La storia per l’8 marzo: Cicatrici che parlano

Mondo
Ascolta la storia

La storia vera di Pinky, la giovane indiana scampata alla violenza del marito, interprete anche del film Matrimoni Forzati

Storia vera di Parvinder Kaur Aulakh, detta Pinky Raccolta da Alina Rizzi

Mio padre mi aveva proposto un fidanzato, indiano come me, ho accettato di sposarlo e il primo anno è stato bello. Ma io in Italia ero a mio agio e avevo un lavoro, mio marito no. Ha iniziato a bere. Oggi, se sono sopravvissuta, lo devo solo a me stessa.
 

Sono venuta in Italia, in provincia di Brescia, con mia madre e i miei fratelli quando avevo sei anni. Siamo indiani e mio padre già lavorava in Italia. Non ho avuto problemi a integrarmi, anche perché ho fatto qui tutte le scuole e mi sono diplomata come perito aziendale. Desideravo molto studiare, frequentare l’università e trovarmi un lavoro per essere indipendente. Allo stesso tempo, seguivo le tradizioni di famiglia del mio Paese d’origine. Nonostante in India le caste siano state abolite, esiste ancora l’usanza di dare in sposa una donna a un ragazzo della stessa casta.A 17 anni mio padre mi propose di fidanzarmi con un bel ragazzo che aveva cinque anni più di me e viveva in India. Ovviamente lo scopo era il matrimonio. Non avevo la possibilità di incontrarlo o di parlargli via Skype come si fa oggi, quindi ci telefonavamo e mandavamo fotografie. Lui mi piaceva, era gentile e molto carino. Forse sono stata un po’ ingenua o immatura, ma non mi sono ribellata. Ho accettato il fidanzamento in India, con una grande festa, tutti i parenti, gli abiti tradizionali, la musica e l’allegria. Immaginavo che dopo, una volta sposati, io e mio marito saremmo tornati a Brescia e avrei ripreso gli studi universitari. Purtroppo invece non è andata così.Nel 2010, a 20 anni, dopo il diploma, sono partita per l’India con i miei genitori per sposarmi. Lui era molto dolce e felicissimo. Il matrimonio fu splendido, tipico del mio Paese e durò diversi giorni, tra cene sontuose, musica e balli. Dopo tornammo in Italia. Devo ammettere che il primo anno con mio marito fu molto bello, anche se ovviamente avevamo tradizioni diverse. Capii subito che lui non voleva che io continuassi gli studi, ma lo accettai: potevo rinunciare all’università per formare una bella famiglia, avere figli e fare un lavoro che mi piaceva. Le tradizioni indiane si facevano sentire: lui voleva che non indossassi i jeans, che non mi truccassi, che portassi il velo. Ed era troppo possessivo. Poi non conosceva l’italiano, non aveva la patente e non trovava lavoro, mentre io ero integrata, con un lavoro: per lui erano tutti motivi per offendermi e insultarmi, invece che apprezzarmi.

Presto rimasi incinta e nacque mia figlia Kiranjot, che oggi ha 11 anni. Era adorabile, ero felice, ma non avevo tenuto conto delle tradizioni che ancora vigono in alcune zone meno evolute dell’India. Le figlie sono considerate un problema, perché non lavorano, non portano profitto, bisogna preparare la loro dote e farle sposare bene, in modo che non vengano criticate e non portino disonore alla famiglia. I miei suoceri cominciarono a fare pressioni su mio marito: non erano contenti, volevano un maschio, mi criticavano apertamente. E lui la prese male. Cominciò a bere, ogni giorno di più. Era completamente cambiato da quando era nata la bimba. Poi è iniziata la violenza fisica, le botte. La nascita del secondo figlio, Abhijot, che ha ora nove anni, non ha cambiato niente. Lui mi picchiava davanti ai miei bambini, che erano terrorizzati. Non potevo più tollerare una cosa del genere, volevo tornare a essere la donna che ero. Volevo andarmene e mio fratello mi ha portata via. Anche mio padre mi sosteneva, era pentito di avermi fatta sposare con uno sconosciuto. Ma gli zii mi chiesero di perdonarlo, per il bene di tutti. Mi supplicarono. E allora cedetti e tornai da mio marito. Mia suocera fu implacabile, mi chiese di baciare i piedi di tutti loro implorando perdono, poi mi sputò in faccia. Non ho mai subito una simile umiliazione nella mia vita. Credevo però che le cose sarebbero migliorate, invece lui ricominciò con le botte. Una sera mise le mani addosso ai miei figli e lì capii che era davvero finita.

