Fino in capo al mondo

Cuore
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Sono partita per l’Australia a 23 anni, di nascosto da mio padre, con Franco, l’uomo che ho sempre amato. In tasca solo un diploma da parrucchieri e tanto entusiasmo. Oggi, l’affetto dei miei figli e dei nipoti è la prova di quanto ci è andata bene

STORIA VERA DI RITA SILVESTRI RACCOLTA DA BARBARA BENASSI

 

La vita dà e la vita toglie seguendo i disegni misteriosi del destino, nel frattempo spetta a noi rincorrere la felicità e i nostri sogni, senza smettere mai di crederci. Per me almeno è stato così dal giorno in cui ho conosciuto mio marito.

Era il 1968, avevo 22 anni e abitavo a Roma con la famiglia. Fino all’età di otto anni e mezzo ero vissuta in Sicilia con i miei nonni poi, per continuare la scuola, avevo raggiunto nella capitale mio padre e la sua seconda moglie, donna a cui ho sempre voluto molto bene visto che nel mio cuore desideroso d’amore era la mia mamma a tutti gli effetti.

Malgrado lavorassi già da tempo, mio padre era molto rigido e avevo il permesso di uscire solo la domenica dalle tre alle otto. Ore preziose, ore liete per noi ragazzi. Ed è stato proprio in una domenica caldissima di luglio del 1968 che ho conosciuto Franco. Dopo esserci presentati, ricordo solo i suoi occhi, il suo sorriso e il mio cuore che batteva forte per la prima volta. Sono bastate tre domeniche consecutive per farci innamorare. All’inizio a mio padre dicevo che uscivo in comitiva cercando di non sgarrare mai con l’orario di rientro altrimenti mi sarei giocata l’appuntamento domenicale successivo poi, dopo un po’ di tempo, mi sono fatta coraggio e gliel’ho

presentato. Ma i padri si sa come son fatti, il mio almeno aveva progetti, idee, speranze per me che di certo non coincidevano con Franco. Avevo un bell’insistere dicendogli che era un ragazzo serio e di buone intenzioni, un gran lavoratore, ma il fatto che non avesse un posto fisso, che si limitasse ad aiutare il padre al mercato, a portare le fragole nelle gelaterie, per lui non era abbastanza. Ogni giorno non faceva che ripetermi che potevo ambire a molto di più e, in un modo o nell’altro, a ostacolarmi. Ma io volevo bene a Franco, con lui volevo costruire la famiglia che avevo tanto desiderato e che tanto mi era mancata durante l’infanzia. Dentro di me sentivo che era la persona giusta con cui iniziare una vita tutta mia.

Intanto in quel periodo, una giovane coppia di amici dei miei, entrambi parrucchieri come me e mia madre, dopo aver letto casualmente su una rivista un annuncio che invitava a emigrare in Australia, aveva deciso di provare a trasferirsi dall’altra parte del mondo. L’inserzione assicurava che le autorità australiane avrebbero pagato il biglietto di andata oltre che 35.000 lire a persona per un contratto di permanenza di almeno due anni.

Così, dopo aver seguito i loro preparativi, un pomeriggio io e Franco, ci siamo ritrovati a salutare questa famiglia in partenza per un mondo nuovo con pochi soldi in tasca ma tante speranze nel cuore. Sinceramente da quel momento in poi la tentazione è stata forte, soprattutto per Franco, dato che le cose in Italia non erano rose e fiori e alla fine… «Senti Rita perché non ci proviamo anche noi? L’Australia ci aspetta».

La sento ancora la sua voce, vibrava di entusiasmo trattenuto per non spaventarmi troppo, visto che sapeva quanto timore avessi di mio padre. Di punto in bianco sembrava non avere dubbi mentre mi sussurrava con lo stesso tono: «Possiamo fare tutto di nascosto dai tuoi. Ce la faremo, vedrai».

Franco era così, risoluto e coraggioso e in quei primi momenti lo è stato anche per me. La sua forza diventava la mia, lo avrei seguito in capo al mondo. E così è stato.

A questo punto abbiamo iniziato a dare corpo al nostro progetto. Franco alla luce del sole frequentava un corso per parrucchiere per avere anche lui il diploma da consegnare all’ambasciata australiana, dal momento che era la qualifica con cui dovevamo partire e la sera frequentava un corso intensivo di inglese per avere i rudimenti della lingua che avremmo trovato in quella terra lontana. Io invece, per ogni cosa, agivo in segreto. Il diploma di parrucchiera fortunatamente ce l’avevo già, ma per sottopormi alle visite richieste inventavo sempre scuse diverse con i miei, una volta uscivo con una amica, un’altra andavo in centro per vedere delle scarpe, insomma mi arrangiavo come potevo.

