Abbracciati a Kiev

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Riproponiamo sul blog la storia più apprezzata del n. 10 di Confidenze

 

Mi sono trasferito a vivere in Ucraina per amore di Anastasiya. Insieme abbiamo superato tanti ostacoli e costruito una famiglia. Oggi che la guerra ci ha raggiunto, non lasceremo la città, ma fronteggeremo il destino, disposti a ricostruire ciò che sarà distrutto

STORIA VERA DI FABIO C. RACCOLTA DA BARBARA BENASSI

 

Il tempo è passato, tante cose sono successe soprattutto negli ultimi due anni di pandemia, ma in fondo a ben guardare tutto è rimasto uguale. Anastasiya e io ci abbracciamo e cerchiamo di capire cosa fare. Lei è preoccupata e spaventata, mentre io ancora non ci credo.
Quando ci siamo conosciuti avevo 30 anni, una lunga relazione finita consensualmente alle spalle e tanto lavoro che assorbiva buona parte del mio tempo. La sera, dopo ore nei cantieri a contatto con operai e tecnici, tornavo a casa e mi rilassavo davanti al computer. Avevo da poco iniziato a utilizzare uno dei primi social network che ai tempi spopolava, un programma di messaggistica istantanea. Era semplice e mi consentiva di parlare con persone di tutte le parti del mondo, fusi orari permettendo. Una sera, mentre ascoltavo musica e cercavo qualche amico disponibile on line, mi imbattei in una ragazza che non avevo mai notato che si era messa in modalità “aperta”. Lo spirito in quel momento era quello giusto, mi sentivo in vena e le scrissi delle banalità tipo “Ciao, come stai? Dove vivi, cosa fai?”. Dopo poco mi arrivò la sua risposta. Si chiamava Anastasiya, aveva 24 anni, era di Kiev. Kiev…Ucraina. Malgrado avessi viaggiato molto, di quel Paese conoscevo ben poco e la cosa mi incuriosì. Mi presentai a mia volta parlandole del mio lavoro di architetto, della mia città e dell’Italia. Anastasiya in un ottimo inglese mi scrisse che era una studentessa di relazioni internazionali dell’Università Taras Shevchenko, l’università dipinta di rosso. ”Abito in centro a Kiev in un appartamento che i miei hanno affittato per me vicino alla facoltà. Dalle mie finestre posso vedere i tetti dorati della cattedrale di Santa Sophia”.

Aveva molti amici in giro per il mondo ma io ero il primo italiano in assoluto.
Ricordo benissimo che già da quella prima sera parlammo a lungo e che quando ci salutammo mi rimase uno strano senso di vuoto. Così, ricominciai a scriverle il giorno dopo. E poi tutti i giorni seguenti, a volte fino a tarda notte. Oltre alle chiacchiere, iniziammo a scambiarci anche delle foto delle nostre rispettive città. “Kiev è sorprendente” le scrivevo, ”sembra una visione, magica e romantica”. E Anastasiya gongolava a queste mie parole, visto che amava molto il suo Paese. Le prime immagini che mi inviò ritraevano Parco Mariinsky, dove lei andava a correre tutte le mattine.

“È considerato uno dei parchi più antichi della città, lungo le colline del nostro fiume, il Dnepr. Pensa che è stato voluto da una donna, Maria Aleksandrovna, moglie dell’imperatore Alessandro II. Io ci faccio jogging, ma tanta gente trova un po’ di relax sulle panchine nel verde. Tra l’altro pensa, dietro c’è Palazzo Mariinskij il palazzo presidenziale, realizzato in stile barocco per la zarina Elisabetta di Russia su progetto di un architetto italiano Bartolomeo Rastrelli. Incredibile no? Quando verrai a trovarmi ci andremo insieme”. A volte sono piccoli indizi, altre volte poche parole buttate a caso che segnano il nostro destino… In quella frase in realtà era racchiuso il mio futuro.
Dopo qualche mese, Anastasiya e io decidemmo una data per incontrarci e visto che erano le sue vacanze invernali all’università, le proposi di venire a Roma.

