Abel di Alessandro Baricco

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Un west che non è quello americano e che riconosciamo anche senza averlo mai visto, una famiglia che è e non è; una storia d'amore

Tiziana Pasetti

Trama – Due pistole, due obiettivi diversi e due colpi che devono partire nello stesso istante. Si chiama Mistico, fare così e farlo bene. Abel, sceriffo, ci riesce a ventisette anni per mettere fine a una rapina. Si diventa leggenda, poi. Siamo in un Ovest che non è, quello americano che tutti possiamo riconoscere anche senza esserci stati. Siamo in una famiglia che è e non è, un luogo di corpi e anime in movimento. Siamo in una storia d’amore, quella tra Abel e una donna cresciuta tra i Dakota, Hallelujah. Lo ama, lo ama anche se è corpo e anima in movimento. Anche la madre di Abel partiva spesso. Poi un giorno non è più tornata. E quando una madre va via c’è qualcosa che devi fare una seconda volta e con lo stesso dolore: nascere di nuovo.

Un assaggio – Quando nacque l’ultimo figlio, era femmina. Così la chiamarono Lilith. Abel ero io. Poi Joshua il matto, David il Pastore, Samuel che scava la terra, Isaac fino a quando non morì. In fine Lilith. Poche ore dopo la sua nascita, mio padre John John la prese tra le mani, la sollevò al cielo e promise al destino che ne avrebbe fatto la donna più famosa da lì al Pacifico. La singolare circostanza spiega la frase che la mia sorellina ama ripetere spesso: sono stata nelle braccia di un solo uomo, in tutta la vita, e perfino quell’unica volta ho dovuto sentire un mare di cazzate. Non scherza. È tutto vero. La sorellina non ama gli uomini, anche se gli uomini spesso amano lei. È difficile dire cosa le piaccia. La matematica. Le montagne a nord. Scappare. Le Confessioni di Sant’Agostino. Fare l’amore con le donne. L’arte di allevare animali predatori fino a indurli a fidarsi di te e a servirti. L’arte, spinosa, di vedere il futuro. (…) Stanno per impiccare nostra madre a Yuba, mi dice. Lo faranno il primo maggio all’alba. Scelgono sempre quella data per le impiccagioni, mi spiega. Immaginala come una specie di festa. Fa una smorfia di schifo. Ne impiccheranno tre. Una è nostra madre. (…) Porti ancora le pistole, dice. Cosa le tieni a fare se non le usi più? Mi danno una bella andatura quando cammino.

Leggerlo perché – Leggerlo per il motivo solito che muove chiunque sia appassionato (attenzione, non ho scritto ‘innamorato’) di Baricco a correre in libreria ogni volta che esce un nuovo titolo. La certezza (e non c’è scampo, e non è una speranza che corra il rischio di restare vana) che poi arriverai a casa e ti rinchiuderai da qualche parte e aprirai magari neanche dalla prima pagina, all’inizio, e comincerai a leggere ad alta voce. Baricco non è la storia che scrive, non è la trama, non è l’assurdo, non è l’insensatezza della quasi metà delle frasi, non è l’iperbole del senso: Baricco è una nuova partitura musicale, un genere strumentale che in orchestra porta sezioni composte da parole al posto dei violini e dei fiati e delle percussioni e degli ottoni. Baricco ‘suona’ e ubriaca, incanta, trascina, sposta di dimensione in dimensione, ti trasforma in un elemento dei tanti quadri, o atti, di quel film che poi ti scorre davanti. Leggi, dai voce, entri, diventi. Reciti. E ti senti wow, apocalittico. Cosa resta, poi? Nulla. Grazie al cielo non resta nulla, resta il fascino e la suggestione della parola, resta che ti viene quasi voglia di ballare, di metterti ai piedi i texani migliori, saltare in groppa alla sedia purosangue della cucina e, chiusi mignolo, anulare e medio, agitare verso il soffitto una pistola sgargiante fatta di pollice e indice: “È meglio cavalcare e basta, c’è questo silenzio, ovunque, e le catene dei monti a tenere tutto insieme da lontano”. Oh yeah! Clop clop clop. Bravo Alessandro, bentornato. Ti si vuole bene, tanto.

Alessandro Baricco, Abel, Feltrinelli

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