Allo smart working dico «Nì»

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Il lavoro da remoto è stimolante. Con lo smart sei più libera, ma non smetti mai. Per fortuna c'è il weekend, che è sacro

Non sono mai stata una studentessa modello, però a scuola me la cavavo. Non tanto perché in classe stessi attenta. Semplicemente, pur passando le ore di lezione a cazzeggiare distratta, nelle mie orecchie entravano comunque le spieghe dei prof. Quindi, a furia di sentirle qualcosa nella mia testolina rimaneva.

Su quegli sprazzi di insegnamenti, poi, dovevo contare durante le interrogazioni. Una volta tornata a casa, infatti, tra le mille possibilità per passare il resto della giornata non era certo contemplata quella di aprire un libro.

Tutto questo perché già allora avevo una granitica convinzione: ci sono posti in cui ci si deve dare da fare (scuola e luogo di lavoro). E altri in cui qualsiasi tipo di impegno “professionale” dev’essere rigorosamente bandito (il resto del mondo).

Ferma sulla mia idea, non mi sono iscritta all’università. Perché tra le mura domestiche sapevo benissimo che non mi sarei mai messa di buzzo buono per preparare uno straccio di esame.

Quindi, la vita è proseguita per anni fedele al mio credo. Con il massimo impegno nelle ore alla scrivania. E lo svacco totale appena appoggiato il piede fuori dalla redazione. Un ritmo che ha resistito fino al marzo 2020. Cioè, quando il Covid ci ha obbligati allo smart working.

Al di là di ogni altra considerazione su quel periodo assurdo, ricordo che il primo pensiero è stato: «E adesso? Come farò ad accendere il computer a casa e trascorrere tante ore davanti al monitor come se fossi in presenza?».

Invece, come sempre succede all’essere umano, la cui grande fortuna è abituarsi a qualsiasi situazione e condizione, nel giro di pochi giorni ho dato il là a un andazzo di efficienza che mi ha addirittura stupita. Perché non mi sono scoperta ligia agli impegni, ma molto di più.

In una manciata di settimane, guardandomi da fuori vedevo un’insopportabile secchiona dedita al lavoro come se fosse forzato. Pronta a inviare mail in piena notte (una strategia per ricevere le risposte all’alba del mattino successivo). A scrivere un pezzo dopocena, invece di godermi un bel film. A non considerare più l’orologio: uscivo dall’ufficio virtuale solo nel momento in cui avevo finito di fare tutto.

Peccato che nel nostro lavoro ci sia sempre da fare. Perciò, non finivo praticamente mai.

C’è da dire che allora era vietato varcare la soglia di casa (eravamo nel pieno della pandemia). E che lo smart working mi ha salvata dalle crisi di panico. Però, quando hanno aperto le gabbie le abitudini non sono cambiate. E di colpo quei ritmi ininterrotti sono diventati pesanti come macigni.

Eppure, alla domanda Smart working, addio? (è il titolo di un articolo che trovate su Confidenze in edicola adesso) rispondo «Nì», visto che davanti ai contro del lavoro da remoto c’è qualche pro degno di nota.

Parto dai primi. Oltre al già enunciato non stop, guadagnare la pagnotta da casa distrugge la socialità. Ti fa sentire troppo massaia. Alla lunga rincoglionisce.

Di bellissimo, invece, c’è che offre un’impareggiabile libertà d’azione. Permette di vedere le amiche a pranzo senza correre come Pietro Mennea. Fare le commissioni all’ora che decidi tu. Fissare una visita medica nel bel mezzo del pomeriggio senza supplicare un appuntamento prima che sorga il sole o dopo che è calato. Proporre ai figli (grandi) «Passate a trovarmi quando volete» invece di obbligarli a noiosissime cene con la mamma.

Ma la vera chicca dello smart working, per me, si palesa con l’avvicinarsi del fine settimana. Al quale posso dare il via con un po’ di anticipo rispetto al canonico orario in presenza, senza sentirmi una schifezza nel chiedere l’ennesimo permesso per uscire prima.

Lo dico perché, dopo quasi tre anni di lavoro da remoto con disponibilità 24 ore su 24, per darmi una regolata mi sono data una regola: ricordarmi che non ci sono santi, il weekend è sacro!

Confidenze