Un nuovo domani

Cuore
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Ero single, giovane e avevo fatto del viaggio la ricerca del mio luogo di “ordine e bellezza, lusso, calma e voluttà” per dirla con le parole di Baudelaire. Finché non vidi il Senegal e incontrai Nass. Allora capii che il mio cuore aveva una casa a cui tornare

STORIA VERA DI MILENA C. RACCOLTA DA BARBARA BENASSI

 

“Tutto, laggiù, è ordine e bellezza, lusso, calma e voluttà”. Baudelaire, con le sue parole lievi, ripetute più e più volte nel suo Invito al viaggio, poesia evocativa e visionaria che ho tanto amato, ha mantenuto le sue promesse.

Mia madre mi aveva lasciata quando ero ancora in fasce e la vita con il mio papà era stata un’arrampicata su terreni aspri e aridi. Un’ospite, ecco cosa ero sempre stata per lui, tanto che ancora oggi non riesco a ricordare un momento felice. Invece il collegio, i refettori, le camerate enormi piene solo di nostalgia e la neve fuori dalla finestra e dentro al petto, li ricordo molto bene. Dopo il suo funerale, al quale non piansi visto che non scoprii mai quanto soffrisse o quanto mi amasse, per me nulla cambiò: mi limitai ad abitare nella casa dov’ero nata vagando nel vuoto delle sue stanze e della mia anima. Fino al mio incontro con il Poeta appunto che, nel momento di abbandono più nero, bisbigliando al mio orecchio con voce suadente, mi salvò soffiando sul mio cuore l’amore di una madre sparita e l’abbraccio di un padre di ghiaccio. La sua poesia, questa potente alchimia discreta, mi insegnò a vedere nel viaggio la porta stretta che conduceva alla libertà di non appartenere a niente e a nessuno e a credere in un altrove, in quel suo “laggiù”, dove il calore umano e la vicinanza erano di casa.

Così, dopo la laurea in lingue, trovai subito il lavoro che faceva per me. Un grande tour operator internazionale mi selezionò per testare i partner locali. Ero single, giovane, sganciata da tutto e soprattutto volevo fare del viaggio la mia condizione di vita.

Furono anni di attività forsennata in giro per il mondo che mi fecero gustare il sapore seducente del non avere radici, del poter partire e tornare a mio piacimento, ma al tempo stesso anni durante i quali la ricerca del mio luogo di ”ordine e bellezza, lusso, calma e voluttà”, non aveva dato i risultati sperati.

Fino al giorno in cui mi venne annunciata una destinazione del tutto nuova per me. Senegal. Africa nera.
Fu un viaggio stancante. Dopo solo una breve sosta a Dakar l’aereo atterrò in una cittadina sulla sponda sinistra del fiume Casamance dove fin da subito l’Africa mi stordì in tutta la sua opulenza di odori, colori, rumori.
Uscita dall’aeroporto, più un campo d’aviazione che altro, venni inghiottita da una bolla di umidità dalla quale non uscii più. Tra urla di autisti, guide e venditori di frutta cercai con gli occhi la persona che l’operatore locale mi aveva assegnato per farmi visitare in piroga, unico mezzo possibile, la zona costellata di piccole isole. Ero stanca, affamata, frastornata e, a dire il vero, nutrivo serie perplessità su quel posto come possibile meta turistica. A ogni modo cercai di darmi un contegno e di difendere la mia valigia da mani prodighe di aiuto indesiderato, tanto che quando un ragazzone alto mi si avvicinò più degli altri con una sicurezza da guappo, sorridendo a 32 denti, bianchissimi tra l’altro, lo liquidai decisa.

«No, no grazie, non mi serve nulla».
Lui sorrise e alzò gli occhi al cielo.
«Cominciamo bene» esclamò in italiano. «Sono Nass. Milena tu… vero?» chiese mostrandomi una fotocopia sbiadita del mio passaporto dalla quale doveva avermi più o meno riconosciuta.

