Southworking vista collina

Cuore
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Ripubblichiamo sul blog una delle storie preferite del n. 36 di Confidenze

 

Avevo lasciato il mio paesino in Basilicata spinta dall’ambizione e non avevo proprio intenzione di tornarci. Eppure la pandemia, che ha sbaragliato molti piani, ha aperto anche nuove prospettive. E ho colto un’occasione preziosa

STORIA VERA DI MICHELA M. RACCOLTA DA ANNA BALTIA DELFINI

 

Comincio subito col dire che non sono mai stata una tipa troppo paziente. Non mi è mai piaciuto aspettare niente e nessuno, sono andata incontro a tutto io, per fare prima. Il lavoro innanzitutto, perché da dove vengo io, in Basilicata, di quello ce n’è sempre stato poco e se avevi un po’ d’ambizione, il minimo che dovevi fare era muoverti. Io l’avevo fatto prestissimo, a 18 anni, nonostante le grida e i rimbrotti di mia madre che pensava mi sarei “persa” nella grande città del Nord. All’inizio a Milano in effetti un po’ smarrita mi sentivo, ma ero anche affascinata dal suo ritmo frenetico che ben si accordava con il mio spirito intraprendente.

Mi ero iscritta alla facoltà di Economia e commercio, una cosa che per i miei genitori era tanto comprensibile quanto il funzionamento di una navicella spaziale. Ma io ero andata dritta come un treno, sono sempre stata così, quando mi metto in testa una cosa non mi ferma nessuno. «Michela! Ma mangi?». Continuava a ripetermi mia madre al telefono, perché dopo la fase di contrarietà era tornata presto alla solita preoccupazione che mi “sciupassi”.

A Milano in effetti non avevo tempo per cucinare, mi ero trovata un lavoro per pagarmi gli studi, presso una piccola agenzia che si occupava di servizi per strutture alberghiere. Era stata una buona palestra per me, avevo imparato a utilizzare diversi software ed ero entrata in scioltezza nel mondo della comunicazione d’impresa che poi sarebbe stato il mio futuro. Mattoncino dopo mattoncino in cinque anni avevo terminato gli studi e iniziato uno stage presso una grande multinazionale. L’esperienza non era stata fra le migliori e mentre perdevo chili e speranza, in me s’era quasi affacciata timidamente l’idea di mollare tutto e tornare a casa, al sole della Basilicata.

Già, ma che avrei fatto laggiù? Non avevo avuto il coraggio di confessare ai miei quel pensiero così cupo per me, ma alla mia amica Giada sì. Lei era rimasta giù, si era sposata e aveva già sfornato una squadra di calcetto. Non potevano essere più distanti i nostri mondi, eppure continuavamo a capirci come e forse anche di più di quando eravamo solo due adolescenti. «Be’ che fai molli adesso?». Mi aveva sgridata al telefono, ma io ero sempre più abbattuta.

«Perché adesso che succede di speciale?».
«Hai finito gli studi, sei entrata in una grande società, non puoi lasciare».
«È solo uno stage».
«È uno stage in una grande società».
«Che mi fa schifo. Non mi piace niente di questo lavoro, preferivo quasi quello in agenzia».
«Ma non dire sciocchezze! È solo la prima esperienza… Datti tempo» mi aveva esortato.

Avevo annuito piano senza che Giada potesse vedere la mia espressione così triste oltre la cornetta. Se quello stage era il preludio della mia futura esistenza milanese, tanto valeva tornarmene in paese a morire di noia.

Ancora non sapevo che di lì a pochi giorni avrei conosciuto il mio futuro compagno, avvocato di una delle imprese la cui rete faceva capo a quella in cui lavoravo io, a dire il vero con poco sforzo, visto che al massimo inserivo gli appuntamenti in agenda e cambiavo l’acqua alle piante nell’ufficio del top manager.

Ci eravamo trovati da subito. Fabrizio era un tipo affascinante e non ci aveva messo molto per conquistarmi. Mi aveva anche proposto un lavoro in un’altra delle società del gruppo: all’inizio non volevo accettare, temendo di attirarmi le ire del mio capo attuale, che magari avrebbe potuto ostacolare la mia carriera altrove. Galoppavo troppo con la fantasia. Al mio capo della ragazza che gli innaffiava le piante non interessava nulla.

Decisi lo stesso di terminare lo stage per non scontentare nessuno, piante incluse, e me ne andai solo a fine contratto. Il nuovo lavoro era molto più interessante del primo, finalmente facevo qualcosa di attinente ai miei studi. Nel giro di pochi anni ero diventata una professionista a tutti gli effetti, a tal punto che potevo permettermi di staccarmi dalle dipendenze dell’azienda e lavorare in autonomia come consulente.

Mi occupavo soprattutto di campagne promozionali, in buona sintesi facevo in modo che le aziende e il loro prodotto, comunicassero ai consumatori un’immagine di affidabilità. Un lavoro che mi piaceva da matti.

