Con cura di Atul Gawande

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Un medico chirurgo di origini indiane racconta la sua esperienza coi pazienti e come la cura si adatti alla loro cultura di appartenenza

di Tiziana Pasetti

 

Trama – Atul Gawande è un medico chirurgo statunitense di origine indiana e in questo libro (sottotitolo, Diario di un medico deciso a fare meglio) racconta la sua esperienza sul campo partendo da episodi minimi che segnano un punto dal quale poi allargare il discorso a tematiche più generali sul tema salute e malattia; come questi due aspetti della vita di ognuno di noi variano e si adattano in riferimento alla società, e cultura, di appartenenza. Il testo è diviso in tre parti, tre agganci per riuscire a garantire alla professione medica il ‘successo’ migliore: Scrupolosità, Fare la cosa giusta (notevole il capitolo dedicato ai medici e infermieri che assistono alle esecuzioni della pena capitale nelle carceri statunitensi), Ingegnosità. Conclude il libro una postfazione con cinque consigli per diventare devianti positivi e restituire a ogni medico il senso della propria unicità al servizio della scienza, una risposta alla domanda che tutti prima o poi si pongono: “conto davvero qualcosa?”. Consiglio 1: fate una domanda fuori copione. Consiglio 2: Non lamentatevi. Consiglio 3: Abbiate un atteggiamento scientifico, trovate sempre in ogni caso e situazione qualcosa da contare per creare grandezze e rapporti. Consiglio 4: Scrivete. Consiglio 5: Cambiate. Siate pronti a riconoscere l’inadeguatezza di ciò che fate e cercate soluzioni nuove.

Un assaggio – In Viaggio a Kandahar, il film che Mohsen Makhmalbaf ha girato in Afghanistan nel 2001, sotto il regime dei talebani, c’è una scena delicata e affascinante in cui a un medico, un uomo, viene chiesto di visitare una donna. Sono separati da una coperta scura che pende tra loro come un sipario. Dietro, la donna è coperta dal burka dalla testa ai piedi. I due non si parlano direttamente. Il figlio della donna, un ragazzino di sei o sette anni, fa da intermediario. – Ha male allo stomaco, – dice. – Vomita il cibo? – chiede il dottore. – No, – dice la donna, in modo perfettamente udibile, ma il medico attende come se non avesse sentito. – No, – gli dice il ragazzino. Per effettuare le visite, nel sipario c’è un’apertura circolare di pochi centimetri. – Dille di avvicinarsi, – dice il medico, e il bambino obbedisce. Lei avvicina la bocca al foro, attraverso il quale lui guarda. – Dille di avvicinare un occhio, – dice lui. E così va avanti la visita. A tanto, evidentemente, possono arrivare le richieste di decenza. Quando cominciai la pratica chirurgica, avevo idee piuttosto confuse sulla deontologia professionale. Negli Stati Uniti non esistono standard consolidati, le prospettive sono incerte, e la materia è gravida di rischi. Le visite mediche sono una cosa molto intima, e l’approccio del medico al corpo nudo – soprattutto se il medico è un uomo e il paziente è una donna – solleva immediatamente questioni di correttezza e fiducia.  

Leggerlo perché – Ho scoperto questo libro nello studio di un mio amico medico, professore all’università. Ne aveva uno scatolone pieno. Mi raccontò che ne regalava una copia a ogni studente che si laureava con lui. Incuriosita, l’ho comprato e poi letto in due notti. La scrittura è accattivante, ritmica, precisa ma comprensibile. I fatti, le patologie, accostate con delicatezza ai corpi che le hanno ‘ospitate’. Il suo sguardo è pieno di rispetto verso ogni storia che è sempre personale, unica, agganciata a una evidenza che non deve essere dimenticata: la malattia è un aspetto della vita, non accantona tutto il resto, lavoro, attitudini, fede, amori, speranze, futuro. Fino all’ultimo respiro la dignità e l’identità devono essere preservate, considerate, ascoltate. 

Atul Gawande, Con cura, Einaudi

Traduzione dall’inglese di Anna Nadotti

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