Un raggio di sole nella nebbia

Cuore
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Riproponiamo nel blog la storia più apprezzata del n. 8

 

Fa freddo, cammino in fretta cercando di non pensare a come’è finito quello che credevo fosse un grande amore. È il caso a mettermi in sospetto e a rivelarmi qualcosa che ha cambiato tutto

STORIA VERA DI ANNA CHIARA S. RACCOLTA DA LUCIA TORTI

 

In questi giorni muoversi a piedi non è piacevole, dicono. Non per me, infatti la nebbia mi è sempre piaciuta. Mi affascina e mi invita a immaginare ciò che non si vede. Inoltre, mi nasconde e mi protegge. Ritrovo la mia città nuova, sconosciuta: emergono profili di case e di alberi che mi appaiono per la prima volta e sono lì da sempre. Mi spingo lontano, cammino sull’alzaia del naviglio dove i vapori dell’acqua si mescolano alla nebbia. Non ho paura che qualcuno salti fuori da questa densa bambagia per strapparmi la borsa. Cammino sicura e mi sento al riparo.

L’alzaia è deserta e fa freddo. Alzo il bavero del cappotto, mi sistemo la sciarpa sulla testa.
Immersa e sparita nella nebbia, spero di riuscire a cancellare anche la realtà che mi tormenta: Riccardo mi ha lasciata. Dopo tre anni di fidanzamento, un amore grande e progetti a non finire.

Già, Riccardo, ammirato da tutte le ragazze della nostra città. Perché bello, di una bellezza sorprendente. Occhi blu e bicipiti torniti, snello e sempre abbronzato, la statura da giocatore di basket come del resto è. E ancora, una parlantina e cortesia da vendere. Una laurea in legge e un padre notaio che già lo ha accolto nel suo studio.
Ci siamo conosciuti l’ultimo anno di liceo: lui proveniva da una scuola privata e si era stancato di frequentarne l’ambiente. Così diceva.
«Voglio vivere tra ragazzi normali, non tra i figli di papà. Quelli vivono sotto la campana di vetro, non gli va mai bene niente, spendono soltanto i soldi di famiglia. In questo liceo per fortuna la gente è vera, e tu mi piaci perché sei una ragazza autentica».
Che significava autentica? Gliel’avevo chiesto e mi aveva risposto con osservazioni tutte al positivo. Mi aveva soprattutto lusingato quel “tu conosci i problemi quotidiani, sai cos’è la vita” pronunciato con ammirazione e affetto.
Sì, certo che sapevo cos’è la vita e l’ho imparato presto. In famiglia siamo tre figli e lo stipendio di mio padre basta appena per tirare avanti.

Io mi sono pagata l’università: baby sitter, ripetizioni…

Su mamma e papà non potevo più far conto. Più giovani di me ci sono Dario e Camilla e anche loro hanno voluto frequentare il mio liceo. Tutti insieme ci si aiuta e adesso anch’io ho il mio lavoro d’insegnante. Sappiamo esattamente quali sono gli ostacoli da superare e il limite oltre il quale non spingersi. È questo “sapere cos’è la vita”?

Con Riccardo, quando mi parlava così, ogni tanto avrei fatto volentieri cambio di esistenza ma, naturalmente, non glielo dicevo. Paga della sua stima, gli offrivo la mia semplicità e il mio amore.

Che, a quanto pare, non sono bastati. Lui si è staccato improvvisamente, come ci si comporta con un oggetto che ha fatto il suo tempo e che non serve più. Si è sottratto alle mie telefonate per una settimana poi, messo alle strette, mi ha spiegato brevemente di avere bisogno di starmi distante per un po’, di avere un tempo tutto per sé per capire…

Capire cosa? Cosa deve ancora comprendere dopo tutti questi anni insieme?

