Io ero felice

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La storia vera di un uomo che a 20 anni era sulle montagne come partigiano. Un racconto per ricordare il 25 aprile

 
Sono vecchio, ormai mi dimentico quasi tutto, mi ricordo solo cose lontane e tra queste c’è lui, il mio compagno d’armi sulle montagne, i nostri 20 anni, la guerra e la felicità di sentirsi vivi

storia vera di Giuseppe T. raccolta da Eva Milani

Da questa sedia, davanti alla finestra, guardo le montagne. È quello che faccio tutto il giorno. Tutti i giorni. Un tempo ci andavo, lassù, ma ormai le gambe non mi reggono, da un giorno all’altro sono diventato un brutto giocattolo, da lavare e da vestire e poi piazzare qui, davanti alla finestra. Di cervello non ne ho avuto mai granché, ma pure quello mi pare che piano piano stia colando via dal cranio come la minestra dagli angoli della bocca.

Mi dimentico quasi tutto, mi ricordo solo cose lontane, passate, vecchie come me e altrettanto inutili. Guardo le montagne qui di fronte e penso a quando erano le nostre montagne e noi avevamo 20 anni e tutto e niente da perdere, e allora la memoria diventa così affilata che mi trapassa queste quattro vecchie ossa e mi lascia svuotato e floscio, triste di non so bene cosa. Forse di essere ancora vivo. Ma non m’illudo di durare ancora molto. Non m’illudo mai, io.

Quando uno cresce per strada, illusioni se ne fa sempre poche. Io nessuna. Persi l’ultima quando mia madre uscì di casa e non ci tornò più. Eppure, quei pochi che le illusioni ancora ce l’hanno, abbinate a un cervello di prim’ordine, mi fanno una specie di invidia, che non so proprio da dove viene.

Uno così, che si portava negli occhi la luce delle sue stesse idee, lo avevo incontrato alle elementari e non me lo ero più dimenticato.

Nell’esercito ci ero finito per caso. È uno di quei posti dove ti prendono senza farsi tanti problemi se la licenza media ce l’hai o no, se tuo padre è un ubriacone, se un lavoro vero ce l’hai mai avuto o meno. Ti prendono perché carne da macello non ce n’è mai troppa in prima linea.

Io lì c’ero andato per un motivo solo: mi avrebbero fatto guidare. Uno come me quando mai avrebbe potuto prendere una vera patente e guidare qualcosa di diverso da un trattore? E invece lì avevano promesso di insegnarmi e lo avevano fatto. E con le loro macchine ero finito in Francia, in Albania e nei Balcani e mi appiccicavano medaglie alla camicia come se me ne fregasse qualcosa. Me ne fregava di guidare la loro Benelli 250 TN, una bambola che rombava e si piegava nelle curve fin quasi a terra. Ma la Benelli, dopo la Jugoslavia, decisero di non darmela più, perché ero soldato semplice, e io decisi che, se il duce diceva “me ne frego”, potevo dirlo pure io. Perciò ero sparito dalla circolazione; tiravo a campare, come avevo sempre fatto prima di arruolarmi, tenendomi la fame quando girava male.

I primi di maggio del ‘44 mi arrivò un biglietto scritto in piccolo, che mi dava un appuntamento la sera stessa, in un paese vicino. Era anonimo ma io lo sapevo, o almeno credevo di sapere chi lo aveva mandato. Non so come avevo fatto a indovinare, ma era proprio quello delle elementari e camminava come allora, a testa alta, guardando dritto avanti, con le sue illusioni imbracciate come un fucile.

Finsi di non riconoscerlo, ma lui non s’impressionò. Mi disse che lui invece mi conosceva, che si ricordava di me, dai tempi della scuola. «Vuoi stare con me?» mi domandò. Ed era chiaro che il dubbio che una domanda così pulita potesse avere più di un senso non lo aveva neanche sfiorato.

Io di sensi ne cercavo sempre più d’uno in tutte le cose, ma dissi di sì a tutti, perché non avevo niente da perdere. E la sera stessa che presi la via della montagna, mi ritrovai a guidare una vecchia camionetta sgangherata su per le strade dei miei paesi. Lui era seduto a fianco a me. Avevo un’arma al fianco, ma non mi sentivo in guerra.

