L’uomo albero di Massimiliano Frezzato

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Una fiaba con la poesia del tratto del disegno, una metafora sulla sfruttamento della natura e la sua distruzione

Partiamo da un assunto: da bambina odiavo le favole. Le trovavo orrende e anche un po’ sfigate. Pagine e pagine, oppure almeno un quarto d’ora di mamma seduta accanto a te, di avventure tristissime, negazioni, sottomissioni, fughe, lacrime e poi una fine raffazzonata, mai all’altezza dello svolgimento, comunque brevissima, per risolvere e volgere al meglio. Due righe di apertura alla felicità e poi basta, poi e vissero tutti felici e contenti, poi Fine. Lieto, ci hanno sempre voluto far credere. Ma dove c’è una pagina che è l’ultima o una mamma che si alza e va via non esiste altro, solo l’invito ad immaginare oltre.

Fino allo scorso settembre non avevo mai sentito parlare della casa editrice Lavieri. Poi al festival della letteratura indipendente di Fara Sabina un fantastico libraio indipendente mi ha fatto sfogliare alcune cose e mi sono innamorata della loro delicatezza e attenzione, della qualità del prodotto e della bellezza del messaggio veicolato. Le sue produzioni meritano l’incanto di occhi di bambini di ogni età (consiglio anche I racconti di Punteville, ovvero le mirabolanti cronache degli uomini che viaggiano nelle città della punteggiatura di Gianluca Caporaso e Rita Petruccioli).

Massimiliano Frezzato, che ha scritto e disegnato, possiede la poesia del tratto. Ogni suo disegno è come una trasfusione di sangue perfetto: una bellezza senza buonismo, un’infanzia perenne senza infantilismi, la narrazione parallela di parola e immagine. Per il lettore bambino c’è una carezza, i colori tenui, la dolcezza dello stile, il rispetto per ogni forma di vita. Per il lettore adulto c’è un monito: la vetta non è mai un punto di arrivo e la vittoria neanche.

L’Uomo Albero fa parte di una collana dal nome bello e spaventoso, Maledette Fiabe, e ci regala una metafora pesante, necessaria. La guerra tra topi e rospi, lo sfruttamento della natura, la distruzione di quest’ultima, la supponenza di chi non ha radici nella terra ma è mosso solo dall’egoismo, le colpe di vittoriosi e perdenti, “buoni e cattivi”.

L’Uomo Albero darà tutto se stesso a chi nel nome della propria fragilità arriverà ad ucciderlo pian piano, inesorabilmente, spietatamente.

Ma la vittoria di chi non ha radici dura lo spazio di una guerra, di poche stagioni, di un cielo nero dopo l’ardore di un fuoco. Cenere, dopo la fiamma.

I topi hanno vinto, i rospi sono stati sconfitti. Ma è il deserto, tutto intorno.

Frezzato ha fatto un grande regalo a chi, come me, non ha mai amato le fiabe: la pagina in più dopo il lieto fine che tanto lieto non è.

“Quando, dopo cent’anni, tornò a brillare il sole, sulla Terra dei Topi c’erano poche cose. I resti di un castello, una vecchia corona, e un giovane Alberello che era nato appena”.

 

 

Massimiliano Frezzato, L’uomo albero, Lavieri

 

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