parte volevo essere ironico, ma non credo che lei colse la sfumatura. Andò in bagno, entrò nella doccia e disse di tirarmi dietro la porta quando uscivo.

Uscii da casa sua sconcertato, intristito. Feci quattro passi lungo il Po, tormentato dalla situazione. Zurigo, Esther, una nuova vita. Prima di salutarmi, aveva precisato che mi lasciava 20 giorni per decidere. Mi sentivo incapace di provare anche solo a fare piani. Pensavo a Sara e provavo un senso di nostalgia per lei, pur sapendo come fossimo lontani ora; pensavo a Carolina e il mio cuore andava in pezzi all’idea di non poterla più vedere tutte le sere. Poi ricordavo ogni momento a letto con Esther e il brivido di quell’estasi. Gironzolai distrattamente finché di colpo mi resi conto che dovevo parlare con Sara: di me, di lei, di tutto quello che stava succedendo. Era arrivato il momento di togliere di mezzo ogni non detto. Mi avviai a casa. A una cinquantina di metri dal nostro portone notai un fuoristrada scuro, fermo con la luce dell’abitacolo accesa. Accanto al guidatore il passeggero aveva capelli biondo ramati, lunghi e mossi, inconfondibili: solo Sara aveva quella chioma. Avvicinandomi all’auto da dietro, vidi la mano di lui carezzare quei capelli, mentre attirava il viso di Sara verso il suo. I due si stavano baciando appassionatamente: lui si sporgeva verso l’altro sedile, allungando una mano sotto la camicetta di Sara. Mi bloccai a fissare quella scena per un minuto, poi affrettai il passo, superai la macchina senza farmi notare e salii in casa.

 

 

Aspettai che lei rincasasse e le riferii cos’avevo visto cercando di mantenere un tono di voce piatto e senza alcuna espressione in volto. Sara non fece una piega, annuì e disse solo: «Sì, te l’avrei detto presto. Dura da un po’. Così non può continuare: dobbiamo prendere delle decisioni». Mi disse che voleva la separazione per andare a vivere con quell’uomo. Ero come anestetizzato, sotto shock. Capii solo in quel momento che Sara non era più mia già da molto tempo, che tra noi era finita forse un anno prima. Compresi anche che l’amavo di un amore strano, ma ancora intenso; forse si era trasformato in affetto, ma lei era ancora nel mio cuore. Impiegammo pochissimo a disfare la nostra vita insieme e ci accordammo come buoni amici per gestire Carolina in condivisione. Sara sembrava rinata, io invece ero come in lutto e la cosa peggiore era che non sapevo davvero a chi dare la colpa per questo. Io e Esther ci scambiammo qualche mail e dopo un po’ lei mi invitò ad andare a trovarla a Zurigo. Dopo quattro mesi, ci andai. Una, due, tre volte. In nessuna delle visite abbiamo fatto l’amore. Esther ha sempre ascoltato e capito tutto con pazienza.

«Datti tempo» mi ha detto accompagnandomi all’aeroporto l’ultima volta, due settimane fa. Oggi è venerdì, sono a Caselle e ho in mano un altro biglietto per Zurigo. Sara mi manca moltissimo. Ma quando sono a casa, da solo, mi mancano anche l’ascolto e la pazienza di Esther, la selvaggia. Che però ora mi capisce: sa perché sono stato così distante in tutto questo tempo, perché ho frenato nel lasciarmi andare. Anche stavolta ho un biglietto di ritorno per lunedì mattina. Mentre m’imbarco e prendo posto in aereo, mi chiedo per la prima volta se, un giorno, quando sarò guarito e mi sentirò di nuovo in grado di provare qualcosa di profondo, vorrò restare a Zurigo con Esther. Sorprendendo anche me stesso mi rispondo: «Chissà».

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