Una valigia piena di…

Cuore
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... FOTO in bianco e nero che raccontano gli anni vissuti da mio PADRE in Australia. "Una valigia piena di...!" di Simona Cecot, pubblicata sul n. 48 di Confidenze è la storia più apprezzata della settimana sulla nostra pagina Facebook. Ve la riproponiamo sul blog

 

 Storia vera di Silvano Cecot  raccolta da Manuela Cecot

La nave si chiamava “Paolo Toscanelli” ed era attraccata nel porto di Venezia, pronta a salpare verso l’Australia. Era lunga almeno centocinquanta metri e aveva tre classi. A mio padre sarebbe spettata l’ultima, la più umile e affollata, quella dei migranti. Un viaggio lungo quaranta giorni, a stretto contatto con altre centinaia di persone che come lui stavano lasciando la propria terra alla ricerca di un lavoro. Era il 4 giugno del 1955 e mio padre, Silvano, aveva 27 anni. Teneva una sigaretta fra le labbra e una valigia di cartone fra le mani con dentro pochi vestiti, molte speranze e tanta paura. Sì, tanta paura, nonostante lui fosse stato in tempo di guerra il giovane partigiano “Max” e avesse dovuto affrontare tante situazioni pericolose. Ma questa volta davanti a lui c’era uno strano nemico, un luogo lontano e sconosciuto di cui aveva solo sentito parlare e di cui aveva visto qualche foto in bianco e nero. Una terra in cui si parlava una lingua che non era la sua e dove avrebbe potuto farsi conoscere solo attraverso il duro lavoro che lo aspettava, quello del tagliatore di canna da zucchero.

Prima, però, c’era il viaggio sulla “Paolo Toscanelli” che ora era lì, davanti a lui, maestosa e colma di gente che condivideva le sue stesse speranze e paure. I gabbiani sorvolavano attenti e chiassosi tutto il porto. L’estate era alle porte, presto per molte persone sarebbero arrivate le settimane più spensierate dell’anno. Mio padre chiuse gli occhi e inspirò profondamente pensando ai colori della natura estiva del suo Friuli, poi guardò per un’ultima volta il molo di Venezia e provò a sorridere. Pensò a quando avrebbe rivisto quel porto, poi capì che era inutile fare previsioni e che era ora di imbarcarsi. Una volta a bordo, si sistemò nel ventre della nave e cominciò a scambiare qualche parola con i suoi compagni di viaggio. Alcuni li conosceva già perché erano friulani come lui. Gli altri, invece, parlavano dialetti diversi. L’italiano era un lusso che in terza classe pochi potevano concedersi.

La nave salutò Venezia con un cupo suono di sirena e lentamente sparì all’orizzonte. I gabbiani provarono a seguirla per qualche centinaia di metri, poi preferirono tornare verso il porto. Il viaggio fu lungo ed estenuante. I locali della terza classe si trovavano nel livello più disagevole della nave. Una volta al giorno, a mio padre e agli altri della terza classe veniva concesso di salire sul ponte più basso dove, in mezzo a tanta acqua e tanto cielo come mai lui aveva visto, il senso di smarrimento aumentava ancora di più.

 

Ogni tanto la nave faceva scalo in terre sconosciute come l’India, piena di colori e odori inebrianti. Mio padre camminava in quelle strade con gli occhi sgranati, desideroso di vedere, assaggiare e provare nuove emozioni. Un giorno, sbarcati a Ceylon, provò a fumare dal narghilè, una particolare pipa ad acqua tipica di quelle zone. Dunque, la curiosità e l’entusiasmo che lo caratterizzavano non lo avevano abbandonato. Così come il bisogno di confrontarsi con altre culture, qualsiasi esse fossero, senza alcun pregiudizio. Un bisogno innato di vivere in un mondo senza prime, seconde o terze classi. Nuove esperienze che facevano pian piano crescere in lui l’energia necessaria per affrontare tutte le incognite che presto lo avrebbero aspettato in Australia.

Ma il 12 luglio, sbarcato finalmente a Sidney, le sue aspettative si scontrarono con la dura realtà. Lui e gli altri migranti italiani furono visitati dalla testa ai piedi, controllati persino nella dentatura, come degli animali da soma, poi caricati su grossi camion e portati a Greta, una cittadina a circa duecento chilometri di distanza. Lì, salirono su un treno che viaggiò tutta la notte per portarli in un’altra città, South Grafton. Infine, furono caricati su una corriera e raggiunsero le baracche di un accampamento alla periferia di una cittadina chiamata Maclean. Erano le 7 del mattino del 13 luglio 1955. Aveva piovuto tutta la notte e anche nei giorni precedenti. Le baracche erano immerse nel fango. Si vedevano insetti di ogni tipo e presto mio padre e i suoi compagni avrebbero incontrato i serpenti australiani, sgraditi ospiti di quella baraccopoli. La tristezza e l’enorme stanchezza accumulate in quelle settimane presero il sopravvento e le lacrime gli scesero, quasi con vergogna, sul viso.