Nel frattempo io e Fabrizio eravamo andati a convivere. Da principio era stato tutto meraviglioso, avevo il lavoro dei miei sogni e anche la casa dei miei sogni, un delizioso attichetto a Brera, eredità del nonno di Fabrizio che mi faceva sentire letteralmente al centro del mondo. Forse troppo. I viaggi e gli spostamenti miei e di Fabrizio con il tempo erano diventati tali che spesso per settimane riuscivamo a vederci unicamente in videochiamata.

Le nostre carriere prendevano il volo, ma la nostra relazione colava a picco. Non c’era un vero motivo d’attrito, semplicemente ci eravamo abituati così tanto a stare distanti che alla fine negli unici momenti in cui potevamo stare insieme, finivamo per litigare furiosamente e sempre per lo stesso motivo: «Tu non ci sei mai». Una frase che ci rimbalzavamo a vicenda ormai da mesi.

Era finita così. Fra un continuo rinfacciarsi di non esserci, finché ci eravamo arresi alla triste verità: semplicemente, stavamo meglio da soli che insieme, non ci mancavamo. Forse perché non ci eravamo mai appartenuti.

«E dove vai adesso? Ma mangi?».
Mia madre al telefono non faceva che aumentare la mia ansia. Come faceva a chiedermi se volevo che mi inviasse un paio di salsicce e due conserve di melanzane adesso che la mia storia con Fabrizio era finita e non sapevo dove andare a vivere? Ma era solo l’inizio di un vero incubo. Io e Fabrizio ci eravamo lasciati a fine febbraio e a marzo era subentrato il lockdown. Un disastro. Perché io non avevo ancora trovato un appartamento, quindi abbiamo dovuto forzatamente convivere quando nessuno dei due lo voleva più. E rischiavamo di finire per odiarci, altroché ritrovare l’amore, quello succede solo nei film. Avevamo dovuto accettare quella convivenza forzata per cinque interminabili mesi. I più lunghi della mia vita. Senza contare che ogni due per tre mi toccava perfino ascoltare le conversazioni telefoniche di Fabrizio con la sua nuova fiamma, manco a farlo apposta un’altra stagista! Si chiudeva in bagno a raccontarle quanto sarebbe stato bello rivedersi a fine emergenza e quanto le mancava e come era “devastato” dal dover condividere la “sua” casa con la sua ex. Ormai lo detestavo. In realtà mi domandavo cosa ci avessi mai trovato di interessante. In fondo ero stata solo una delle sue conquiste, non certo l’ultima e con ogni probabilità non lo sarebbe stata nemmeno la tipa con cui adesso passava le ore al telefono in bagno.

Avevo cercato in ogni modo un’altra sistemazione, ma se trovare casa a Milano è difficile in tempi normali, figurarsi durante una pandemia mondiale. La difficoltà di trovare un appartamento si sommava all’impossibilità di visitare le case in zona rossa. Di quando in quando i tour virtuali sopperivano al problema, ma alla fine per un motivo o per l’altro la casa non andava bene. Di una cosa ero certa in ogni caso: dovevo andarmene. Ormai lavoravo da oltre un anno in autonomia, facevo da consulente a diverse realtà e con l’arrivo delle restrizioni anti Covid i molti viaggi di lavoro si erano trasformati in videochiamate, con il risultato di produrre un risparmio di tempo ed energie per tutti, al punto che anche con il graduale ritorno alla normalità, quella pratica era rimasta. Di fatto, non avevo più bisogno di un ufficio dove svolgere sistematicamente il mio lavoro, mi bastavano un pc e una connessione a internet.

Un giorno, mentre navigavo online alla ricerca come al solito di una nuova sistemazione, mi ero imbattuta per caso in un
articolo in cui si parlava del neonato esercito degli smart worker, o lavoratori da casa, di cui anche io adesso facevo degnamente parte. Nel pezzo si evidenziavano i vantaggi della nuova tipologia di lavoro a distanza, sottolineando però anche la pericolosa tendenza alla perdita di socialità. Ecco che allora era arrivata la proposta di questo gruppo di giovani smart workers del sud Italia di ritornare alle origini, letteralmente. In pratica ciascuno di loro era rientrato nella propria regione d’appartenenza, continuando il proprio lavoro in un luogo fisicamente diverso da quello del datore di lavoro.

In buona sintesi, il ritorno a casa dei cervelli in fuga. L’idea mi era piaciuta tantissimo e d’altro canto si accordava perfettamente alla mia situazione di fuggiasca dal nord: avevo infatti deciso di tornare momentaneamente dai miei in attesa di trovare una nuova casa.