Presa in contropiede, abbandonai immediatamente la modalità “in guardia” e ricambiai il sorriso.

«Scusa, in viaggio non ho chiuso occhio. Sì, sono Milena». Nass scosse la testa divertito e mi fece salire sulla sua jeep impolverata.
«Ti accompagno in albergo e passo domani a prenderti quando sorge il sole».
Dopo aver riposato, mi sentivo un’altra.
L’alba aveva acceso il cielo di rosa e quando scesi nella hall trovai Nass lì ad aspettarmi in pantaloncini, maglietta, ciabatte e uno splendido sorriso. Durante il viaggio in macchina lo sommersi di domande, tanta era la curiosità di vedere quanto quel posto avesse da offrire. Nass mi ascoltava e rispondeva a malapena sempre sorridendo con i suoi soliti denti bianchissimi. Non sembrava ansioso di sponsorizzare le attrattive del luogo, d’altronde a ben guardare ne aveva tutte le ragioni. La natura parlava da sola: appena usciti dal villaggio, rigogliosa ed esuberante, ci sommerse.

Arrivammo a destinazione dopo due ore di jeep, di foto e di mie chiacchiere ininterrotte, ma prima di salire in piroga Nass guardandomi serio mi sussurrò serio: «Ora basta parole Milena, qui si può solo ascoltare la foresta che canta».

Iniziammo a scivolare sull’acqua placida dell’affluente, davanti a me Nass non parlava, solo le sue braccia scure e muscolose scandivano con il remo il ritmo del nostro avanzare. Lo sciabordio leggero e gaio si mescolava al ronzio degli insetti e al canto stridulo degli uccelli nascosti tra le mangrovie. A poco a poco i colori diventarono più nitidi, i pensieri più sereni e i suoni un unico tenero canto. Arrivati al campo Nass scese dalla piroga e la tirò in secco con movimenti rapidi e veloci per poi sollevare senza sforzo il mio zaino e sistemarlo in una capanna.

«Là per lavarti» disse poi indicando una cabina doccia dove taniche d’acqua si stavano scaldando al sole, «e laggiù il gabinetto» aggiunse porgendomi un bicchiere di vetro.

«E con questo?».
Nass sorrise mentre il suo sguardo malandrino si posava su una busta dalla quale tirò fuori una bottiglia. «Sorpresa, è vino di palma. Brindiamo a te. Hai fatto silenzio e nessuna foto, solo il cuore ha guardato. La foresta è stata contenta e ha cantato per te».
Rimasi immobile per un momento, poi senza una parola alzai il bicchiere e bevvi tutto d’un fiato. Un calore strano mi inondò, un nodo mi strinse la gola per l’emozione mentre sentii la mano della mia guida sfiorare la mia per riprendersi velocemente il bicchiere prima di sparire tra le capanne.

Quella giornata passò in fretta. Nass, nel tardo pomeriggio, mi accompagnò per un’accurata ispezione del campo e delle sue possibilità di accoglienza, durante la quale mi mostrò le anse del fiume e il verde lussureggiante della giungla.Terminato il giro rientrammo alla base con il buio e decidemmo di coricarci subito.
Il mattino seguente di buon’ora, mentre un’esplosione di rosso squarciava nel cielo nubi pesanti e innocue, trovai Nass pronto in riva al fiume ad aspettarmi. «Oggi andiamo a pescare» annunciò aiutandomi a salire sulla piroga.

Come per incanto, appena usciti, due delfini ci sfiorarono e mentre pellicani, fenicotteri, garzette, aironi e cicogne ci accompagnavano a pelo d’acqua, udii di nuovo il recondito canto della foresta viva e scura. Non so quanto tempo passò, ma a un certo punto ci fermammo in un’ansa sotto una mangrovia dove legammo la piroga e tirammo fuori esca e lenze.

«Se peschiamo potremo pranzare altrimenti… niente» mi avvertì Nass con una strana luce negli occhi.
«Stai scherzando spero?» domandai leggermente allarmata.