Il mattino successivo gli fu spiegato quello che, per almeno due anni, sarebbe stato il suo lavoro, come prevedeva il contratto firmato in Italia. Gli fu consegnato il machete, un grosso coltello con la lama appuntita e molto affilata, che serviva per tagliare la canna da zucchero. Sarebbe stato pagato in base alla quantità di lavoro fatto. Una parte del guadagno, invece, andava al governo australiano per le tasse. Gli consegnarono anche una targhetta da tenere sempre in vista sul vestiario, un foglio con le regole per mantenersi in buona salute e una lista di frasi comuni con la relativa traduzione in inglese, per aiutarlo nei rapporti con i suoi superiori e con gli abitanti del posto. Uno di questi fogli si concludeva così: “Le auguriamo molto successo nella sua nuova patria”.

 

Non era tipo da spaventarsi per il lavoro, mio padre, visto che fin da bambino era stato abituato a sudare nei campi. Ma qui era davvero stremante: il sole non perdonava e la sera, finito il turno, doveva tornare nella sua baracca, lavarsi i vestiti e prepararsi la cena senza che nessuno potesse donargli una parola di conforto. Poi sfilava di tasca la lettera che sua madre gli aveva consegnato prima di partire dall’Italia e iniziava a leggerla: “A te, Silvano caro, questo mio ricordo. Portalo sempre con te, affinché ti sia di guida nella vita e di conforto nel dolore. La mamma”.

Ben presto, però, il suo carattere solare lo aiutò ad alleviare quei momenti di tristezza e malinconia. Cominciò a farsi molti amici, sia tra i compagni di lavoro, sia tra gli australiani, gli stessi che inizialmente chiamavano “zingari” lui e gli altri migranti. Imparò anche un po’ d’inglese.

Dopo due anni dal suo arrivo, mio padre riuscì anche a cambiare lavoro, ottenendo un contratto come operaio delle ferrovie, contribuendo a costruire, metro dopo metro, la rete ferroviaria australiana. Cominciò così a mandare ai suoi genitori i risparmi che sarebbero serviti a comprare una casa in Italia. Ma non mise mai da parte i suoi ideali in favore dei più deboli e degli emarginati, arrivando anche ad aiutare alcuni aborigeni a riscattarsi dalla misera condizione in cui vivevano.

La vita ora cominciava a sorridergli, si concedeva delle domeniche di svago, vestito di tutto punto, e riuscì persino a comprarsi una bella macchina. Si era integrato con la gente del posto ed ebbe anche molte avventure amorose. Mio padre era un bell’uomo e a dirlo non sono soltanto io. Aveva i capelli neri e gli occhi scuri, un sorriso e uno sguardo sinceri. Ricordava un attore di Hollywood di quegli anni, Rock Hudson. Con l’aggiunta del tipico fascino latino. Non era così strano, dunque, che molte donne rimanessero affascinate incontrandolo.

Passarono altri due anni e mio padre, pur continuando a lavorare per le ferrovie australiane, decise di investire buona parte dei suoi guadagni in una piantagione di banane, acquistando un terreno. Se il progetto fosse andato a buon fine, si sarebbe stabilito definitivamente in Australia. Lì avrebbe costruito la sua nuova casa, si sarebbe sposato, avrebbe avuto dei figli. Non sarebbe più tornato in Italia, se non di tanto in tanto e solo per rivedere i suoi cari. Tuttavia, una violenta alluvione distrusse l’intero raccolto, facendo svanire in pochi giorni i suoi progetti. Ora, di nuovo, il futuro era tutto da costruire. Ma dove? Ancora in Australia oppure in Italia? Mio padre ci pensò per parecchio tempo, in fondo non era una decisione semplice. Lui era partito per l’Australia con la speranza di cambiare il proprio destino, ma ora il destino gli aveva scompaginato ogni speranza. Si sentiva sconfitto. Forse quel Paese non lo meritava. O forse era giunta l’ora di far ritorno in Italia. E così fece.

 

Altri quaranta giorni di viaggio in terza classe e infine sbarcò in Italia, a Genova. Da lì raggiunse in treno il paese natale, in Friuli. Ma prima di riabbracciare i suoi genitori, preferì entrare nell’osteria del paese per concedersi una briscola e un bicchiere di vino con gli amici di sempre. Poi, finalmente, andò dai genitori nella casa che erano riusciti a comprare grazie ai suoi guadagni e lì si ritrovarono. Erano passati più di quattro anni dal loro ultimo abbraccio. Infine, mio padre iniziò a disfare i bagagli, a parte la valigia di cartone che lo aveva accompagnato nel viaggio di andata in Australia. Quella fu riposta ben chiusa in soffitta. Se un giorno avesse avuto dei figli, allora l’avrebbe riaperta.

