Youssef, sono solo una madre!

Cuore
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È la storia preferita del n. 21, il racconto struggente dell'ennesimo viaggio di speranza dalla Tunisia all'Italia

Figlio mio, sei piccolo, ma un giorno imparerai che l’amore a volte ti mette di fronte a scelte terribili. Capirai perché le tue sorelle hanno paura del mare e sarai gli occhi ci faranno credere nel domani 

Storia vera di Safaa S. raccolta da Marco Angilletti

 

 

Se certi fondali potessero parlare racconterebbero meglio di chiunque altro quelli che qualcuno chiama i viaggi della speranza. Io preferisco definirli i viaggi dell’attaccamento alla vita.

Ogni madre è una quercia marina avvinghiata alla roccia di un domani migliore. Le unghie non bastano per restare aggrappati, è soltanto l’amore che sprigiona tutto il coraggio e ti spinge a rischiare ogni cosa.

Due figlie: una di due anni, l’altra di tre. Quale cuore li metterebbe su un barcone, consapevole del pericolo di non riuscire a baciare la terra? Solo quello di una mamma disperata.

«Salaam alaykum».

Saluto la riva nella mia lingua madre, mentre il più duro degli addii costruisce il suo nido. La mia ultima benedizione è per i miei parenti e per tutti coloro che rimarranno in Tunisia.

«La pace sia con voi».

Se fosse il mare a parlare per noi, a nome di tutte quelle anime senza età che lo attraversano in cerca di protezione, avrebbe i singhiozzi terrorizzati di un bambino.

Rosso, bianco e blu: i colori di questa imbarcazione sono i tatuaggi che non avrei mai voluto fare. Silenzi sovrumani accarezzano le guance dei neonati stretti nel giaccone dei genitori. Ti illudi che i primi raggi di sole siano la mano di protezione di Allah. C’è odore forte di salsedine. A ogni schizzo senti bruciare le ferite. E ancora il freddo. La percezione di essere sporchi e affamati. La mancanza di intimità anche solo nello scambio di una frase con tuo marito. Un gabbiano sorvola il mare e ti ruba le parole appena le pronunci. Ti assomiglia, ha lo stesso bisogno di sfamare le sue creature.

Il buio della notte, l’ansia, la desolazione. L’uomo che avrebbe dovuto guidare la rotta si è addormentato poche ore dopo la partenza, tra i fumi dell’alcol e dell’hashish. Restiamo senza guida. Si litiga, si arriva quasi alle mani e noi tremiamo tutti. Qualcuno prende il comando, usa un cellulare come mappa in quella distesa d’acqua senza origine né fine. Una donna si sente male e si aggrappa alla prua; le sue pupille hanno la forma del dubbio, sputano fuori tutta l’incoscienza di non avere calcolato i rischi.

I vecchi con la barba lunga piangono così tante lacrime da coprire le rughe. Se molti di noi non si fossero trattenuti, saremmo affondati per il peso dei nostri stessi pianti.

 

Settanta persone e ventidue ore in mare. A rendere instabile il viaggio è la zavorra dei nostri timori, quel ciclone di emozioni che ti fa sentire un drago poco prima di partire, invincibile e coraggioso, e poi ti dissolve in molliche per i pesci appena il barcone accenna il primo ribaltamento al largo della Libia.

Senti solo il rumore del motore, un continuo sbattere sull’acqua, un sussulto che picchia sulla bassa schiena e ti impone di stare sempre all’erta.

Le guance schiaffeggiate dal vento e lo sguardo perso tra le increspature delle onde. Sembrano delfini, poi balene, e ancora squali, a seconda del tuo stato d’animo.

Ormai però sei quassù, disposta a tutto, perché la tua famiglia è il dono più sacro che hai ricevuto dalla vita. Ti sei spogliata di ogni cosa senza portare nulla a bordo, sventoli soltanto una bandiera invisibile che rivendica salvezza.

Appare così lontana la cartolina romantica del pescatore su uno scoglio con la canna rivolta verso il tramonto. Intorno a te non vedi nessun pallone di gomma finito troppo al largo per tornare indietro. Ti sforzi di pensare alle immagini belle del mare, alle bottiglie con dentro un messaggio, quelle che vengono a galla per donare stupore.

Per un attimo sorridi, infine ti rendi conto che non hai nulla per cui sorridere e che a galla potrebbero trovare te, tuo marito, peggio ancora le tue figlie. Occhi sbarrati verso il cielo e nessun miracolo a soffiarti in bocca un respiro.

Su questa barca siamo un ammasso di merce. C’è chi tratta per venderci al migliore offerente, chi dice che siamo troppo ingombranti per farci attraccare ai loro porti.

 

Per una come me, cresciuta sul mare senza mai avere imparato a nuotare, è stato come lanciarsi ad alta quota senza paracadute. Come ho fatto ad arrivare fino a questo punto? Proprio io, Safaa. Io che porto il nome della purezza e della serenità, il nome di una delle due colline sacre vicino alla Mecca.

È ormai lontanissima Monastir, la nostra città sulla punta di una penisola rocciosa affacciata sul Golfo di Hammamet. In arabo significa monastero.

Un posto incantevole dove le palme tropicali fanno da sipario alle roccaforti. I turisti affollano ogni strada come formiche a caccia di bellezza. Le strutture alberghiere di lusso, i luoghi di culto, le spiagge attrezzate. Nel chiassoso vociare del souk, il mercato della città, è tutto un alternarsi di spezie profumate, tessuti e prodotti di artigianato. I bambini giocano a nascondino per i viottoli del centro, mentre nelle case i pentoloni si riempiono di couscous o di marqet khodra, l’agnello cotto al fuoco.