Ma le difficoltà erano ben altre. Dopo aver scelto di viaggiare in aereo e non in nave, visto che ero terrorizzata al pensiero che mio padre potesse raggiungermi in qualche porto per riportarmi a casa, siamo stati avvertiti dalle autorità che per poter partire insieme, avremmo dovuto avere lo stesso cognome.A questo punto, il matrimonio sembrava l’unica soluzione.

Detto, fatto. Con Franco al mio fianco niente sembrava impossibile. Il 18 maggio 1969, una domenica come tante, ci siamo sposati di nascosto in Campidoglio a Roma, dal momento che in chiesa sarebbe stato troppo rischioso per via delle pubblicazioni che vengono affisse 40 giorni prima. Quella domenica mio padre era via per lavoro e io, con il cuore in gola, un tailleurino rosso, una camicetta bianca e le scarpe bianche, sono uscita dicendo a mia madre che sarei andata a una festa, mentre in realtà sono filata dritta in Campidoglio dove oltre a Franco mi aspettavano i testimoni: una mia cara amica e una giovane coppia con un bambino conosciuti all’ambasciata australiana.

Franco appena mi ha vista ha sorriso e subito si è accorto che non avevo il bouquet. Dopo un rapido cenno è corso a comprare un mazzetto di fiori su una bancarella lì vicino e solo dopo, finalmente, siamo entrati e ci siamo sposati. Gli unici a sapere di noi erano i suoi genitori. Solamente una settimana prima della partenza, mi sono confidata con mia mamma. Le ho raccontato tutto, dell’Australia, del matrimonio, del nostro amore che ci spingeva così lontano. All’inizio si è messa a piangere, poi ha capito che era quello che entrambi volevamo e mi è stata vicina come solo una madre sa fare. Mi ha comprato un piccolo corredo e i miei preparativi sono andati avanti così alla chetichella e senza sosta fino al fatidico 5 giugno 1969. Un giorno importante ma anche molto difficile. Difficile soprattutto per la separazione da mio fratello Massimo di quattro anni, il mio cocco, nato che io avevo già 18 anni e di cui mi sentivo come una seconda mamma.

Ricordo ancora il cuore stretto in una morsa nel momento in cui sono uscita di casa per andare dai miei suoceri dove Franco mi aspettava. Prima di partire mi sono fatta una doccia, ho messo un po’ di trucco, ho indossato abiti puliti e ho cercato di farmi coraggio. Volevo entrare in ordine in quella mia nuova vita che sarebbe decollata di lì a qualche ora.

Il nostro volo pieno di emigranti sembrava non finire mai. In realtà, mentre Franco a bordo faceva l’interprete guadagnandosi ben 100.000 lire grazie all’inglese della scuola serale, l’aereo dopo quattro scali ci ha portati in Australia, a Melbourne per la precisione. La città ci è sembrata fin da subito bellissima con le sue grandi strade e gli ampi spazi verdi. Una volta arrivati, i nostri amici parrucchieri di Roma partiti prima di noi ci hanno ospitati per una settimana a casa loro e nel frattempo avevano già trovato un lavoro per me in un lussuoso salone del centro, il cui proprietario era italiano.

Franco invece ha trovato subito un impiego in fabbrica. In Australia c’era lavoro a non finire, avevano davvero un gran bisogno di manodopera. Potevi permetterti di uscire da una fabbrica e lo stesso giorno trovavi lavoro in un’altra.

Dopo una settimana, ci siamo trasferiti in un appartamentino in affitto tutto per noi, modesto ovviamente, ma carino. Finalmente potevamo essere una coppia alla luce del sole, con la nostra libertà, il lavoro e l’autonomia.

Ma non solo. Oltre a questo tra italiani si respirava un fortissimo senso di comunità, di mutuo aiuto, di grande famiglia che mi piaceva molto. Malgrado le differenze tra noi che venivamo da Roma e tanti emigranti che venivano da piccoli paesi della Sicilia, Calabria, Abruzzo, il sostegno e la solidarietà non mancavano mai.

Ma se alla luce del giorno c’era tanto entusiasmo, lavoro e soddisfazione, la sera mi sorprendeva la malinconia. Piangevo calde lacrime e mi struggevo per mio fratello.Avevo una fortissima nostalgia di quel bambino lontano.Tanto che Franco, da uomo pratico qual era, ha pensato che l’unico modo per risolvere la cosa fosse avere un bambino tutto nostro. Così, arrivata a giugno, a settembre ero già incinta. Con le nausee ho dovuto smettere di lavorare e mi arrangiavo a fare i capelli a casa a qualche italiana per arrotondare, oppure passavo il tempo davanti alla televisione e così, piano piano, l’inglese ha iniziato a farsi strada nella mia testa e a uscire dalla mia bocca grazie al mio buon orecchio.

