Rombo di Esther Kinsky

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È tra i candidati al Premio Strega e ricostruisce con la fantasia i giorni del terremoto in Friuli del 1976. Da leggere nell'anniversario di un altro sisma: quello di L'Aquila

Trama – Il 6 maggio del 1976 un sisma – denominato Orcolat, orcaccio – di magnitudo 6.5 della scala Richter devastò la pedemontana del Friuli uccidendo quasi mille persone. Gli sfollati furono oltre centomila sfollati e vennero giù circa diciottomila case. La scrittrice tedesca, che con questa opera di fantasia costruita all’interno di una cornice reale è candidata al premio Strega europeo, ha dato voce a sette abitanti (uomini, donne e bambini) di una valle nell’estremo nord-est della regione e alla natura, contro canto necessario. Due piani di lettura: quello umano, vittima di un carnefice da nominare e maledire e temere, e quello biologico, senza colpe, senza intenti di distruzione.

Un assaggio – La sera del 6 maggio un terremoto scuote il circondario. La terra si apre, le case crollano, persone e animali vengono sepolti sotto le macerie, gli orologi sui campanili si fermano, sono le nove, serpenti neri fuggono nel fiume, sotto la vetta del monte Canin una nuvola di neve scende a valle fendendo la sera. Il terremoto è la conseguenza di placche tettoniche. Sono tante le parole in uso per spiegare quel che accade al termine di una giornata con tre soli, cani che mugolano, serpenti carbone senza requie, uccelli striduli. Parole come faglie, ipocentro, litosfera. Belle parole che si possono tenere in mano come piccole e aliene creature impietrite: superficie di rottura. Fenditure. Luce tellurica. Velocità di propagazione del sisma. Linee di rottura. Il terremoto produce un’alterazione della superficie terrestre, si sente dire. Si può misurare. Il 6 maggio l’intensità delle scosse non è nemmeno troppo alta, se misurata in base alle unità di una scala creata dagli uomini. «Così il giudizio resta aggrappato alla fisicità del corpo e ama dimenticare che il pianeta potrà anche essere misurato dall’uomo, ma non sull’uomo», si legge in un libro. In ogni caso: il mondo non è più lo stesso. (…) Com’era il paesaggio prima? Di colpo la gente l’ha dimenticato e lo cercherà nei sogni, per anni – che aspetto aveva il terreno prima dello squarcio, prima dei cocci, delle macerie, dei segni di trascinamento, il terreno sotto i piedi, giorno dopo giorno?

Leggerlo perché – “La notte tra il 5 e il 6 aprile un terremoto scuote il circondario. La terra si apre, le case crollano, persone e animali vengono sepolte sotto le macerie, gli orologi sui campanili si fermano, sono le tre e trentadue, serpenti neri fuggono nel fiume, sotto la vetta del Gran Sasso una nuvola di neve scende a valle fendendo la notte”. Non siamo in Friuli, siamo in Abruzzo, a L’Aquila. Non è il 1976 ma il 2009. Per il resto, è tutto uguale. A partire dal rombo, un suono pazzesco, un’orchestra impazzita che scuote e sbatte l’uno contro l’altro ogni elemento metallico, il rombo che parte da lontano e si avvicina velocissimo e poi ti arriva accanto, sotto, ti solleva in aria, ti lancia. In alcuni casi ti raccoglie, poi. In altri no. Ho letto Rombo nei giorni del quattordicesimo anniversario dal terremoto che ha colpito la mia città, la mia gente. L’ho letto sussurrandolo come fosse una preghiera laica. Ho ascoltato il lamento di voci lontane, immaginate, e ho trovato gli incastri, le similitudini. Ho letto una storia che ho vissuto. I silenzi, i vuoti, le assenze. Ho ascoltato Lina: “Parlo volentieri del passato. Dei ricordi che ho. Capita sempre di recuperare cose dimenticate”. Parlo volentieri del passato. Dei ricordi che ho. Capita sempre di recuperare cose dimenticate.

Esther Kinsky, Rombo, Iperborea

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