Sarò sempre al tuo fianco: parla la sorella di una disabile

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Per la Giornata Internazionale delle persone con disabilità pubblichiamo la storia vera che trovate su Confidenze in edicola: Il racconto di una sibling, ovvero i fratelli e le sorelle dei disabili gravi

Mia sorella Benedetta ha una malattia genetica rara che la rende dipendente da noi in tutto. Sono felice di ogni momento che passo con lei, ma so anche di aver bisogno di sostegno

storia vera di Maria Stranieri raccolta da Valeria Camagni

A luglio mi sono laureata in Psicologia clinica, è la fine di un percorso che ho scelto io di mia spontanea iniziativa, la quadratura di un cerchio, anche se mi è sempre rimasto il dubbio che siano stati gli eventi accaduti a guidarmici.

Sono la primogenita di tre sorelle femmine, cresciute in un paesino in provincia di Catanzaro, e fin qui non ci sarebbe nulla di strano, solo che Benedetta, la più piccola, nata a tanti anni di distanza da me ed Emanuela, è venuta al mondo con una malattia genetica rara che la rende completamente dipendente da noi familiari. Quando arrivò, io avevo 11 anni e un ricordo confuso di lei in incubatrice (era nata prematura) e di nostra mamma che ci portava a vederla in ospedale.

Ma la consapevolezza della sua malattia (Benedetta soffre della sindrome cardio facio cutanea) è arrivata solo più tardi: mamma e papà la portarono al Policlinico Gemelli di Roma, uno dei pochi specializzato in malattie genetiche rare e lì venne fatta la diagnosi. Da quel momento cambiò tutto. In un certo senso fu come se anche per me ed Emanuela fosse arrivata una diagnosi: eravamo rare sibling, un termine inglese che designa quei bambini e ragazzi che crescono con a fianco un fratello o una sorella gravemente disabile. Con tutte le implicazioni che questo comporta, per il presente ma anche per il nostro futuro. Ma anche questo l’avrei compreso solo più tardi.

Oggi Benedetta ha 16 anni, non parla, non vede, non cammina, non capisce, ma vive di noi, si alimenta con il biberon e ognuno di noi cerca al meglio di interpretare i suoi bisogni.

I nostri genitori sono stati fantastici perché sono riusciti a non farci soffermare sulle sue debolezze ma sui punti di forza, per esempio il gesto di darle il cibo con il biberon per me è un modo di prendermi cura di lei, di donarle attenzione. Ma c’è voluto tempo per arrivare a questa consapevolezza, anche noi abbiamo dovuto per così dire metabolizzare negli anni la sua malattia.

Se ripenso al passato, il periodo del liceo per me è stato il più difficile perché iniziavo a comprendere ciò che stava accadendo nella mia famiglia e per quanto i nostri genitori si sforzassero di trattarci tutte e tre alla pari, con le medesime attenzioni, era inevitabile che Benedetta avesse la precedenza su tutto. Questo generava in noi gelosie e ripicche. A distanza di anni, riavvolgendo il nastro della memoria, ho capito anche il perché del mio andamento scolastico altalenante al liceo, o di certi miei comportamenti ribelli, erano tutte richieste di attenzioni rivolte ai miei genitori.

Poi c’erano gli amici che per una ragazza di quell’età sono importantissimi, le gente che ci circondava, i parenti, tutti sapevano di Benedetta, qualcuno si offriva anche di aiutare, eppure nessuno osava fare domande. Perfino le mie amiche non mi hanno mai chiesto nulla di mia sorella e questo se da un lato aiuta perché non ti costringe ad affrontare un tema doloroso, dall’altro impedisce al tuo dolore di trovare una valvola di uscita, di essere condiviso. Ma non biasimo nessuno.

Chi devo dire è stata davvero fenomenale è la mamma: lei ha lottato e lotta ancora perché Benedetta faccia una vita il più possibile normale, ha insistito per riuscire a farla alimentare da sola con l’aiuto del biberon e non mediante sondino gastrico, ed è riuscita a farle frequentare la scuola pubblica: Benedetta va alla scuola primaria e io quando posso la aiuto a fare i compiti. Non è stato facile farla accettare perché la sua disabilità è totale e spesso lei soffre anche di crisi epilettiche quindi diventa oggettivamente difficile da gestire anche per l’insegnante di sostegno. Non contenta, la mamma poi è riuscita anche a laurearsi in Giurisprudenza dopo la nascita di Benedetta, portando a termine così il suo sogno, visto che aveva interrotto gli studi per sposarsi con papà e dare precedenza alla nostra famiglia. Quando penso al coraggio che ha avuto spero tanto di diventare come lei che con Benedetta non si è mai arresa.

Nemmeno io mi sono arresa: con mia sorella ho un rapporto speciale, lei mi riconosce, percepisce l’amore che le do, i piccoli gesti di cura come accompagnarla a fare fisioterapia, infilarle il giubbotto per uscire. E quando siamo insieme lei mi porta oltre, in un territorio dove la gente comune non si spinge, forse anche per questo fatico a relazionarmi con gli altri perché la società non ci ascolta.

Il problema di noi sibling e delle famiglie che hanno figli con malattie rare è che si è lasciati soli, non solo in termini di aiuti, quanto di solitudine vera e propria nell’affrontare la quotidianità. Invece è molto importante che chi si prende cura del malato venga seguito fin dall’inizio perché il benessere del disabile dipende dal familiare o dalla persona che lo segue e se il caregiver soffre questo si riflette anche sul disabile.

Io e mia sorella Emanuela per esempio abbiamo reagito in modo diverso alla malattia di Benedetta: lei ha scelto di andare via di casa per frequentare l’università, si è iscritta a Psicologia a Torino e i miei genitori hanno assecondato la sua scelta. Io invece sono rimasta in famiglia, ho frequentato l’università a Messina, sono fidanzata da 10 anni con un ragazzo e spero presto di sposarmi. L’altra mia passione è la pallavolo, ho giocato in squadra per 15 anni e oggi alleno le bambine.

Lo studio della psicologia mi ha aiutato tantissimo a capire quello che è successo, a dare un nome a ciò che ho vissuto. Anche se è stato faticoso da un punto di vista emotivo perché mi sentivo coinvolta in prima persona.

Grazie ai miei studi mi sono imbattuta nel progetto Rare Sibling, un portale che raccoglie le storie di quanti hanno fratelli e sorelle con malattie rare, bambini, ragazzi e adulti che si raccontano, mettono a nudo la loro esperienza con chi vive una situazione analoga. È un’iniziativa bellissima perché ci offre la possibilità di un confronto e di un conforto, spezza la solitudine.

Ciò che fa più paura non è tanto l’idea della morte, quanto l’imprevisto della malattia, qualcosa che capita quando meno te lo aspetti com’è avvenuto per mia sorella Benedetta e allora sì che devi essere forte. E io voglio esserlo per lei e per tutti i fratelli e sorelle come me . © RIPRODUZIONE RISERVATA

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