Mamma, mi faccio prete…

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Spesso in famiglia l'idea di avere un figlio prete non viene accettata con gioia, ma con rassegnazione. Ne parliamo su Confidenze mentre qui Don Luigi Poretti vi racconta come andò quando comunicò la sua scelta ai genitori

Come reagireste se vostro figlio un giorno vi comunicasse di voler farsi prete?

Diciamo la verità, tra gli scenari possibili, avere un figlio sacerdote (o una figlia che diventa suora) non è il massimo dell’aspirazione per un genitore. E per quanto si possano condividere principi e fede cristiana, avendo magari anche contribuito alla formazione cattolica dei propri ragazzi, quando un giovane annuncia in casa che entrerà in seminario, il senso di sconfitta e delusione che si prova per la sua rinuncia alla vita è inevitabile.

Una volta nelle famiglie era molto frequente che ci fosse un parente in abito talare, entrare in seminario era un modo per garantirsi un’istruzione, e al di là della vocazione, anche un mezzo per assicurarsi sussistenza in tempi non economicamente floridi. Ma oggi, con la crisi delle vocazioni e il problema non risolto, ma sempre più sentito, dell’obbligo del celibato nella Chiesa, la vita ecclesiastica viene vista da tutti più come un’esistenza di privazioni che di gioia.

Capita ancora di sentire qualcuno pronunciare, magari  davanti a una delusione amorosa, la fatidica frase: «Ora basta, mi faccio prete o divento gay» alludendo alle due condizioni esistenziali che comportano la rinuncia a crearsi una famiglia.

Anche questo è retaggio di una cultura che ci ha trasmesso l’idea del prendere i voti come un atto di fuga dal mondo, da ogni possibile realizzazione nel lavoro, senza tenere conto che tra i discepoli della Chiesa esistono infinite sfumature e che un conto è farsi monaco di clausura, un altro è andare a portare la parola di Dio nelle missioni in Africa o in giro per il mondo.

Conosco tanti sacerdoti che hanno relazioni sociali e una vita attiva, molti di loro lavorano, insegnano nelle scuole, si confrontano con i ragazzi negli oratori. Altri hanno speso una vita accanto ai più deboli, agli emarginati e a conti fatti, credo che le loro esistenze siano molto più ricche e piene di quelle di tanti di noi.

Detto questo, sarò sincera, se un giorno mio figlio mi dicesse che vuole farsi prete, farei molta fatica a capire la sua scelta e lo inviterei a pensarci bene, a valutare quanto sia forte la sua motivazione, soprattutto quando sarà messa alla prova del tempo e della solitudine.

Solo un grande atto d’amore che superi ogni egoismo familiare e ogni legittimo desiderio di vedere continuare la propria stirpe, può fare accettare a un genitore questa decisione.

Del tema parliamo su Confidenze nella storia vera Il tesoro del campo, raccolta da Giovanna Fumagalli, dove Ivana, la protagonista racconta lo smarrimento e il rifiuto provati quando il suo unico figlio le comunicò di voler entrare in seminario. E se volete sapere dalla viva voce di un prete com’è andata quando annunciò in famiglia la decisione di prendere i voti, leggete qui di seguito cosa ci racconta Don Luigi Poretti, nostra voce e commentatore della Rubrica dell’Anima.

 

Avevo undici anni quando ho detto ai miei genitori che desideravo entrare in Seminario. Mia mamma, che era molto credente e praticante, ne fu molto contenta, mentre il papà, che era un “sano anticlericale”, espresse le sue perplessità, soprattutto perché secondo lui ero troppo piccolo per prendere una decisione così importante. La sera sentii che nella loro camera da letto ne parlarono a lungo e probabilmente continuarono a confrontarsi anche nei giorni seguenti. Dopo qualche settimana fu la mamma che mi pose diverse domande, su come mi era nata quell’idea, se ne avevo parlato con il giovane prete dell’oratorio, se sapevo com’era la vita del seminario e cosa mi aspettava in quei lunghi anni di studio e di preghiera. Alla fine mi confidò che il papà non era molto convinto, ma che aveva accettato che io cominciassi il cammino previsto per chi aveva il desiderio di diventare sacerdote, ma che era una prova, che avrei potuto interrompere in qualsiasi momento. 

Allora era usanza che la formazione seminaristica iniziasse subito dopo le scuole elementari e prevedeva una vita austera, con una disciplina severa. Non a caso quell’anno iniziammo in più di cento ragazzini e di questi solo una ventina diventammo preti, dopo aver frequentato le scuole medie, il Liceo classico e cinque anni di studi teologici. 

Ora quelli che allora si chiamavano “seminari minori” non esistono più e solo chi è almeno maggiorenne viene accolto per la verifica della vocazione e per gli anni di formazione. Penso che il parere di mio papà fosse fondato, anche se alla fine fu contento anche lui della mia scelta. Solo quando ho compiuto 50 anni mia mamma mi ha raccontato della mia nascita con un parto difficoltoso e che mentre rischiavo di morire lei mi ha offerto al Signore”.

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