Canale Mussolini di Antonio Pennacchi

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Un libro che parla di un pezzo di storia d'Italia: la migrazione dal Veneto all'agro-pontino e la bonifica delle paludi voluta da Mussolini

“I poderi erano tutti uguali. O meglio, in realtà la parola podere significherebbe l’intero terreno assegnato ad ogni famiglia di coloni, che variava da dieci a quindici o anche venti ettari di terra, a seconda della fertilità e della possibilità d’irrigazione. Ma noi da subito abbiamo cominciato a chiamare ‘podere’ il casale dove abitavamo; neanche la stalla – che pure era attaccata – o i fienili o i magazzini, ma proprio la casa. Quello era il podere perché sopra – sul fronte che dà verso la strada – su di un angolo al secondo piano, scritto a lettere alte di pietra, c’era: ‘O.N.C. – Podere N. 517 – Anno X E.F.’ O.N.C. vuol dire Opera nazionale combattenti e Anno X dell’Era Fascista vuol dire 1932, dieci anni dalla marcia su Roma, inizio di un’era millenaria che non doveva finire più. Prima c’era stato il mondo di prima, con il disordine, l’ingiustizia e il disprezzo dell’Italia da parte di tutti; adesso s’era aperta un’era nuova, dove il nome di Roma avrebbe trionfato e imposto la sua pace su tutto il mondo. O almeno questo era quello che dicevamo orgogliosi. Sul casale c’era scritto ‘Podere’ a lettere di pietra bianca, ripeto – belle grandi sull’intonaco celeste – e quindi noi i casali li abbiamo chiamati allora e per sempre ‘poderi’. Il nostro stava – come sta tuttora – sulla Parallela Sinistra, la strada che costeggia parallelamente il Canale Mussolini nel tratto che da ponte Marchi attraversa l’Appia prima e la Provinciale poi. Tra la Parallela Sinistra e l’argine del Canale – per quattrocento metri circa – c’era la terra nostra e sulla strada, a trecento metri l’uno dall’altro, i nostri due poderi. Confinanti. Ne avevamo avuti due perché due erano, nella nostra famiglia, i combattenti della Prima guerra mondiale, zio Temistocle e zio Pericle”. 

Bisognava mettere in conto quarantacinque minuti. Si partiva dalla collina, una di quelle che insistono su Roma, da casa e in pochi minuti si arrivava a Velletri e poi il ‘confine’, Cisterna. L’inizio della lunga pianura, l’inizio di una trasposizione geografica e culturale. Cominciavano lì i borghi, il San Michele, il Piave, il Podgora, il Sabotino. Ce n’erano molti altri, ma quelli che attraversavamo noi per arrivare al mare, nel consorzio all’interno del quale avevamo un piccolo terreno e che portava il nome della splendida Torre Astura, erano quelli. Una strada stretta e dritta, a doppio senso di marcia, senza guard rail, che tagliava in due campi coltivati, proprietà quasi sempre non recintate, case coloniche distanziate di centinaia di metri l’una dall’altra. “Questa, un tempo, era una palude”, cominciava mio padre. Siamo andati al mare lì per quindici anni e ogni volta il viaggio cominciava così, non appena appariva il primo cartello di benvenuto. In quei borghi ho passato tutta la mia adolescenza, lì incontravo la mia amica Jole che saliva dalla Sicilia e con lei passavo tre mesi meravigliosi. Lì, avevo undici anni, ho dato un bacio a un ragazzino che si chiamava Enzo. E ogni giorno, quando faceva fresco, salivamo tutti in macchina e andavamo da Ivana. Al podere di Ivana, a Borgo Sabotino. Compravamo le verdure e poi ci sedevamo sotto la pergola e ascoltavamo la storia della sua famiglia, in quella lingua che non era cambiata mai, che era quella che parlavano i suoi genitori quando erano scesi dal Veneto, che era quella che tutti parlavano nel borgo. Le sagre estive erano dedicate ai santi protettori dei loro paesi di provenienza, le pietanze proposte mentre le orchestrine suonavano le canzoni tipiche, quelle della regione attraversata da fiumi che sfociano nell’Adriatico. Il Tirreno è un mare più freddo, i frutti della sua terra hanno un sapore diverso: ma anche il ricordo si adatta, per sopravvivere. L’Agro Pontino non dimentica di essere stato palude. Non dimentica le braccia che lo hanno reso terra fertile. Braccia forti, di uomini e donne che hanno pagato con dolore fisico e di anima una grande migrazione.

Ci sono libri che leggiamo perché in ogni riga ritroviamo una parte della storia della nostra vita. Canale Mussolini io lo acquistai e lessi per ritrovare luoghi che non mi appartenevano più ma che non dimenticherò mai. Dentro, poi, ho trovato molto altro. Un libro, un trattato storico, di architettura rurale, di sociologia dei cambiamenti culturali e delle mutazioni familiari, un romanzo d’amore. Sono passati anni, ma lo consiglio ancora.

Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, Mondadori

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