Sono io che non capisco e subito immagino: forse c’è un’altra persona che ha preso il mio posto e lui si nasconde dietro le giustificazioni campate per aria. Non è neppure originale, è solo scontato e insopportabile. Per il dolore che mi procura, per la delusione. Sono arrivata al ponte sul Naviglio, oltre c’è la strada che va diritta all’ospedale. Mi viene in mente Antonia, la nostra vicina di casa che abita al primo piano. Sono otto giorni che è ricoverata per curare una brutta osteoporosi.

Un’occhiata all’orologio e mi accorgo che potrebbe essere tempo di visite. Decido di farle una sorpresa. Chissà, forse, senza volerlo, sono arrivata fin qui per questo.

La nebbia è sempre più fitta e avanzo procedendo a memoria. Eppure arrivo in fretta. Mi è venuta davvero voglia di rivedere la signora Antonia sempre tanto serena e prodiga di saluti e gentilezze. Lei a casa sua, noi a casa nostra, eppure ci siamo sempre intesi e sostenuti.

Mi accoglie un caldo soffocante e io, che arrivo dalla nebbia, mi sento un ghiacciolo che si scioglie. Il reparto della signora Antonia si trova al primo piano. Cerco la sua stanza e mi stampo sulla bocca un bel sorriso.

Lei è molto felice di vedermi e mi invita a sedermi accanto. Parliamo delle sua salute, delle cure, dei miei fratelli, del mio lavoro. A un certo punto la signora Antonia mi chiede di Riccardo.

Scantono, tergiverso, parlo d’altro. La mia vicina ascolta attentamente e, alla fine, con tranquillità, ripete la richiesta su Riccardo. Allora le rispondo in fretta che non lo vedo da un po’, che abbiamo deciso di prenderci la cosiddetta pausa di riflessione prima di decidere se continuare o meno a stare insieme. Mi sento nervosa e a disagio.

Antonia non dice niente, mi guarda dritto negli occhi e poi osserva: «Ogni tanto vedo che passa nel corridoio, ogni tre giorni, mi sembra. Forse ha qualche parente o amico ricoverato qui, ma compare in orari strani, non sono quelli di visita».

Trasecolo e le chiedo: «Chi, Riccardo? Parla di lui? Lo vede passare? Ma è sicura?».
«Ne sono certa. Non c’è dubbio, so benissimo chi è. Vi ho incontrati tante volte sulle scale».

Adesso sono più che mai disorientata, ascolto distratta gli altri argomenti e, infine, saluto e me ne vado. Esco dall’ospedale e di nuovo vengo inghiottita dalla nebbia. Mi dirigo verso il rione dove abito, dall’altra parte della città. È ora di tornare. Cammino in fretta tra le vetrine luccicanti del centro: tutto è abbondante, eccessivo, di una ricchezza che mi stordisce.

La mia testa è altrove: che ci va a fare in ospedale Riccardo? Così spesso poi… Sono certa che la signora Antonia si è confusa.

Dopo alcuni giorni, mi reco ancora in clinica. Oggi la nebbia non c’è e i rami spogli dei platani si lasciano accarezzare da un pallido sole.
Desidero rivedere la mia vicina, ma soprattutto tornare in ospedale per un motivo che non posso nascondere a me stessa.

Sono curiosa, non lo nego. Anche se Riccardo mi ha deluso, anche se il dolore mi attanaglia l’anima e mi disorienta come non è mai successo in vita mia. Am- metto tristemente di essermi illusa nel credere che lui fosse davvero il grande amore della vita!

Sul piano degli affetti non mi accontento, non sono mai andata in cerca di avventure: Riccardo per me è stato molto importante.
Riccardo… e se fosse ammalato?

Figuriamoci, me l’avrebbe detto! A me raccontava tutto. Tutto, o quasi. Meno il vero motivo per cui si è allontanato. Quello non lo conosco, ma non sono stupida e non mi accontento: indagherò e poi mi sentirà. Gli butterò in faccia tutta l’ipocrisia che mi ha mostrato, voglio farlo.