“Ma certo! Non vedo l’ora di conoscerti” mi scrisse, subito entusiasta.
Quando andai a prenderla all’aeroporto tremavo dall’emozione. Non l’avevo mai incontrata, ma sentivo che sarebe stato un momento decisivo.

La vidi uscire dal terminal e la riconobbi subito. Era lei e sfoderava quel suo splendido sorriso. Per un attimo rimanemmo in silenzio a fissarci, poi ci abbracciammo stretti, stretti. Da lì iniziammo a parlare e non smettemmo più per tutto il suo soggiorno. Mi raccontò che fin da piccola i suoi genitori, il padre cardiologo e la madre pediatra, l’avevano fatta viaggiare. Quando aveva solo 11 anni era stata per tre mesi da sola in un campo di villeggiatura a Cuba poi, da adolescente, molti mesi in famiglia in Inghilterra. Il suo desiderio era continuare a viaggiare e lavorare in Medio Oriente per una organizzazione internazionale. «Sono abituata a viaggiare, a conoscere molta gente nuova e francamente non avevo paura di te, non ho mai pensato che potessi essere uno psicopatico, ma ti confesso che a volte mi dicevo: e se fosse un tipo strano?» mi raccontava ridendo. La trovavo divertente. Anzi, a dire il vero, molto, molto di più… Ecco, per me era stato amore assoluto a prima vista.

Fu una settimana indimenticabile quella e il colpo di grazia lo ricevetti l’ultimo giorno, il 14 febbraio, quando, al momento di salutarci, Anastasiya mi abbracciò e mi disse sorridendo: «Fabio, vieni a Kiev quando vuoi». Da quella visita continuammo a sentirci tutte le sere, sempre entusiasti, sempre con la voglia di parlare e di ridurre la distanza tra noi il prima possibile. Distanza che decisi di cancellare, prendendo Anastasiya in parola: alla fine del mese di luglio acquistai un biglietto per Kiev per passarci ben un mese di ferie.

Al mio arrivo, lei e i suoi mi accolsero a braccia aperte. Parlammo in inglese per tutto il tempo e posso assicurare che dopo tre bicchieri di vodka, tutti ci capivamo alla perfezione. Così quello fu il mio primo pasto ucraino in famiglia.
«Varenyki!» esclamava sua madre ridendo del mio stupore di fronte a dei meravigliosi ravioli ripieni di cipolle, patate e formaggio. Oppure «Holubcy…» diceva mentre mi offriva degli involtini di foglie di cavolo ripieni di riso condito e carne su cui versava una profumata salsa al pomodoro. Tutto fu molto divertente e l’intera famiglia cercò di farmi sentire a mio agio e ben accolto. Sensazione che porto ancora nel cuore.
La stessa cosa accadde quando ci trasferimmo a casa di Anastasiya nel centro di Kiev.
«Prima cosa la spesa» mi disse. «Andiamo al mercato coperto Besarabsky, poi inizieremo il tour di oggi». Dopo avermi trascinato in un mercato profumato e coloratissimo, con banchi ordinati e stravaganti tenuti come fossero vere e proprie opere d’arte, iniziammo a passeggiare per la città. Dapprima in un modo che mi sembrò casuale poi capii che in realtà Anastasiya si era fatta in quattro per assicurarsi che tutto fosse perfetto.
Ogni giorno infatti aveva programmato una visita a un museo o a un monumento per far sì che il mio soggiorno fosse il più piacevole e vario possibile. Premesso che piacevole lo sarebbe stato comunque per il solo fatto di stare con lei, ammetto comunque che Kiev seppe stupirmi.
Prima di tutto lei volle che vedessi l’Università Taras Shevchenko dedicata al più famoso poeta ucraino, dove lei studiava. «Così quando ti dirò che sono stata in facoltà, ce l’avrai ben presente» affermava compiaciuta indicandomi la facciata rosso acceso dell’ateneo che confermava quanto mi aveva scritto all’inizio.
Poi mano nella mano mi condusse nel grande parco antistante dove ci mescolammo ai tanti studenti, accompagnati dalle note dei musicisti di strada, tra cui un batterista scatenato al quale lasciammo qualche monetina.