Con la nascita di Paola, la nostra prima figlia, eravamo una famiglia a tutti gli effetti e malgrado in seguito io abbia sempre lavorato tanto, sia come dipendente che come titolare nel mio negozio di parrucchiera, fin dall’inizio mi sono ripromessa che non ci sarebbe mai stata solitudine, lontananza, separazione, ma che anzi ognuno di noi attraverso l’amore e il sostegno della famiglia sarebbe stato più forte e più tenace.
Con il tempo, anche i genitori e le sorelle di Franco si sono trasferiti in Australia e dopo sarebbero arrivati anche i miei insieme a mio fratello. Riavere il sostegno morale di mia mamma, riabbracciare Massimo e rappacificarmi con mio padre come se nulla fosse successo, ha avuto un impatto talmente positivo in me che è stato come essere investita da un’onda di pace e armonia.

E proprio durante la loro prima permanenza da noi, dopo più di un anno e mezzo di tentativi inutili, sono rimasta incinta per la seconda volta.

Intanto mio marito dalle fabbriche era passato ai taxi, per poi aprire una rivendita di piastrelle con relativa posa in opera insieme al cognato. Fino a che un giorno, dopo aver fatto visita ai miei genitori che allora vivevano nello stato del Queensland, ci siamo innamorati della Gold Coast, il litorale dalle immense spiagge bianche. Malgrado fossimo tutti ben sistemati, in un batter d’occhio abbiamo deciso di trasferirci lì con i miei cognati e i loro figli. Erano tempi in cui se avevi buona volontà, ti inventavi un lavoro dall’oggi al domani e potevi metter su un buon business. Così, abbiamo seguito l’esempio di alcuni amici che, come noi, da Melbourne si erano trasferiti sulla Gold Coast e avevano aperto un ristorante senza avere alcuna esperienza. Mia cognata infatti ha esordito: «Senti Rita, tu sei brava a cucinare e io pure, tu Franco sai fare le pizze… Se l’hanno fatto loro, lo possiamo fare anche noi!».

Ci siamo trasferiti, abbiamo aperto un ristorante con 100 coperti, l’abbiamo chiamato ”Arrivederci” e per tanto tempo abbiamo avuto un grande successo.

Solo dopo molti anni di attività e di soddisfazioni, il vento è cambiato. Il lavoro non era più lo stesso e Franco, che non ha mai avuto difficoltà a voltare pagina, a dare un taglio netto e via, ha deciso di perlustrare la zona di Brisbane, visto che comunque avevamo i ragazzi che stavano crescendo e c’era necessità di avere l’università nelle vicinanze per non dividere la famiglia. Qui, io mi sono innamorata di una strada, Park Road, e mi sono detta che, se avessimo aperto un ristorante, sarebbe stato lì. E così è successo, ma oltre al ristorante, abbiamo aperto anche una pizzeria sull’altro lato della strada.

A Brisbane Paola lavorava con noi, la mia secondogenita Fiona è andata all’università e David, il mio terzo figlio, ha frequentato il liceo. I ragazzi, quando potevano, venivano a lavorare ed eravamo sempre molto uniti, nel bene e nel male. Quando ho compiuto 50 anni, ho sentito che per me era giunto il momento di rallentare il ritmo e, dato che nostro figlio David aveva seguito le impronte paterne e poteva sostituirsi a Franco, io e mio marito abbiamo cominciato a viaggiare.

Oggi so che quel tempo passato insieme non ha prezzo e che bisogna sempre cogliere l’attimo quando se ne ha la possibilità perché niente è eterno. Infatti, appena tornati da uno dei nostri viaggi meravigliosi, l’11 luglio del 2007, Franco ha avuto un attacco cardiaco. Quel suo cuore pieno d’amore per tutti noi si è fermato all’improvviso e lui è volato via, secondo il suo stile, come aveva sempre vissuto, con un taglio netto. A 27 anni David si è trovato con un’attività enorme da portare avanti da solo e ha fatto un lavoro fantastico .
Da quel periodo buio, i miei figli e io siamo riusciti a riemergere. Oggi posso confermare che tutte le tempeste si possono superare con l’unione e l’amore di una famiglia. Insieme si vince sempre. Questo è stato il sogno che ho inseguito fino in capo al mondo per mano all’uomo che ho sempre amato, con il quale ho realizzato tutti i miei desideri. E oggi l’amore dei miei figli e nipoti è la prova che ne è valsa davvero la pena.

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Storia pubblicata sul n. 36 di Confidenze
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