I morti si capiscono sempre dopo

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Non poter rivedere i morti, anche solo per 5 minuti, è una vera condanna: perché potremmo dir loro quella cosa scoperta troppo tardi. A me è successo con mia madre

Quanto ero insofferente a certe cose che mi dicevano i vecchi da bambina, e mi sembravano solo noiosi luoghi comuni, ma poi si sono rivelate inesorabilmente vere. I nonni dicevano “I morti si capiscono sempre dopo”.

Ho scoperto nel corso della vita la crudele verità di questa frase. È vero, dopo. A volte molto dopo, a distanza di decenni. Per me il rapporto con mia madre era liquidato da tempo: lei era un’anaffettiva, e l’amore materno lo avevo preso da mio padre, che era un maschio-madre. Poi un giorno mentre non sapevo di pensarci, c’è stata una piccola rivoluzione dei ricordi. E ho capito che io non l’avevo mai vista come una madre, ma come un personaggio letterario. Di fatti poi l’ho messa nei libri, è stata una grande musa comica, una maschera del mio teatro.

Aveva una smania di potere da Caterina di Russia, era nata con la stoffa della zarina, ma imprigionata in una casalinga degli anni 50. Fra pentole bigodini e marmocchi, il suo ego imperiale regnava sulla famiglia. Aveva una natura d’artista, era molto creativa, per esempio negli scherzi che faceva per spaventarmi. Esempio. Mi chiama in camera sua. Ma quando arrivo è riversa sul letto, immobile, con gli occhi spalancati.

  • – Mamma, mamma|

Niente. Restava immobile. Un bambino sa cos’è un morto, anche se non ne ha mai visto uno. Scoppiai a piangere, gridavo mamma, mamma! E lei, ferma…finché non ce la fece più e scoppiò a ridere, a ridere…lo scherzo era riuscito. Senza cattiveria, lei lo trovava davvero esilarante, e pensava che mi sarei divertita anch’io. Ci rimase male perché ero rimasta rigida e muta, e mi portò a comprare il gelato. Incontravamo i vicini, ci si fermava per due chiacchiere, e lì ricevevo da lei un grande insegnamento: non vantarsi, mai. Lei si vantava, si vantava, e i bambini sanno che vantarsi è umiliante, anche se nessuno glielo insegna.

Era una grande narratrice, specie di storie horror, di cui i bambini vanno pazzi. Ci dava molti schiaffi. Ma aveva dei lampi di follia che la nobilitavano. Considerava una missione sapere i minimi fatti della famiglia, specie quelli del marito. E in un paese di 1.000 anime, ancora mezzo bombardato dagli americani, faceva seguire il coniuge da un paleoinvestigatore sperando che la tradisse, per potergli fare una scenata. Adorava il palcoscenico, e  a volte era spiritosissima. Io ero molto romanzesca e anche lei, e in quella rivoluzione dei ricordi ho pensato che non ci siamo mai conosciute, e mi è venuto un rimpianto. Non si è mai troppo vecchi per capire i sentimenti. Mi accorgo che non sono stata capace di tenerezza. Di sorridere della sua vanità, dell’innocenza della sua cattiveria. Ci sarebbe stata la chiave magica, l’umorismo, che è una forma della grazia. E lì ci saremmo intese, e forse perfino divertite, e volute bene. Ma mi ero fatta la mia piccola verità congelata, e ci sono voluti vent’anni perché si rompesse il ghiaccio.

Per fortuna che non credo in Dio, se no sarei furibonda. Ha inventato la morte- l’addio eterno- e questa condanna di non poter rivedere i morti, anche una volta sola, per 5 minuti, il tempo di dire quella cosa che scoprimmo quando era tardi…beato chi crede al Paradiso, dove c’è tutta l’eternità per spiegarsi, e andare per mano.

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