Le donne in rosa e il dragon boat

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Nel mese della prevenzione del tumore al seno la storia delle Pink Amazons, che combattono il cancro a colpi di pagaia

L’ho scoperto dopo che mi sono operata di tumore al seno: stare fianco a fianco con altre donne sulla barca ci permette di condividere emozioni e traguardi. Sono tanti i benefici psicofisici che ne derivano. E pagaiando il male scivola via

storia vera di Annalisa Pirastru raccolta da Rossana Campisi 

 

Sono Annalisa, una madre, una moglie, una docente sessantenne della scuola primaria, la presidente di un’associazione di donne operate di tumore al seno e la capitana delle Pink Amazons, le Amazzoni rosa che con le loro pagaie vogliono accarezzare il cuore di tutte le donne e dei medici, fisioterapisti e personale sanitario affinché possano aiutarle a far conoscere lo sport che praticano: il dragon boat. Sono nata e cresciuta a Cagliari e a 25 anni mi sono trasferita in un piccolo paese della provincia di Milano per seguire l’altra metà del mio cuore. Mi sono laureata in Beni culturali a Milano ed è qui che sono nate le mie due figlie: Ilaria e Beatrice. Ho sempre dedicato il mio tempo alla famiglia, alla scuola, alla lettura, allo sport e, per ben 15 anni, all’attività di presidente della biblioteca del mio paese di adozione. Nel 2015 eseguendo il consueto controllo mammografico, riservato alle donne dai 50 anni in poi, ho provato cosa significhi sentirsi a un passo dalla morte. Ho subito pensato che avrei seguito la sorte di mia madre, morta di tumore al seno e di mio fratello, morto di tumore al cervello a soli 23 anni. L’intruso, come io l’ho definito, era così ben nascosto che per scovarlo ho fatto penare medici e radiologi e proprio uno di loro mi ha chiamata alle sette di sera per darmi la notizia. Nel mio percorso di cura mi sono state vicino la famiglia e tante amiche, quelle di sempre e quelle che ho conosciuto nell’associazione di cui faccio parte.

Gli interventi, la chemioterapia prima e la radioterapia poi, sono durati un anno. La paura non è mai sparita, si fa viva ancora, prima dei controlli di routine. Ho imparato però a non nascondere le mie ferite, ma anzi a valorizzarle e a mostrarle per non sentirmi vinta e sopraffatta dal tumore, per rinascere ogni giorno e cominciare una nuova stagione dell’esistenza.

Prima che mi riscontrassero il carcinoma mammario non conoscevo il dragon boat, ma una serie di circostanze fortuite ha fatto sì che mia sorella incontrasse a un evento le Pink Karalis, una squadra di dragon boat di Cagliari, ed è proprio grazie a loro che ho conosciuto le Pink Amazons di Milano, un’associazione nata nel 2013 grazie a sette donne che iniziarono a pagaiare all’Idroscalo di Milano, allenate dagli atleti del Dragoscalo club.  Mi sono innamorata immediatamente di questo sport e, terminate le terapie, ho iniziato a praticarlo.

In cosa consiste? Pagaiare in gruppo su una grande canoa di origine cinese lunga 13 metri, slanciata e colorata con la testa e la coda di drago, scelto perché simbolo di benessere psicofisico. La dragon boat può ospitare fino a 20 persone che pagaiano al ritmo scandito da un tamburino seguendo la rotta indicata dal timoniere.

Il movimento ripetuto della pagaiata, studiato scientificamente nel 1996 dal dottor Donald McKenzie in Canada, aiuta a contrastare il gonfiore al braccio che molte donne operate al seno hanno come conseguenza dell’intervento: diciamo che è una sorta di fisioterapia naturale. Non è però solo riabilitazione fisica è anche un’attività sportiva aggregante che aiuta corpo e mente a rimettersi in gioco, è un sostegno psicologico per ridare forza e fiducia. Stare “fianco a fianco” sulla barca ci permette di condividere emozioni e traguardi e instaurare nuove amicizie. La maggior difficoltà che incontriamo è quella di non riuscire a coinvolgere tante donne, nonostante l’uso dei social.

Da tre anni, nel mese di ottobre dedicato alla prevenzione, partecipiamo al ”Bra day” organizzato dall’ospedale Humanitas di Rozzano per portare la nostra testimonianza. Abbiamo collaborato anche con un progetto dell’ospedale San Raffaele dedicato alle donne in cura per patologie oncologiche e siamo affiliate a Europa Donna, l’associazione che tutela i diritti delle donne affette da tumore al seno.

Attualmente le socie sono una quarantina, ma non tutte pagaiano perché c’è chi ha paura dell’acqua, chi non può farlo perché è ancora sotto terapia e chi non ha ancora trovato il coraggio di provare. Il timore più diffuso è quello che la barca si possa capovolgere, ma noi rassicuriamo sempre tutte, perché è praticamente impossibile in un bacino circoscritto come quello dell’Idroscalo. Qualcuna teme che il movimento possa influire negativamente sulle protesi però posso dire che è un timore infondato. Comunque, consigliamo sempre di confrontarsi con il proprio medico prima di salire in barca.

Il motto di tutte le donne in rosa è: “Il tumore si sconfigge a colpi di pagaia”. Solitamente non abbiamo bisogno di tanti giri di parole per rassicurare le aspiranti Pink, basta vederci sorridenti e serene per convincerle che si ha solo tanto da guadagnare e niente da perdere. I nostri allenamenti si svolgono all’Idroscalo tre volte a settimana: martedì e giovedì sera e il sabato mattina. Fino allo stop per la pandemia, abbiamo preso parte a tanti eventi organizzati anche all’estero, come la trasferta ad Annecy in Francia. Speriamo di tornare presto a incontrare le altre squadre che in Italia sono più di 30 e nel mondo oltre 200. Di bellissimi momenti vissuti sul “dragone” ce ne sarebbero tanti da raccontare: come pagaiare con la neve che scende, con la nebbia fitta, con le pagaie che rompono il ghiaccio, ma forse il più bello è stato a Venezia, in occasione della Vogalonga, non solo perché ho attraversato insieme alle amiche venete il Canal Grande e il Ponte di Rialto, con le persone che al nostro passaggio ci applaudivano, ma soprattutto perché a bordo c’era Anna, un’amica che dopo due settimane ci ha lasciate per sempre. La nostra squadra riunisce persone con storie ed età diverse. C’è chi continua le terapie a vita perché metastatica, c’è chi ha subìto l’intervento tanti anni fa e si considera guarita e fuori pericolo, c’è chi, come me, continua la terapia ormonale ormai da sei anni. L’età media? Si va dai 45 ai 62. In alcune squadre ci sono ragazze più giovani, mentre in altre troviamo atlete di 70 e anche 80 anni. In squadra la gran parte è single: molti partner si sono allontanati proprio alla scoperta della malattia. Ma pagaiando tutto scivola sull’acqua, o sulla pelle. ● © RIPRODUZIONE RISERVATA

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