Un paradiso di modernità e tradizione, direbbe la bocca dello straniero. Poi a viverci è ben diverso. Mio marito Msadak si divideva tra la ristorazione e un’attività commerciale, io lavoravo in una sartoria finché non sono nate le bambine e mi sono dedicata a loro.

A Monastir, però, la libertà è tutt’altra cosa. I vostri palazzi sono pieni di democrazia, almeno sulla carta. Lì il governo purtroppo ti ricatta, ti costringe a scendere a compromessi, ti lascia solo in mezzo ai guai e li complica anziché provare a risolverli.

La situazione era divenuta insostenibile. Non c’era possibilità di creare un futuro sano e trasparente lungo quelle coste. E così la decisione di lasciare il paese, grazie a un amico che ci ha messo in contatto con gli organizzatori del viaggio.

Non abbiamo detto a nessuno della nostra partenza, abbiamo tenuto all’oscuro perfino le rispettive famiglie. Non saremmo riusciti a partire se li avessimo avvisati prima.

Ho lasciato una lettera a una persona fidata per consegnarla a mia madre, il peggiore dei testamenti. Povera donna, mi rimbombano in testa le sue urla di strazio. Le ho sottratto perfino l’amore di essere nonna.

 

Il mare è agitatissimo, ci ribalteremo da un momento all’altro. Io e Msadak preghiamo che possano scoprirci le autorità per riportarci indietro. Il gasolio è finito, gli animi si scaldano ancora una volta. Su certi barconi, non pensi mai che stai per arrivare, pensi soltanto che stai per morire.

Siamo sfiniti. La guardia costiera italiana intercetta la nostra imbarcazione e ci scorta fino allo sbarco a Lampedusa. Sconosciuti ci tendono una mano, ci raggruppano sul molo e ci mettono in fila per i tamponi. Quella che dice di essere una psicologa prende per mano le mie figlie e le porta in una sala. Inizio a urlare con tutta la forza che ho in corpo, terrorizzata all’idea che possano togliercele per sempre. Msadak mi scuote all’improvviso.

«Safaa, Safaa. Svegliati, è solo un brutto sogno!».

Apro gli occhi e riconosco le pareti della nostra nuova casa. Quel maledetto viaggio continua a tormentarmi anche ora che è tutto finito.

Faccio un respiro profondo, porto il cuscino dietro le spalle e me ne sto seduta a fissare il vuoto. Msadak mi stringe la mano e mi rassicura. Lui ha un cuore grande, un temperamento sempre allegro e confortante. È stato il nostro faro in tutto questo calvario.

«Siamo al sicuro, stai serena. È tutto passato».

 

Non tutto è passato. Nella stanza dei ricordi il mare è agitato e a me sembra ancora di affogare. Certi pensieri non andranno mai via. I quattordici giorni a Lampedusa, il trasferimento verso il centro di accoglienza di Crotone, i due mesi e venti giorni nel grande campo dove mille storie hanno sfiorato la nostra.

Da un lato, la gioia di non essere morti in mare, dall’altra il caos interiore che a volte non fa capire dove sei e in quale direzione tu stia andando.

Ora quanto meno siamo in una casa vera. Da Crotone siamo stati trasferiti a Girifalco, un piccolo borgo calabrese dove la comunità ha impresso il valore della diversità sulle linee delle mani e nelle vene. Qualunque sia la tua storia, qui sei il benvenuto.

Li chiamano appartamenti diffusi, permettono ai richiedenti asilo di vivere in vere e proprie case autonome. La Fondazione Città Solidale ce ne ha garantita una. Abbiamo ritrovato la nostra intimità e lo scorso novembre è nato Youssef, il nostro terzo figlio, piccolo grande miracolo di amore e di generosità.

È stata una grande festa per tutta la comunità. Quando ho partorito, ho avuto accanto una donna speciale. È la mamma di Maria Rosa, l’assistente sociale. Vive in questo paese anche lei e si è presa cura di me come avrebbe fatto mia madre. Gliene sarò sempre grata. Come sarò sempre grata a Kaltoum, la mediatrice che riempie i nostri giorni di positività, e a tutti coloro che si dedicano a noi per farci sentire una famiglia felice. Grazie all’Italia, io e Msadak siamo riusciti a donare una sorte diversa ai nostri figli.

 

Youssef si è svegliato, forse le mie urla lo hanno impaurito. Mi avvicino alla culla, mi afferra per un dito, lo stringe con tutta la forza che un bimbo di pochi mesi può avere.

Lo prendo in braccio e, cullandolo, mi sposto nella stanza delle bambine. Tutto il mio mondo è qui, in questa casa che non è la nostra. Una lacrima di commozione prova a essere più luccicante dell’alba fuori.

Sei ancora piccolo, Youssef. Imparerai che l’amore a volte ti mette di fronte a scelte terribili. Un giorno racconterò anche a te ciò che abbiamo vissuto. Dovrò spiegarti perché tua madre e tuo padre hanno preso una decisione così spietata. Capirai come mai le tue sorelle hanno ancora paura del mare. Darai un nome ai miei incubi e un perché a tutta questa gente che si è presa cura di noi.

Per fortuna tu sei arrivato dopo, almeno tu sei stato risparmiato dal portarti dentro i tormenti indelebili di un viaggio tanto audace quanto disperato. Sarai la nostra vela, gli occhi innocenti con cui credere ancora nel domani, quelli che non temeranno né il mare né il buio.

E se mai dovessi chiedermi come ho potuto mettere a rischio la vita della nostra famiglia, ti abbraccerò forte con tutto l’amore che ho nel petto e non aggiungerò altro.

«Youssef, la verità è che sono solo una madre!».

 

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