Partecipai nei mesi successivi a tutte le azioni, sempre in prima linea, perché lui lontano da dove si sparava non ci sapeva stare. E se lui andava, andavo io pure, tanto di uno che arrostisse i motori c’era sempre bisogno. Così come c’era bisogno di gente con un metro di pelo sullo stomaco e la coscienza scucita, visto che in tanti salivano lassù con la bocca sporca di latte, e bisognava accoglierli e buttarli nella mischia.

Fra noi due c’era un tipo di sodalizio triste, cementato dalla tristezza di capire al primo sguardo chi sarebbe crepato senza senso. Questo c’era fra noi, e nient’altro. A me stava bene, a lui pure. E se pensavamo pensieri diversi, non era un problema, tanto non ce li dicevamo mai.

Un giorno gli dissi che quella notte a guidare la camionetta era meglio ci mettesse un altro. Glielo dissi a brutto muso, mentre lui spiegava a tutti il piano, dando per scontata la mia presenza. Lui mi guardò negli occhi. Mi guardarono anche tutti gli altri, perché la mia voce che si tirava indietro non l’avevano mai sentita. «Sei sicuro?» mi domandò lui. E io feci di sì con la testa e poi mi alzai e imboccai la porta e di seguito il sentiero nel bosco dei castagni. Mi raggiunse mezz’ora dopo a una radura dove d’estate ci crescono le more. «Che c’è?» mi chiese, senza preamboli.«Niente».

«Allora perché non ci vieni?». Alzai le spalle e non gli risposi. «Che hai in bocca?». Di nuovo non risposi. «Sono foglie di frassino?» ipotizzò. Era perspicace, lui. Lo era a otto anni, a 21 non poteva esserlo di meno. «Sono i denti vero? Hai la faccia di uno che soffre come un cane». Cosa potevo dirgli?

Era un dolore che mi portavo dietro da giorni e anziché quietarsi, a furia di ignorarlo, diventava più vorace ogni momento, si era ormai mangiato tutta la faccia, la guancia, gli zigomi su fino alle tempie, che pulsavano senza pietà. Nasconderlo era stato possibile solo perché l’irritazione e il fastidio erano la più abusata delle mie maschere. «Non va così male».

«Sei un pessimo bugiardo». Con lui. Con lui ero un pessimo bugiardo.

«Senti: lasciami perdere. Non posso guidare in queste condizioni. Ci proverei se fosse una scampagnata dell’oratorio, ma qui c’è il rischio che ci sparino addosso e per come sto ora finisce che vi faccio ammazzare tutti quanti». Finalmente, potevo comprimermi la guancia con la mano e mugolare di dolore.

«Sei un idiota. Da quanto stai messo così?».

«Tre settimane».

«E per tre settimane fai l’eroe e ti tieni un mal di denti da piangere senza dirlo a nessuno?».

«Gli eroi sono i primi a crepare».

«E allora?». Un motivo c‘era, per cui ero stato zitto, un motivo logico e preciso. «E allora?» mi ripeté con uno strattone.

«Allora a me quella poltrona imbottita, quella luce sparata negli occhi e quei trapani in fila sul vassoio mi danno il terrore». Ecco, l’avevo detto. La gente che mi tira addosso le granate mi fa un milione di volte meno paura che sedermi su quella poltrona.

«Ma dai…allora è vero che sei umano!».

Ero umano. E non la prendevo bene quando mi sfottevano. «Non ti posso sparare, ma un calcione posso dartelo».

Rise. Diamine, se mi piaceva quella risata.

«Non lo farai».

«Cosa te lo fa pensare?».

«Ti piaccio troppo». Era vero, ma l’insinuazione di per sé richiedeva un dito medio alzato. E intanto stavo lì a chiedermi in che senso lo avesse detto. In senso amichevole, naturalmente. Compagni d’armi: un legame più solido e profondo di quanto si possa descrivere a parole.