Dopo un tempo che mi sembrò eterno finalmente, una dopo l’altra, tre carpe e due razze abboccarono ai nostri ami.
«La pazienza è generosa, fa sempre le cose per bene e comunque avresti pranzato con queste ostriche» mi rassicurò Nass iniziando a tagliare diverse radici di mangrovia su cui erano attaccati centinaia di piccoli molluschi.
Con un secchio pieno delle nostre meraviglie arrivammo a casa di Albert, un pescatore, e della sua famiglia. Subito mi misero a sbucciare e a tagliare le verdure insieme alle altre
ragazze e dopo tre ore di lenta preparazione, portammo a tavola piatti colmi di riso e pesce in salsa, acclamati dagli applausi di tutti. In quella confusione Nass mi chiamò vicino al fuoco mentre grigliava le ostriche selvatiche per porgermene una ancora piena di acqua salata. Un gusto inebriante, salmastro e leggermente affumicato, mi esplose in bocca. «È il sapore dell’amore» dichiarò con un sorriso disarmante mentre mi passava altre ostriche. «Qui almeno pensiamo così…».

La giornata passò a un ritmo lento e pigro che mi ricollegò alla nostra stessa natura e mi fece sentire viva fin nelle ossa, come all’alba dei tempi quando cacciavamo per mangiare. Solo quando il sole fu tramontato prendemmo un sentiero di conchiglie per tornare al campo. Ormai era buio e passando sul piccolo pontile non potemmo non rimanere incantati dal cielo profondo incastonato di diamanti lucenti.

«Sai, tu sei come le donne Diola, le donne della nostra tribù» sussurrò Nass con gli occhi in fiamme. «Fianchi, glutei e cosce. E hai anche la “i” e la “o”. La “i” è il naso dritto e la “o” sono le guance rotonde».

Sentii un brivido e un fremito nel ventre.
«Domani torniamo in paese e voglio portati in un posto speciale. Ora va a dormire piccola Diola» mi salutò allontanandosi nel buio per andare a coricarsi nella sua capanna, così poco distante dalla mia che ne potevo sentire il respiro nella afosa notte africana. L’indomani, rientrammo. Appena arrivati, la piazza gremita di banchi colorati ci accolse con la polvere e la confusione di sempre. Qui Nass sembrava avere amici e parenti ovunque.

«Compriamo un vestito per te. Oggi è il compleanno di Akin. Io e lui ci conosciamo da sempre e noi stasera andiamo alla sua festa».

Non mi rimase che seguirlo, stupita dall’invito e ipnotizzata dal vortice di grida e saluti. Insieme scegliemmo, su consiglio di una ragazza dai fianchi generosi e dall’aria smaliziata, una camicetta e una gonna wax, il tipico tessuto africano. In albergo quando le indossai, nello specchio mi apparve una donna nuova, colorata, florida e serena che a stento riconobbi.

Per finire, prima di farmi arrivare alla festa nella mia nuova versione africana, Nass volle passare a casa sua per presentarmi la madre e le sorelle che mi baciarono e pretesero che guardassi con loro un episodio di una serie di Nollywood, l’industria cinematografica nigeriana. La stessa affettuosa accoglienza mi venne riservata da Akin e sua moglie Mali, dove tutta la banda di amici mi abbracciò con slancio straordinario.
In pochi giorni, il freddo di una vita si stava dissolvendo al calore di esseri umani che vivevano a migliaia di chilometri da dove ero nata e per i quali io stessa provavo un attaccamento naturale e sincero.
Dopo cena iniziò la musica dal vivo e tutti si alzarono per ballare pestando i piedi all’irresistibile ritmo dei tamburi. Mali volle insegnarmi i passi di quella danza frenetica e sensuale che mi possedette letteralmente quando mi accorsi dello sguardo degli uomini e delle loro brillanti pupille da lupo puntate su di me nella notte scura.

