La voce della mia casa

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Ero una bambina quando la guerra ha fatto irruzione nella mia famiglia e nella mia città. Ma ancora adesso, dopo 80 anni, nella memoria conservo quel mondo che non c’è più

storia vera di Regina C. raccolta da Greta Bienati

 

Lo schermo della televisione mostra un palazzo sventrato da una bomba: è a Kiev, o forse nel Nagorno-Karabakh, o in uno dei tanti fronti di guerra su cui ancora si combatte. Ovunque sia, l’immagine di quella casa coi balconi divelti e il letto ormai in mezzo alla strada mi colpisce al cuore come solo i ricordi dolorosi.

Ho vissuto anch’io la guerra, quando ero bambina, più di 80 anni fa. A quel tempo, abitavo con i miei genitori vicino a Porta Ticinese. La nostra casa non era ricca, ma era bella e comoda, con tanto sole sulla ringhiera, dove mia mamma stendeva i panni e curava un vaso di begonie, coi fiori arancioni e le foglie rosso scure.

Se chiudo gli occhi, mi sembra ancora di vedere le due stanzette e il tinello, con il pavimento di marmette bianche e nere, le tendine all’uncinetto, i lettini bianchi di ferro battuto, dove dormivamo io ed Elide, la mia sorella minore. Della prima casa della mia vita, però, conservo nella memoria soprattutto i rumori: la macchina da cucire a pedale della mamma, lo scoppiettio della stufa di terracotta, le canzoni della radio, e poi il canarino che faceva compagnia alla nostra anziana vicina, la voce della mia amica Pinuccia che mi chiamava dal cortile perché scendessi a giocare, il campanello del tram, che passava proprio sotto le nostre finestre.

Da principio, la guerra non portò grandi cambiamenti. Nel cielo di Milano comparvero subito i primi aerei inglesi, ma nelle strade si diceva che la nebbia ci avrebbe protetti dalle incursioni. In effetti, per oltre due anni la nostra vita continuò più o meno come prima. Nella primavera del 1943, però, i bombardamenti arrivarono nel cuore della città e, la sera, molti milanesi si spostavano a dormire in campagna. Le scuole vennero chiuse a tempo indeterminato, e il cibo cominciò a scarseggiare, per via del razionamento.

«Andiamo dai miei parenti a Oleggio» disse mia madre. «Là non bombardano, e in campagna è più facile trovare da mangiare».

Era la metà di maggio, viaggiare era complicato e non potevamo portarci troppe cose. La mamma infilò nella sua borsa qualche libro di scuola per farci fare esercizio. Non mi permise, invece, di portare la bellissima bambola che avevo ricevuto a Natale: era bionda, con gli occhi celesti che si chiudevano quando la mettevo sdraiata. L’avevo chiamata Gisella, e la mamma le aveva fatto un vestito a fiori con la stessa stoffa che aveva usato per il mio. «In valigia si rovinerebbe» disse la mamma. «Meglio se resta a casa».

«Ma tra quanto torniamo?» chiesi. «Appena finita l’estate» rispose la mamma.

I parenti di mia madre vivevano in una piccola cascina nella campagna novarese. In campagna, in effetti, il cibo non mancava: c’erano il latte delle mucche, le uova del pollaio, il riso della borsa nera. Io e mia sorella dormivamo insieme alle mie cugine, strette in un grande letto alto e duro. Mio papà partiva la mattina presto e tornava la sera tardi, per andare a lavorare a Milano, e mia mamma, tutti i giorni, accendeva una candela alla Madonna, perché lo proteggesse.

La sera del 25 di luglio, noi bambine eravamo già a letto, quando sentimmo gridare i grandi al piano di sotto. «Mussolini è caduto, la guerra è finita!».

Scendemmo a vedere e li trovammo che brindavano. «Pochi giorni, e si torna a casa» disse la mamma, abbracciandoci.

Invece, pochi giorni dopo, intorno a mezzanotte, ci svegliò un bagliore nel cielo. Andammo tutti alla finestra: lontano, sopra Milano, si vedeva una pioggia di luci rosse e bianche. Noi bambine eravamo incantate a guardare le scie colorate che illuminavano il buio, come tante stelle comete. «Sembra un albero di Natale» disse mia sorella Elide a bocca aperta.