Penso e ripenso alla sua telefonata dopo tanto silenzio: «Ciao Chiara, come stai? Sono a Roma per lavoro con mio padre. Senti, Chiara, pensavo che… insomma, ho ragionato a lungo su noi due in questi giorni e credo sia meglio non vederci per qualche tempo. Abbiamo bisogno di comprendere, dopo tanti anni insieme… abbiamo bisogno di capire quanto siamo importanti l’uno per l’altra».

«Pensavo che ne fossimo certi» ho protestato io, ma poi mi sono affrettata a concludere: «Comunque, va bene. Come vuoi tu, ti saluto».

Non ho atteso altre fatue spiegazioni. Mi si è chiuso il cuore  tal punto da non riuscire neppure a piangere. Ho pensato soltanto che anche Riccardo, come tanti, vive di molte parole, parole belle, parole vuote. La signora Antonia mi accoglie incuriosita di vedermi così spesso. Incominciamo a conversare, ci scambiamo informazioni, ridiamo insieme.
A un tratto, Antonia si fa seria e mormora: «Sai, Riccardo non sta bene. Ieri l’ho incontrato in corridoio e mi ha spiegato che viene in ospedale per le cure. Ha problemi ai reni, una grave insufficienza renale». Casco dalle nuvole e balbetto: «I reni? Si sarà sbagliata, avrà capito male. Riccardo ha una salute di ferro». La signora scuote la testa; prende le mie mani nelle sue, le stringe forte e dice: «Purtroppo ti assicuro che è così».

Quando esco dalla clinica, mi precipito alla fermata dell’autobus, lo prendo al volo e, in cinque minuti, sono a casa. A questo punto so cosa fare e non permetto a nulla di fermarmi: né l’orgoglio, né la timidezza, né la paura.

La voce di Riccardo è sommessa quando risponde all’altro capo del telefono. Non la riconosco più, mi sembrano trascorsi secoli da quando non lo sento. «Riccardo, devo chiedertelo. Raccontami di te, come stai? La tua salute, voglio sapere».

«Chi te l’ha detto?» mormora.
«Non importa chi. Ho bisogno di sapere solo una cosa da te. Subito. Solo una: è per la salute che mi hai lasciato?» chiedo determinata.
«Sì. Non volevo farti soffrire. Non volevo che tu in futuro stessi con me perché costretta dalle circostanze. Ho una strada tutta in salita davanti: dialisi e, spero, un trapianto, ma chissà quando».
«Ma che ne sai tu, Riccardo, di come avrei reagito?» grido, e mi metto a piangere come una bambina. «Non volevi farmi soffrire e così ho sofferto di più. Tra due persone che si amano, devono essere allontanati i timori di non essere compresi e la presunzione di conoscere già i sentimenti e le risposte dell’altro. L’umiltà ci rende autentici, Riccardo. Capisco la tua sofferenza e la tua confusione, ma mi dispiace molto che tu non ti sia fidato di me e non abbia condiviso le tue ansie e le tue paure. L’amore è anche questo, lo capisci?».
«Hai ragione, Chiara, ho dimostrato di essere infantile e orgoglioso. Perdonami, di certo non mi ha aiutato la brutta sorpresa della malattia. Corro da te, ho bisogno di te, me lo permetti? Sento l’esigenza di spiegarmi bene, di ritrovare la pace».
Non mi dà nemmeno il tempo di replicare e posa il telefono.
Il cuore mi balza nel petto: l’ho già perdonato per la sua bugia e m’importa soltanto di stargli vicino, di costruire insieme il nostro futuro nonostante le difficoltà. Con l’autenticità che mi è cara, con l’amore per la vita che si realizza non solo nella dedizione verso chi amiamo, ma anche nella capacità di scoprire i doni che ogni giorno ci offre. Anche un raggio di sole che fende la nebbia. ●

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