Qualche anno dopo, mio padre stava camminando in compagnia di una cugina per le strade di un paese vicino al suo, quando incrociò lo sguardo di una ragazza a lui sconosciuta. Chiese alla cugina se la conoscesse e lei gli rispose di sì: si trattava di una sua amica, una giovane che abitava in un paese a pochi chilometri di distanza. Era anche lei friulana, anche se aveva un nome esotico: Amneris. Nel giro di pochi istanti, gli sguardi di mio padre e di Amneris si incrociarono parecchie volte. Poi i due si sorrisero e cominciarono a parlare. Fu amore a prima vista. Lei era rimasta colpita dal suo sguardo intenso, mentre lui ammise che la prima cosa che le aveva guardato erano state le gambe. Si sposarono un anno dopo ed ebbero due figli, una sono io e l’altro è mio fratello Ivan.

L’amore tra i miei genitori non cessò mai, rimase quello di sempre fino al 1993, quando mio padre morì a 64 anni. I dolori allo stomaco che lo avevano accompagnato negli ultimi vent’anni si erano trasformati in qualcosa che, purtroppo, non sarebbe guarito con un semplice medicinale. Dal momento in cui capimmo che non c’erano più speranze di poterlo salvare al giorno della sua morte passarono soltanto due mesi. Un tempo troppo breve per realizzare che io e mio fratello, a quell’epoca poco più che ventenni, saremmo rimasti senza una guida e che avremmo dovuto aiutare nostra madre a non sentirsi sola con il suo dolore.

 

Io stavo vivendo appieno la mia giovinezza, i miei amori, il mio nuovo lavoro e la passione per i viaggi che mio padre mi aveva trasmesso. Negli ultimi anni, purtroppo, non ero riuscita a trovare il tempo per parlare con lui, arrivando anzi a scontrarmi per delle pure banalità. Ma se potessi tornare indietro, non mi perderei neppure un minuto delle sue giornate, lo terrei fermo in quello struggente abbraccio che mi aveva donato l’ultima volta che era partito da casa per l’ospedale e cercherei di “imbottigliare” e conservare il suo profumo di uomo “pulito”.

 

Come dicevo, l’amore tra i miei genitori non cessò neppure dopo la morte di mio padre. Mia madre, infatti, nonostante avesse solo 56 anni, decise che sarebbe rimasta per sempre la vedova del suo Silvano e la custode del loro amore e dei due figli.

Il 4 febbraio 1993, giorno del suo funerale, faceva molto freddo, nonostante il sole splendesse e illuminasse la piazza gremita di gente. C’erano centinaia di persone di ogni età. Nel suo discorso, il sindaco del paese disse che mio padre forse non era stato un eroe, ma sicuramente un grande protagonista della nostra storia. Gli amici di mio padre portarono la sua bara in spalla per più di un chilometro fino al cimitero, dove tuttora giace e sulla cui tomba, da più di vent’anni, non manca mai un fiore.

Ancora oggi risento il nomignolo con cui amava chiamarmi, Deda. E vorrei tornare a riascoltare le storie che avevano per protagonista un cavallino bianco: le raccontava a me e a mio fratello la domenica mattina, quando io e Ivan ci infilavamo nel lettone. Mio padre inventava le avventure, ambientate sempre in luoghi diversi e fantastici, di un eroico cavallino bianco che, con bontà, coraggio e altruismo, risolveva le situazioni più drammatiche.

Mi piace anche ricordare il giorno in cui mio padre salì in soffitta e decise di riaprire la valigia di cartone riportata dall’Australia. Io e mio fratello eravamo ancora bambini. Lì dentro c’erano delle bellissime foto in bianco e nero: una lo ritraeva in groppa a un cavallo nero, un’altra mentre teneva sulle spalle un grosso serpente, una terza mentre era alla guida della sua nuova auto fiammante, in compagnia di belle ragazze. La mia preferita era quella in cui lavava i panni in una tinozza con in testa un cappello da cowboy. Mio padre ce le mostrò con orgoglio e anche con un pizzico di amarezza.

Ma in quella valigia c’era qualcosa di molto più prezioso che presi al volo e che da quel momento ho conservato gelosamente. Erano gli insegnamenti che mio padre mi aveva trasmesso: parlavano di rispetto nei confronti degli altri, di uguaglianza, di onestà e di giustizia. Valori che, a mia volta, ho il dovere di trasmettere a mia figlia Margherita che lui non ha avuto il tempo di conoscere.

Ora ho 51 anni e sono madre e moglie felice. Mio padre resta sempre il mio eroe, un cavaliere d’altri tempi. Mi piace pensare che, in quel triste giorno del 1993, il nostro cavallino bianco sia venuto a prenderlo per portarlo nelle storie di altri bambini desiderosi di sognare. i

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