Il giorno dopo, mio padre andò a Milano. Tornò molto tardi, perché non c’erano più i tram, e anche i treni viaggiavano con grande fatica. Mia madre lo aspettò alzata, insieme agli zii.

«Non c’è più niente» disse la voce del papà, entrando in casa. «Solo macerie».

Le case, le chiese, i monumenti: niente era stato risparmiato. Papà raccontava piano, e ogni tanto si fermava, come per prendere coraggio. «C’era ancora la gente intrappolata sotto le case crollate» mormorò.

Della nostra casa con le begonie della mamma, le tende all’uncinetto, i lettini bianchi, era rimasto solo uno scheletro annerito dal fuoco.

“E la mia Gisella?” pensai, e mi venne da piangere. Quella che doveva essere una vacanza di un paio di mesi, diventò un soggiorno di cui era impossibile prevedere la fine. Quando arrivò l’autunno, io ed Elide ci trovammo con le gambe nude e i vestiti leggeri dell’estate. La mamma si fece dare qualche gomitolo da una contadina, barattandolo con un paio di scarpe, e sferruzzò due golfini, uno per me e uno per mia sorella. Ricavò anche due cappottini corti da una vecchia coperta della zia, tutta piena di buchi, che mascherò ricamandoci sopra delle margherite. Di quegli inverni difficili, ricordo le lenzuola fredde e umide che asciugavamo con le braci dello scaldino, la minestra di riso e prezzemolo mangiata nella scodella e i tedeschi vestiti di grigio, che venivano a portarsi via le mucche dello zio.

A Milano non avevamo più niente. Perciò, alla fine della guerra ci trasferimmo a Novara, dove ripresi le scuole e papà trovò lavoro.

Pochi mesi dopo la Liberazione, però, tornammo tutti insieme a Porta Ticinese. Milano era irriconoscibile: case sventrate, ruderi anneriti dagli incendi, strade ingombre di rovine. Là dove una volta c’era la nostra casa, le macerie erano state già rimosse e, al loro posto, c’era uno spazio grande e vuoto, che mi fece un’impressione enorme. «Dove hanno portato la nostra casa?» chiesi alla mamma.

Ebbi la risposta alla mia domanda parecchio tempo dopo, quando tornai a Milano al principio degli anni Sessanta, insieme a mio marito e ai miei figli. Andammo a vedere un appartamento in zona San Siro e, dalla finestra della cucina, oltre le case, vidi il profilo una collina.

La nuova Milano era molto diversa da quella della mia infanzia, ma ero sicura che colline, nella mia città di pianura, non ce ne fossero mai state. «Sono tutte le macerie dei bombardamenti» spiegò il nostro accompagnatore. «Le hanno messe in una vecchia cava e l’hanno riempita fino a fare una montagna».

Fu proprio quella vista a farmi decidere di acquistare quell’appartamento. Mentre cucinavo, guardavo la montagnetta di San Siro, come la chiamano i milanesi, e pensavo alla mia bambola, al canarino della nostra vicina, alla mia amica Pinuccia, che non sapevo che fine avesse fatto. Lì sotto c’era tutta la mia infanzia, che la guerra si era portata via, cancellando per sempre un intero mondo. In quell’appartamento di San Siro ho vissuto per tanti anni. I miei figli sono cresciuti, poi mio marito è venuto a mancare, e io sono diventata troppo anziana per restare sola. Mio figlio maggiore, allora, mi ha portato ad abitare con lui. Dal suo bell’appartamento in zona Maggiolina, la montagnetta di San Siro non la vedo più. Però, quando ha un po’ di tempo, mi accompagna su quella collina, che adesso è un bel parco, con tanti alberi. Per me è come andare sulla tomba di una persona cara. Se chiudo gli occhi, mi sembra ancora di sentire la macchina da cucire e la stufa, la radio e il canarino, la voce della Pinuccia e il campanello del tram. La voce della mia casa. La voce della mia Milano.

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