Giovanissima in gioielleria per lavoro? No buono

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Ho iniziato a lavorare giovanissima e contro di me giocava un aspetto ancora più giovane. Tant'è che quando sono entrata in una gioielleria...

Nell’articolo Il mio primo anno da giovanissimo prof (su Confidenze in edicola adesso) tale Carmelo Giamboi, ventiduenne calabrese con diploma aeronautico e laurea in ingegneria, racconta la sua esperienza di insegnante in erba nell’istituto in cui aveva studiato.

Leggendo la testimonianza, la mia mente è tornata ai tempi in cui, finito il liceo, ho deciso che non mi sarei iscritta all’università e che avrei affrontato subito il mondo del lavoro.

Considerando che tutto questo succedeva nei mitici (e ricchissimi) anni ’80, confesso che trovare un impiego è stato di una facilità inaudita. Nonostante non avessi uno straccio di curriculum, infatti, mi aspettava una rosa di proposte davvero allettanti.

Quindi, dopo alcuni colloqui deliranti della serie «Cosa sai fare?» «Niente». «Cosa ti piacerebbe fare?» «Non ne ho idea». «Quali sarebbero le tue richieste economiche?» «Mi dica lei», sono stata presa come assistente moda nel primo giornale in cui ho messo piede.

Tanta scioltezza nell’individuare la mia strada, però, non ha affatto coinciso con quella del percorrerla. Perché contro di me giocava il fatto di essere giovanissima (avevo 19 anni), aggravato da un aspetto da quindicenne. Il che significava non aver nessuna credibilità, soprattutto tenendo presenti le mie mansioni.

Al giorno d’oggi si chiamano in modo altisonante art buyers. Allora, semplicemente trovarobe. E proprio in quei panni io giravo in lungo e in largo la città, a caccia di tutto ciò che serviva per i servizi fotografici.

Ma se non ho mai avuto problemi nei negozi di vestiti usati, nei magazzini di complementi d’arredo e neppure negli show room, dove la mia visita era comunque annunciata dalla segreteria di redazione, ricordo come se fosse ieri l’enorme disagio quando mi sono presentata in una gioielleria.

Come al solito, l’appuntamento era stato fissato indicando il mio nome. Evidentemente, però, appena ho varcato la soglia della boutique la commessa ha pensato due cose. Che si trattasse di uno scherzo. Oppure che fossi una malintenzionata decisa a rubare qualcosa.

Con maglietta di Snoopy, calzoncini da surf, borsa di Naj Oleari e casco pieno di adesivi cartoon in mano, effettivamente non avevo l’aria più professionale che si potesse immaginare.

Se a questo aggiungete, appunto, un’aria da bambina, ripensandoci adesso condivido le perplessità dalla tipa nel mostrarmi monili tempestati di pietre preziose.

Allora, però, un po’ per l’età un po’ per l’inesperienza, non capivo la fronte imperlata di sudore della povera commessa dilaniata da un dubbio amletico: aveva di fronte l’art buyer della prestigiosa rivista di moda o una zingarella travestita da ragazzina della Milano bene pronta a uscire dal negozio con un bel bottino in tasca?

Morale, la scena iniziale si è svolta nel disagio più assoluto, con lei reticente e io stralunata per il suo comportamento (ai miei occhi) assurdo. Dopodiché, la situazione si è miracolosamente risolta grazie a una telefonata della redazione che mi cercava (allora non esistevano i telefonini, perciò per rintracciarci i capi si affidavano alla lista dei nostri appuntamenti).

Per la signora agitata, la chiamata è stata la prova della mia (onesta) identità. E se il difficile incontro è finito a tarallucci, vino e mille scuse, le mie umiliazioni non erano finite. Un’altra volta, infatti, cercando di entrare in uno show room, mi sono sentita dire che ai pony-express era riservato un ingresso diverso.

Ne avrei una sfilza da raccontare. Ma credo che questi due patetici aneddoti siano più che sufficienti per descrivere i miei esordi professionali. Eppure, se ci ripenso oggi mi riempiono di nostalgia e tenerezza. Gli stessi sentimenti che ho provato leggendo la testimonianza di Carmelo, scambiato per uno studente in visita ai vecchi prof invece che per un prof quale era nel frattempo diventato. A dispetto dell’aspetto.

A lui, però, non voglio propinare la frase che ho sentito per un sacco di tempo «Che fortuna dimostrare molti anni in meno».

Perché sembrare più giovane a un giovane non interessa per niente, anzi. E’ una specie di incubo che non garantisce neanche un’aria giovanile quarant’anni dopo. Cioè, quando davvero si darebbe un occhio della testa per vedere gente incredula davanti alla dichiarazione della propria età.

Lo sostengo con cognizione di causa, perché io da una vita non vedo l’ombra di increduli!

Confidenze