«Piantala di fare l’idiota e vedi piuttosto di stare con gli occhi aperti, stanotte. Chi ci hai messo a guidare al mio posto?». Non mi piaceva per niente l’idea di mandarlo lì da solo. Mi fece un po’ di nomi: mancava il mio, mancava anche il suo. «E tu?» domandai. «Sarai sulla prima o sulla seconda unità? Penso che dovresti stare sulla seconda. Se vi attaccassero al ponte, avresti maggiori possibilità di…».

«Io resto».

«Come?».

«Resto qui, stasera».

«Che significa?». Allargò gli occhi e spalancò la bocca, ripetendo la frase: «R-e-s-t-o. Q-u-i». Non l’avevo mai visto rinunciare a un’azione. Mai. E neanche l’avevo mai visto evitare di dare spiegazioni a domande dirette.

Mi ero appena acceso una sigaretta che lui me la rubò dalle mani, per farsi un tiro lunghissimo prima di ridarmela. «Dai, non fare quella faccia! L’avevo capito che stavi male. Loro possono cavarsela senza di me, tu sei così idiota che se non ti sto appresso muori di fame. Dimmi la verità, quando hai mangiato l’ultima volta?». Mi si incastrò in gola la boccata di fumo.

«Non sono fatti tuoi» biascicai convulso, fra un colpo di tosse e l’altro. «Ieri? No ieri castagne e carne secca, troppo duro per quel dente. L’altro ieri? O il giorno prima ancora?». Mugugnai, ma era chiaro che non mi ascoltava.

«Devi mangiare. Aspettiamo che se ne vanno tutti, e ci penso io: ti faccio un impacco d’aglio e ti preparo la pappa dolce con le mele cotte, il latte e la farina di polenta, e se è rimasto un po’ di miele ci metto pure quello. Mia nonna ce la faceva sempre, quando avevamo mal di denti. È calda e morbida». Sembrava che quel calore e quella tenerezza ce l’avesse in bocca e fra le dita. E io avrei voluto aprire le mani e sedermi lì davanti, a scaldarmi fino alle ossa. Grazie, ecco cosa avrei dovuto dire. Grazie di non farti ammazzare stasera mentre non ci sono. Grazie di restare qui con me. Grazie e basta. Facile.

«Il cibo è amore» ribatté, con la solita prontezza e una semplicità sconvolgente. Ero sconvolto, infatti. E non avevo una risposta. Non avevo neanche un cervello in ordine e probabilmente quello che pensavo lo portavo scritto in faccia; ma sono un tipo fortunato e proprio in quel momento mi arrivò una fitta brutale che mi accartocciò i lineamenti come una foglia secca.

L’indomani, dei 12 partiti in azione, tornarono in cinque, più due feriti gravi. La prima camionetta era finita giù dal ponte, perché quello che guidava si era beccato un colpo di mitra in mezzo agli occhi, da un cecchino appostato sugli alberi. Non aveva commesso errori, non era stato né stupido, né imprudente, era solo crepato. In guerra succede. Si era trovato nel luogo sbagliato, nel momento sbagliato. Al posto mio. Mentre moriva e la camionetta sbandava e finiva giù dal ponte, io ero seduto davanti al camino, nella baita che profumava di legna bruciata e di mele cotte. ll paiolo di pappa dolce ribolliva sulla fiamma e lui mi stava annodando intorno alla faccia un fazzoletto puzzolente di aglio schiacciato. E mi stordiva di parole, di storie, di quelle sue illusioni mischiate a sorrisi senza senso, con dentro la luce del futuro.

Così ingiusta è la vita. Lui crepava e io ero felice. Così è la felicità, un attimo, un’impressione, una lama di luce negli occhi che poi quando li abbassi ci vedi ancora di meno. Sono le cose che capisci da vecchio e forse avresti preferito non sapere. Non lo so se, dopo quei tempi, dopo la guerra, siamo stati di nuovo felici in quel modo. Mi sa di no. Mi sa che è impossibile. La serenità e la felicità sono nemiche giurate, dove c’è l’una l’altra non può esistere. L’hai detta tu, questa cosa. E forse è proprio vera. Vai a sapere perché, le cose che hai detto tu, e forse solo quelle, me le ricordo tutte.

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Articolo pubblicato su Confidenze n. 17 2024

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