Una stanza tutta per sé di Alex Johnson

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50 scrittori e altrettanti luoghi scelti per scrivere. Dove ciascuno dà sfogo all'immaginazione: dalla baita di Paolo Cognetti al capanno di Virginia Woolf

Trama – Cinquanta scrittori, cinquanta modi, e luoghi, di scrivere. Cinquanta ‘stanze’ raccontate da Alex Johnson e illustrate da James Oses. Isabel Allende scrisse La casa degli spiriti in cucina a Caracas, dove si era rifugiata dopo il colpo di stato militare in Cile. Paolo Cognetti in una baita nel borghetto di Fontane in Val d’Ayas, sulle pendici del Monte Rosa, a circa 1900 metri d’altitudine. Haruki Murakami ha un ufficio al sesto piano di un edificio anonimo nel quartiere Aoyama a Tokyo. Mentre lavora ascolta musica jazz, uno dei 10000 vinili della sua raccolta. John Steinbeck realizzò nella sua proprietà a Sag Harbour (Long Island) una piccola veranda con una sedia da regista e infinite matite, “sono loro a fare la stanza di uno scrittore”. Per Virginia Woolf la ‘stanza’ era un capanno e una ragguardevole somma di denaro. Michel de Montaigne trovò il suo locus amoenus in un grande studio-biblioteca al terzo piano di una torre che fiancheggiava il suo castello in Dordogna. D.H. Lawrence sosteneva che quattro pareti non facessero una stanza per scrivere e creò una leggenda secondo la quale il luogo giusto per scrivere, nudo, era appollaiato sui rami di un gelso. Ma prima di sedersi, prima di essere pronti a tatuare la carta con la trama, qual è il miglio momento per concepire un libro? Non ha dubbi Agatha Christie: “Mentre lavi i piatti”.

Un assaggio – Nel maggio 1946, dopo un periodo di prolungata malattia e di intenso lavoro a Londra, George Orwell (1903-1950) prese una decisione radicale. Per concentrarsi sul suo nuovo romanzo – dal titolo provvisorio L’ultimo uomo in Europa, poi diventato 1984 – scelse di autoisolarsi con il figlioletto Richard sull’isola scozzese di Jura, nelle Ebridi Interne. In passato aveva annotato: “Se uno scrittore accetta di lavorare in casa sarà soggetto a continue interruzioni”, mentre negli appunti per il libro si parla della “solitudine dello scrittore, la sensazione di essere l’ultimo uomo”. Andò quindi a vivere nella fattoria Barnhill, a nord dell’isola popolata da trecento anime. Per i primi tre mesi non scrisse nulla, dedicandosi anima e corpo al piccolo podere e alla costruzione di alcune librerie (riprese anche a usare il suo vero nome, Eric Blair). Il primo vicino si trovava a due chilometri di distanza e non c’erano telefoni nei dintorni. A volte invitava qualche amico a fargli visita ma le condizioni del viaggio e del soggiorno finivano di solito per scoraggiare l’impresa: mancavano elettricità e acqua calda. Quello stile di vita austero, fisicamente impegnativo e per nulla confortevole, rispecchiava il romanzo che stava scrivendo.

Leggerlo perché – Gli scrittori sono esseri un po’ magici. Contengono immensità, abitati da storie che diventano alcune volte quasi più grandi dell’universo, quasi altrettanto eterne. Ma se così è, dov’è che avviene il Big Bang di ogni libro, di ogni romanzo? C’è una costante, in ogni ‘Dio’, oppure no? Gli scrittori sono esseri un po’ magici, spesso quasi degli extraterrestri. Sembrano antipatici, distanti, e qualche volta lo sono; ma nella maggior parte dei casi sono solo persi altrove, aggrovigliati in un abbraccio con la loro stessa immaginazione, con una drammatica – e creativa – solitudine. Le illustrazioni di Oses sono deliziose e ti ritrovi in un angolo di ogni stanza descritta, ad osservare. Basta chiudere gli occhi, poi, e tutto diventa reale. (Osservateli di spalle e in silenzio, non fate rumore, non vi fate sentire. In quelle stanze che sembrano vuote, abitate solo da Emily o Ernest o Marcel o Sylvia, ci sono genesi di mondi in atto).

Alex Johnson, Una stanza tutta per sé, L’ippocampo (2022)

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