Impacchettate le ultime cose, ero quindi rientrata in Basilicata. Grazie all’adesione al progetto, che permetteva a chi tornava di poter usufruire anche di tutta una serie di sconti sul territorio, avrei potuto godere di molti servizi, dall’acquisto di beni ai pasti fuori casa nelle piccole trattorie della zona che, con buona pace di mia madre, mi avrebbero fatto riguadagnare qualche chilo. Far parte di questo nuovo movimento di rientro, quasi una migrazione di ritorno, significava riscoprire un legame con la nostra terra. E soprattutto avevo colto l’opportunità di contribuire a “riabitare” uno dei borghi del meridione soggetti allo spopolamento.

Sì perché per molti quei luoghi che conoscevo bene fin dall’infanzia, si prospettava da tempo un futuro cupo, visto che le nuove generazioni fuggivano altrove lasciando strade e stanze vuote. Proprio come avevo fatto io. Adesso però avevo la preziosa opportunità di contribuire a un cambio di direzione.

Così ero entrata in contatto con Davide, un ragazzo che cercava un affittuaria per il suo casolare di campagna, ad appena 15 km da casa mia. Mia madre, come al solito, non aveva capito perché mai dovessi andare a vivere in una casa diversa da quella in cui ero nata, ma alla fine si era rassegnata, sicura che mi avrebbe almeno vista per le domeniche e allora ci avrebbe pensato lei a farmi mangiare!

Avevo chiamato Davide e mi ero accordata con lui per un incontro al casolare. Lo avevo raggiunto in macchina, godendomi la calma del paesaggio che scorreva oltre il vetro dell’auto. Conoscevo quel paesino, dovevo esserci stata da giovane con Giada a qualche festa. Quando avevo rivisto la mia amica, raccontandole del casolare, subito le era parso di ricordarsi anche il nome di quel Davide, uno che sicuramente conosceva ma non si ricordava bene.

«Ciao Michela!».
Davide mi aveva accolto sorridente. Non appena lo avevo visto mi aveva comunicato un’aria familiare ma non ero riuscita lo stesso a capirne il motivo.
«Non ti ricordi?».
«Dovrei?».
«Terza B, Liceo Galilei».
«Sono andata a scuola lì».
«Infatti, pure io».
Era scoppiato a ridere, io ero nella sezione A eppure questo Davide non lo ricordavo. Poi mi aveva detto il cognome e improvvisamente si era accesa la lampadina. Accidenti se era cambiato!
«In effetti, ho perso 20 chili».
«Complimenti. Non ti avevo riconosciuto». «Non sei l’unica, tranquilla».
In effetti facevo non poca fatica a ricondurre il ragazzino in carne e pieno di brufoletti con cui condividevo l’ora di ginnastica con quel ragazzone alto e asciutto, anzi proprio muscoloso, visto che adesso era diventato uno scalatore.

«Ma che ci fai di nuovo qui tu? Sapevo che eri andata a Milano e che stavi bene là».

«Sì, è così, ho vissuto là finora, ma adesso è arrivato il momento di cambiare».
«O di tornare».

Mi aveva regalato un altro sorriso e offerto un caffè nel casale che presto avrei affittato. Gli avevo parlato del progetto di stabilirmi lì continuando a fare il mio lavoro a distanza, e anche lui aveva apprezzato tantissimo l’idea. Davide non si era mai spostato però, coltivava l’appezzamento dei suoi e mandava avanti col fratello una piccola

attività ortofrutticola, da qualche tempo con nuove tecniche bio. In breve ci eravamo trovati sulla stessa lunghezza d’onda. Il casale era bellissimo e tenuto splendidamente, senza contare la vista su una delle più belle colline del territorio, un’esplosione di verde che solo a guardarla aveva ritemprato i miei polmoni dallo smog della città.

L’appezzamento di Davide era proprio quello che potevo scorgere dalla mia terrazza, ogni mattina lo vedevo nei campi e spesso mi portava qualche primizia chiedendo di assaggiarla.

Dal canto mio, il lavoro a distanza proseguiva identico, con la sola differenza che adesso non avevo più bisogno di spostarmi, potevo godermi quel magnifico paesaggio e contemporaneamente essere collegata con Sidney, una cosa fantastica.

Naturalmente avendo aderito al progetto e occupandomi di comunicazione, non potevo non cercare in tutti i modi di promuovere l’iniziativa e stimolare lo sviluppo di quella rete intelligente di sviluppo demografico. Nel giro di pochi mesi erano arrivati altri smart workers come me, giovani famiglie desiderose di offrire ai propri figli la possibilità di crescere nel verde. In poco tempo, il paesino aveva ripreso a vivere. Nonostante l’incertezza legata al Covid e alle sue conseguenze, si iniziava a respirare un’aria nuova, più dinamica e positiva. Anche l’attività di Davide ne aveva giovato moltissimo, i nostri caffè del pomeriggio erano diventati presto un appuntamento fisso e fra una videochiamata, un pomodoro biologico e una chiacchiera, ci siamo innamorati. All’università ricordo che il mio docente d’impresa diceva sempre che un buon manager non si guarda mai indietro: oggi posso dire che si sbagliava.

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