Veniva da Mariupol di Natascha Wodin

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Una città tristemente nota, un libro che racconta la tragedia dell'Ucraina, ben prima di questa guerra

Scoprii che si trattava di una città dal clima particolarmente mite, una città portuale sul Mar d’Azov, il mare più piatto e caldo del mondo. Nell’articolo si parlava di spiagge lunghe e ampie, di colline ricoperte di vigneti e campi di girasoli a perdita d’occhio. La realtà mi sembrò molto meno reale dell’idea che me ne ero fatta. Per la prima volta da quando era morta, percepii mia madre come una persona esterna a me. Invece che sulla neve, la vidi improvvisamente camminare per Mariupol con indosso un abitino estivo di colore chiaro, le braccia e le gambe nude, i sandali ai piedi. Una giovane donna che non era cresciuta nel luogo più freddo e buio del mondo, bensì vicino alla Crimea, sulle coste di un caldo mare del Sud, sotto un cielo che forse assomigliava a quello del mare Adriatico, in Italia. Niente mi sembrava così inconciliabile quanto mia madre e il Sud, mia madre e il sole e il mare. (…) Durante la Seconda guerra mondiale, quando aveva ventitré anni, insieme a mio padre era stata deportata da Mariupol in Germania e costretta al lavoro forzato; sapevo solo che entrambi erano stati assegnati a una fabbrica di armi del gruppo Flick, a Lipsia. Undici anni dopo la fine del conflitto mia madre si tolse la vita in una cittadina della Germania occidentale, non lontano da un insediamento per «stranieri apolidi», come venivano chiamati allora gli ex lavoratori forzati”.

Non c’è nulla di più assurdo e fantasy e spesso orrendo della trama che ogni vita, travolta dal caso o da capricci di destini, riesce a scrivere e filmare dal vero. Veniva da Mariupol è il decimo libro dell’autrice, nata nel 1945 in Baviera da genitori ucraini deportati dalla Russia in Germania dal Terzo Reich. Mariupol è nome di città oggi noto a tutti per i fatti tristemente noti legati al conflitto in essere in quella parte di mondo e che per la prima volta il mondo sta guardando in diretta attraverso i media tradizionali, ma soprattutto attraverso un quantitativo immenso di materiale riversato sulle piattaforme digitali e di messaggistica istantanea da reporter improvvisati, cittadini, soldati, volontari, feriti. Di quelle terre e dei conflitti che da sempre scorrono appena sotto lo strato superficiale della quotidianità civilizzata in realtà molto poco conosciamo. La paura di un conflitto allargato ci paralizza, ci aggrappiamo alle spiegazioni della maggioranza, portiamo i vestiti vecchi nel centro di smistamento più vicino: la sera ascoltiamo e guardiamo rapiti il montaggio che chiude i tg, una sequenza di immagini rese emotivamente ancora più accattivanti dalla sovrapposizione in post produzione di un brano di musica classica o, bisogna comunque fare la differenza, di qualche pezzo uscito da Woodstock per richiamare un sogno di pace, di cannoni caricati a fiori, amore e rock.

Natascha attraverso ricerche, telefonate con parenti ritrovati, ricordi della sua infanzia in Germania, ricostruisce una mappa sentimentale e famigliare che non porta al ritrovamento di tesori, ma di memorie pesanti dettate dalla tragedia che l’Ucraina ha vissuto nel ‘900, prima sotto lo strazio della dittatura staliniana e poi schiacciata e risucchiata da quella hitleriana.

Non si smette di essere esuli, deportati. Mai. Non si dimentica lo strappo che l’identità subisce al comando di uomini in divisa che ti puntano contro un’arma. Se sopravvivi fisicamente non ci sono ad attenderti le pagine accoglienti di un romanzo ma ‘solo’ quelle, che non leggerai, grondanti dolore di una figlia che non ti ha salvato il cuore, l’anima, la resistenza ai giorni. Oggi, leggere queste pagine autobiografiche è come porsi in ascolto. Possiamo imparare qualcosa, possiamo essere meno schiavi, abdicare al ruolo di pappagalli di opinioni ringhiate in tv dai soliti quattro volti noti.

Doveva aver scelto da tempo il punto esatto del fiume. Forse quello stesso giorno in cui aveva contrassegnato con una croce il 10 ottobre sul calendario. Di lei non rimangono altro che un paio di vecchie foto in bianco e nero. Il viso è lontano e inespressivo, non tradisce le circostanze della morte né tantomeno la ragione per cui alla fine ha deciso di non portare con sé me e mia sorella, di andarsene via così, da sola”.

Natascha Wodin, Veniva da Mariupol, L’Orma Editore

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