Insomma, con i giorni, tra abbracci, baci, foto e chiacchiere il nostro tempo si consumava come cera al fuoco e con gli occhi dell’amore tutto mi sembrava magico.
«Non puoi non assaggiare i churchkheli» mi diceva comprando da una bancarella dei dolcetti coloratissimi di frutta secca a forma di candela. «E non puoi non vedere la meravigliosa Chiesa di Santa Sofia» si divertiva Anastasiya negando di aver già organizzato tutto. «E mi raccomando, niente foto, è vietato».
Non immaginava che per la loro bellezza gli affreschi, le volte, le cupole, mi sarebbero rimasti impressi nella memoria molto meglio di qualunque fotografia.

Più i giorni passavano, più ero folle di lei e più l’in- tera città con le sue meraviglie, che mi venivano svelate mano nella mano da Anastasiya, diventava un luogo perfetto e invitante. I mercatini, le tante meravigliose chiese, la casa-museo di Michail Bulgakov, la piazza principale con la grande ruota panoramica, i tram retrò, i localini tipici, le venditrici di fiori, la città alta, il quartiere di Podil, il vivace lungofiume del Dnepr affollato di bambini sui cavallini e di ragazzi che giocavano a calcio, sullo skateboard, seduti all’ombra degli alberi o ai tanti caffè affacciati sul fiume.

L’ultimo giorno Anastasiya mi salutò lasciandomi nel cuore un’immagine che tutt’oggi è ancora lì, inamovibile. Davanti alla statua dell’amore eterno, che rappresentava Luigi e Mokryna, due anziani che si abbracciavano, mi raccontò con voce dolce: «Tutto iniziò nel 1943, durante la Seconda Guerra Mondiale. Luigi, cavaliere maresciallo italiano, poco più che ventenne, fu deportato dai tedeschi nel campo di concentramento di Krems, in Austria, e lì incontrò Mokryna, una giovane ventenne

ucraina condannata anche lei ai lavori forzati. Mokryna non parlava l’italiano e Luigi conosceva solo alcune frasi in ucraino. Nonostante ciò, i due si innamorano perdutamente e in un luogo di tanto dolore e crudeltà la coppia riuscì a sopravvivere, grazie alla forza del loro amore, sostenendosi a vicenda. Quando nel ’45 il campo fu liberato, lei fu rimandata in Ucraina e a lui fu impedito di seguirla. Si sono ritrovati solamente dopo 60 anni grazie a un programma televisivo e da allora i due innamorati non si sono più separati».

Non c’era altro da aggiungere. Partii con un nodo in gola e la morte nel cuore, ma ero sicuro che i nostri sentimenti forti e profondi avrebbero superato le difficoltà, il tempo e la distanza.

Riuscimmo a mantenere la nostra relazione per un altro anno vedendoci una settimana in inverno, una settimana in primavera e un’altra in estate. Era molto difficile però perché avrei voluto stare con lei ogni giorno e sentivo che non avremmo potuto continuare così a lungo. Poi finalmente decisi di andare a Kiev per rimaner- vi diversi mesi e porre così le basi di un mio futuro trasferimento lavorativo.

Era il 2014. Tutto era pronto, solo il destino non era d’accordo. Nel mese di febbraio scoppiò la rivoluzione dopo una serie di episodi di violenza a Kiev culminata con la cacciata dell’allora presidente dell’Ucraina, e il mio viaggio andò letteralmente in fumo.

«Devo fare qualcosa» confidai a mio padre. «Mi sento in trappola, bloccato dagli eventi. È tutto così incerto».
«Chiedile di sposarti e falla venire in Italia!» mi rispose lui senza esitare.