Era il 20 novembre del 2015. Durante une delle solite liti gli dissi che me ne andavo, che chiedevo il divorzio e non sarei tornata indietro. Lui era ubriaco e sotto l’effetto di stupefacenti, la sua rabbia esplose come una bomba e in un attimo scoppiò la tragedia. Mi cosparse con la diavolina liquida che usavamo per accendere il cammino mentre io urlavo disperata, poiché aveva già minacciato di uccidermi in passato. Mi teneva forte, ma riuscii a liberarmi e a scappare fuori di casa e in giardino fino al cancelletto. Ma lì mi bloccai pensando ai miei figli: se io fuggivo cosa sarebbe successo a loro? Pochi istanti e lui mi riacciuffò e accese l’accendino. Mi salvarono i vicini di casa, che si erano già allarmati per le urla mie e dei bambini. Assistettero a tutta la scena e corsero in mio aiuto, bloccarono lui e buttarono me in una vasca da bagno con l’acqua fredda. L’ambulanza arrivò poco dopo.

Ho trascorso mesi in ospedale a Genova con ustioni gravissime, che ora sono divenute segni indelebili su tutto il mio corpo e sul viso. Le cicatrici mi ricordano cosa ho rischiato e chi sono io veramente. Ho un nome, una vita, un’identità. Non sono solo un numero, tra le tante donne vittime di violenza, ormai quotidiana. Sono una donna coraggiosa. Lui invece, il mio ex marito, è stato condannato a 13 anni in Cassazione e ora è in carcere. Scontata la pena lo aspetta l’espulsione dall’Italia.

 

Uscita dall’ospedale, due mesi dopo, mi rifugiai a casa dei miei genitori, mi rimboccai le maniche e mi cercai un lavoro di poche ore, compatibile con le cure che ancora dovevo sostenere, con le ferite che avevo riportato. Volevo dimostrare a tante persone che una donna può farcela anche senza un uomo, che lui non mi aveva spezzata. Dopo un anno sono andata a vivere da sola coi miei bambini, ho comprato una macchina e ho iniziato a muovermi, accettando gli inviti di chi mi chiedeva di testimoniare la mia tremenda esperienza per aiutare altre donne.

Così è iniziato il mio impegno nelle scuole, nei centri antiviolenza, e con l’Associazione Wall of Dolls. Oggi sto meglio, cerco di truccare le cicatrici che porto sul volto, ma senza pensarci continuamente. Avrei bisogno di altri interventi chirurgici perché sono tutta bruciata sul petto e la pancia e la pelle tira e mi fa male, ma il servizio sanitario nazionale li considera interventi estetici e dovrei farli privatamente: non posso permettermelo. Ho rinunciato anche alle visite specialistiche per risparmiare e far vivere dignitosamente i miei bambini. Loro sono la cosa più importante per me, oltre il desiderio di essere d’aiuto alle altre donne che hanno vissuto la mia stessa tragedia e a tutte quelle che si sentono in trappola dentro famiglie violente. Ricevo tante chiamate ogni giorno, spesso da straniere, che mi chiedono come sono riuscita a sopravvivere a tradizioni così antiche e feroci. Io mi prodigo perché si ribellino, con coraggio e determinazione. Bisogna combattere per la propria libertà, senza mai arrendersi. È questo che insegno anche a mia figlia, che oggi è una ragazzina: voglio che sia una donna libera di scegliere cosa fare della propria vita, che sia rispettata e soprattutto indipendente. ●

© RIPRODUZIONE RISERVATA

pubblicata su Confidenze n. 9 2022

Confidenze