Organizzare un picnic? Non è nelle mie corde

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Passione di grandi e piccini, il picnic è sempre stato il mio incubo. E se l'ho detestato da bambina, continuerò a farlo anche quando diventerò nonna

Settembre in 70 picnic, un articolo che trovate su Confidenze in edicola adesso, segnala un bel po’ di mete per un pranzo al sacco. Sulla carta, un’idea bellissima. A mio parere personale, un vero incubo. Sin da piccola, infatti, ho sempre detestato i picnic. E l’idiosicrasia mi ha accompagnato in tutte le età.

Da bambina ricordo che in montagna mia mamma ci svegliava garrula con il programma di una passeggiata zaini in spalla, che sarebbe culminata nella sosta in vetta per mangiare seduti sull’erba. Considerando che non mi è mai piaciuto camminare in salita, tanto meno zavorrata con panini e borracce, non capivo perché non potessimo stendere la nostra bella tovaglia a due passi da casa e trascorrere i pomeriggi in panciolle.

I rapporti con le colazioni al sacco non sono migliorati quando, già grandicella ma ancora sotto la giurisdizione genitoriale, ho iniziato a passare le giornate con gli amici. Peccato che quelli che mi ero scelta erano tutti posseduti dal demonio del picnic. Quindi, per non rimanere sola come un cane, ogni volta che scattava l’appuntamento con l’ambito pranzetto sotto il cielo fingevo di essere in preda alla più felice euforia.

E visto che la mamma barattava la mia voglia di indipendenza con l’obbligo di organizzarmi da sola, invece dei panini infilavo nella sacca quello che c’era in casa. Cioè, gli avanzi della cena precedente. Così, quando gli amici tiravano fuori goduriosissime michette imbottite di prosciutto fresco fresco, io srotolavo dalla stagnola una coscia di pollo arrosto dalla pelle rinsecchita. Un uovo sodo già sgusciato. Un pomodoro tagliato a metà. Un frutto che nel tragitto era diventato nerastro e molliccio.

Poi, sono arrivati l’adolescenza, i primi scampoli di libertà e la vaga possibilità di gestire la paghetta settimanale come meglio credevo. Ma se la mia idea era quella di sparamela al bar all’ora dell’aperitivo per adocchiare i ragazzi più grandi ai quali iniziavo a interessarmi, gli amici (sempre gli stessi e sempre drammaticamente sportivi) erano invece propensi a guadagnare mete mai raggiunte con i genitori (era il loro modo per affrancarsi dalla famiglia) e rifocillarsi in riva a bucolici ruscelli piazzati a casa di dio.

A quel punto, ho adottato la strategia di unire l’utile al dilettevole. Perciò, mi inerpicavo sbanfando come un mantice su per massacranti sentieri, spinta solo dal premio che mi sarei concessa all’arrivo: una sleppa enorme di focaccia trasudante Nutella, innaffiata da un litro di Coca-Cola.

Proseguendo negli anni, sotto questo profilo ci sono stati i più belli della mia vita. Ovvero, quelli in cui i picnic non erano minimamente contemplati. Periodo d’oro che, però, è finito con l’avvento dei figli e il loro desiderio (condiviso all’unisono dai figli delle amiche) dei pasti consumati sui prati.

Come tirarsi indietro di fronte a quei facciottini imploranti? E come non fingere di sbavare in previsione della mirabolante gita con annessi gastronomici? Impossibile. Quindi, mi sono ribeccata la trafila della spesa dedicata (pagnottelle già tagliate, affettati, nauseabondi succhi di frutta e l’immancabile borraccia di alluminio con l’acqua), ho rimesso lo zaino in spalla e sono ripartita alla volta di eremi sparsi nel nulla dei quali, amante della gente intorno, non me ne fregava niente.

Ora, tutto questo è acqua passata, Eppure, sono comunque dilaniata. Perché da un lato c’è il mio grande desiderio di diventare nonna al più presto. Ma, dall’altro, tremo all’idea che i nipotini possano ripropormi un picnic. Per fortuna, non sono del tutto deficiente e mi sto preparando con largo anticipo a educare un eventuale frugoletto. Il quale verrà con me solo al mare. Su una spiaggia con ristorante, dove potrà mangiare un’ottima impepata di cozze con le gambe comodamente sotto al tavolo, coperte da un elegante tovagliolo in stoffa.

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