E così feci. Mentre eravamo al telefono, con un tono basso e serio, pregai Anastasiya di chiudere gli occhi e di immaginare che mi fossi inginocchiato davanti a lei.
«Vuoi diventare mia moglie?» le chiesi tutto d’un fiato con la voce strozzata per l’emozione.
Silenzio dall’altra parte. Poi una risatina nervosa e infine un sonoro «Sì» mi resero l’uomo più felice al mondo. Anche mio padre rise quando andai a trovarlo per rac contarglielo. «E lei cosa ti ha detto?».

«Incredibile, papà, lei ha accettato».
Anastasiya e io iniziammo così ad affrontare le scartoffie per richiedere un visto per studenti per farla venire in Italia. Ci vollero due mesi, ma purtroppo venne rifiutato. Non me lo aspettavo proprio. Allora decidemmo di richiedere il visto turistico e al suo arrivo ci saremmo sposati subito. Ma i problemi non erano finiti. A tutta la sua
famiglia, che aveva naturalmente programmato di venire alla cerimonia, venne negato ogni visto in blocco. A quel punto non sapevamo davvero come fare, ma eravamo innamorati e ai nostri occhi i problemi trovavano sempre una soluzione.

E la soluzione arrivò. Sulla spinta forse della mia stanchezza, del mio nervosismo e della mia intransigenza accumulata nel tempo per le barriere culturali e non solo che sentivo erigersi attorno a noi. Infatti, parlando del matrimonio con i miei amici erano uscite battute infelici che sfioravano, nemmeno troppo velatamente, il cliché della bella ragazza dell’est che aveva trovato il modo per ottenere il passaporto europeo mentre io, pur di sposare la bella e giovane ucraina ero disposto a farmi spennare.

Diventavo intrattabile nei confronti di chi muoveva tali assurde illazioni, mi montava una rabbia muta, ma molto potente. Rabbia che mi diede la forza di prendere una decisione. Feci mio il motto “Se la montagna non viene a Maometto, allora Maometto andrà alla montagna“ e iniziai ad applicarlo prima di tutto iscrivendomi a un corso di lingua ucraina, tanto per avere una piccolissima base e attraverso la mia azienda cominciai a cercare spazi di progettazione commerciale nei pressi di Kiev. Grazie al cielo noi architetti italiani siamo sempre molto richiesti all’estero e finalmente riuscii ad accaparrarmi la progettazione di un’intera ala di un enorme centro commerciale. Malgrado ci fosse stata la guerra, il paese voleva ripartire alla grande e mi aveva trovato pronto. Con il cuore a mille e gli occhi annebbiati dalle lacrime mentre salutavo mio padre partii da Roma in un matti- no di pioggia e arrivai a Kiev in una giornata di pieno e tiepido sole. Lo presi come un buon auspicio. Quando vidi Anastasiya mi fermai e la osservai un momento prima di abbracciarla. Era bellissima.

Entrambi iniziammo a tremare e a piangere dall’emozione certi che da quel giorno qualcosa di importante stava iniziando per noi due.
«Senza di te non riesco a vivere» le dissi. «Costruiremo insieme il nostro futuro».

Andai ad abitare nel suo appartamento e anche se all’inizio lei mi dovette aiutare molto con la lingua, nel giro di poco il mio lavoro ingranò. Anche Anastasiya, dal canto suo, iniziò a collaborare con una organizzazione di sostegno internazionale, come aveva sempre sognato.

Oggi insieme a lei ho due splendidi figli e la mia vita è qui in questo Paese instabile e sempre in bilico, ma che ormai è diventato anche casa mia.
Succederà quel che succederà.

In tutti questi anni di vita insieme, Anastasiya e io, abbiamo affrontato tanti problemi e siamo ancora altrettanto innamorati. Credo nella forza dell’unione e dell’a- more e insieme fronteggeremo un giorno alla volta il nostro destino, disposti a ricostruire ciò che sarà andato distrutto.

«Insieme vinceremo. Proprio come hanno fatto Luigi e Mokryna, ricordi? Malgrado la guerra e la sofferenza, grazie alla forza del nostro amore, come loro, ricominceremo sempre, tesoro» sussurro ad Anastasiya nell’orecchio stringendola forte. Lei mi guarda e sorride. Ora è più serena perché sa che in fondo ho ragione. ●

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