Il teatro di Sabbath di Philip Roth

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Un capolavoro che ogni donna, soprattutto chi non è in grado di riconoscere un certo tipo di uomo (narciso ed egopata), dovrebbe leggere

Giura che non scoperai più con le altre o fra noi è finita. Questo l’ultimatum, il delirante, improbabile, assolutamente imprevedibile ultimatum che la signora cinquantaduenne impose tra le lacrime al suo amante sessantaquattrenne, il giorno in cui il loro legame, di stupefacente impudicizia e altrettanto stupefacente riservatezza, compiva tredici anni. E adesso che l’afflusso di ormoni andava esaurendosi, e la prostata ingrossava, e forse non gli restavano che pochi anni di potenza relativamente affidabile, e forse ancor meno anni di vita; adesso, quando si avvicinava la fine di ogni cosa, gli veniva imposto, per non perdere lei, di stravolgere se stesso. Lei era Drenka Balich (…) e lui era il dimenticato burattinaio Mickey Sabbath, un uomo piccolo e tarchiato con la barba bianca e conturbanti occhi verdi e dita tormentate dall’artrite deformante. (…) Non ti basta un partner monogamo? – chiese Sabbath a Drenka. – La monogamia con lui ti piace così tanto che la vuoi anche con me? Non riesci a vedere il nesso tra l’invidiabile fedeltà di tuo marito e la repulsione fisica che ti ispira? – E continuò, pomposo: – Noi due, che non smettiamo mai di desiderarci, non ci siamo mai imposti promesse, giuramenti, restrizioni, mentre con lui scopare ti fa schifo anche quei due minuti al mese in cui ti piega sul tavolo della cucina e ti prende da dietro. E perché? Matija è grande, forte, virile, con quella testa di capelli da porcospino. Quei capelli neri sono aculei. Tutte le vecchiette della zona sono innamorate di lui, e non solo per il suo fascino slavo. Piace fisicamente. Tutte le vostre cameriere svengono per la sua fossetta nel mento. L’ho osservato, in cucina, certe giornate di agosto con quaranta gradi all’ombra, e la gente che fa chilometri di coda per assicurarsi un tavolo. L’ho visto mentre rosola i kebab con una maglietta fradicia. Eccita perfino me, tutto luccicante di unto. Solo a sua moglie fa schifo. E perché? Per tutta quell’ostentata fedeltà, ecco perché”.

Philip Roth in questa rubrica lo abbiamo incontrato spesso, sapete che la mia non è tanto passione ma curiosità, curiosità attenta, famelica, a tratti rabbiosa. Ho odiato il modo in cui ha tolto scene, parole, dialoghi ai suoi romanzi brevi e ho spesso sbadigliato, quasi cedendo al sonno, al cospetto delle sue prove da (quasi) mille e una pagina.

L’ho odiato, Roth. L’ho odiato perché quando ho cominciato a leggerlo, ad ascoltarlo (capita anche a voi di pensare a lui come ad un Maestro Cattivo e nello stesso tempo a un Mentore, a un daimon, quell’intermediario prezioso tra ombra umana e luce divina che la filosofia greca ci ha regalato?), ho smesso di abbigliare gli uomini di vesti femminili, ho smesso di tendere verso un ideale di Amore fanciullesco e bislacco, ho cominciato a riconoscere nelle parole altisonanti di certi maschietti i burattinai, i Mickey Sabbath, gli incompiuti narcisi che nelle parole incessanti, nella fede logorroica, cercano la conferma del proprio minuscolo esistere.

Per leggere questo libro c’è bisogno di preparazione. Atletica? No, molto di più. Per leggere questo libro, per ascoltare Mickey che parla e straparla di sesso senza mai riuscire ad avvicinarsi al senso della sensualità e del vero erotismo (eccolo il miracolo della forma/contenuto di Roth), ci vuole un atto di coraggio: siete pronti a guardare in faccia il vero volto disperato di un uomo che straparla – questa è sì una masturbazione che rende ciechi – di sé? Ce la fate? Dall’incontro con Sabbath e le sue infinite e squallide messinscene non si esce colmi di compassione. Si esce più ricchi e insieme alleggeriti. Si esce liberi.

Philip Roth, Il teatro di Sabbath, Einaudi

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