«Li senti i loro occhi su di te? Sono loro che ti fanno ballare, sono loro che danno il ritmo al tuo corpo, non è male, è solo la danza» mi spiegò Mali accaldata e rossa in volto quanto me.

Fortunatamente la musica finì e ne approfittai per sedermi al tavolo dove trovai Nass e il suo amico Olu, lo sciamano.

«Conosci gli idoli della mia terra Milena?» mi domandò l’uomo magico.
«No Olu» risposi, mentre riprendeva la musica che attirava le donne come falene alla danza intorno al fuoco.

«Gli idoli della notte vengono invocati fuori dalle radici dei baobab da questi tamburi. Quelli più importanti sono lo spirito femminile, quello maschile e quello dei desideri che esaudisce le richieste, basta chiedere».
Annuii mentre il ritmo ipnotico mi rimbombava sempre più nelle orecchie tanto che a malapena riuscii a sentire Nass sussurrarmi: «Io so cosa voglio e tu?».
La sua mano si posò sulla la mia, quella pelle calda e scura accese i miei pensieri e asciugando una goccia di sudore che mi scendeva tra i seni, senza riflettere, risposi: «La stessa cosa che vuoi tu».
Nass allora si alzò lentamente, le sue dita sempre intrecciate alle mie. In silenzio ci incamminammo lungo i bordi del fiume fino ai margini di una splendida cascata mentre i tamburi in lontananza battevano al ritmo del mio cuore impazzito.

I suoi occhi neri e brillanti non si staccarono dai miei mentre con un gesto lento e consapevole mi si avvicinava. Con delicatezza mi cinse la vita e mi fece sedere insieme a lui sull’erba fresca.

Le sue mani di velluto nero mi aprirono la camicetta e mi esplorarono con calma prima di disfare il nodo della gonna che scivolò lontana. I suoi occhi, sempre dentro ai miei, non erano altro che un invito a lasciarmi andare in quella spirale calda.

Allora tutto si sciolse intorno a noi, tanto da farci perdere nel gorgoglio dell’acqua bianca e spumosa, nel fluire rapido del fiume, dentro quell’universo liquido che ci trascinava inesorabile verso le profondità del nostro reciproco desiderio. Il suo corpo vibrò con il mio e insieme al canto della foresta e al soffio del vento umido ci muovemmo in sincronia fintanto che l’alba ci trovò abbracciati ed esausti.

Prima di tornare al villaggio ci lavammo nell’acqua fresca che cadeva dall’alto. Alle carezze di Nass, sentivo il mio corpo tendersi e chiamarlo a sé esaltato da una femminilità antica quanto il mondo. Non mi riconoscevo, mi sentivo viva, leggera e al tempo stesso radicata nel grembo della terra a cui appartenevo e che mi apparteneva, come i frutti, gli animali, le stagioni. Mi sentivo grata e felice, incredibilmente sazia come non lo ero stata mai. Solo quando il sole era ormai alto, per mano rientrammo in albergo.

Due ore dopo eravamo in aeroporto dove, in attesa del mio volo per Dakar, bevevo un tè annacquato dalle mie stesse lacrime mentre alternavo singhiozzi e sorrisi di gratitudine.

«Un giorno ci incontreremo di nuovo, piccola Diola» cercava di consolarmi Nass anche se la voce gli si strozzava in gola. «Non ho fretta e ho fiducia perché la pazienza, hai visto, fa le cose per bene. Ora hai bisogno di viaggiare, è la tua passione e, anche se mi piacerebbe molto, non posso venire con te. Quindi viaggia per il mondo e quando hai finito sappi che qui c’è un paese molto piccolo che ti sta aspettando».

Smisi di piangere, la tristezza aveva lasciato il posto a una certezza inconfutabile. Di fianco a Nass avevo trovato il mio “laggiù”. La mia ricerca finiva lì dove si era acceso un granello di luce per il mio animo scuro, dove potevo fermarmi per costruire un nuovo domani insieme a lui e dove il mio cuore finalmente aveva una casa calda a cui tornare. Stavolta per sempre. ●

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