Siamo tutti un po’ razzisti?

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Sentiamo parlare di accoglienza dal mattino alla sera, ma spesso si predica bene e si razzola male, specie se lo straniero ci tocca da vicino

Questa settimana su Confidenze nelle pagine delle Emozioni estreme la nostra Tiziana Pasetti è andata a frugugliare in un’emozione estrema molto comune: il razzismo. Estrema perché divide e mette le persone le une contro le altre, estrema perché al giorno d’oggi, messa da parte la querelle migranti sì o migranti no, ognuno di noi pensa in cuor suo di aver superato la visione del mondo tra bianchi, neri e gialli e di essere di ampie vedute.

Non è così, e la testimonianza della nonna al parco con i nipotini di cui ci parla Tiziana, ne è la riprova. Senza che ce ne fosse motivo la donna si trova a giustificare il fatto che il nipote è di colore, spiegando che sì, la madre è di origine senegalese, ma è ginecologa e vive a Parigi da anni e il padre poi è bianco.

Excusatio non petita accusatio manifesta, dicevano i latini (chi si scusa si accusa, per dirla in breve) e mai come in questo caso è vero. E se ci pensiamo ognuno di noi nel suo piccolo conserva un animo razzista. La verità è che finché si tratta di principi astratti che non ci toccano da vicino siamo tutti bravi a predicare la tolleranza e l’accoglienza, ma quando siamo chiamati in causa a relazionarci con persone di culture diverse, vuoi perché i nostri figli sono in classe insieme ai figli degli extracomunitari, o perché il nuovo pediatra della mutua è uno straniero, allora vengono fuori le nostre piccole chiusure mentali.

Tempo fa mi sono trovata a disagio quando in un ambulatorio dov’ero andata a fare le analisi del sangue ho scoperto che la addetta ai prelievi era dell’Europa dell’Est. Sentendo la sua pronuncia straniera, ho subito pensato “Chissà dove ha fatto pratica questa… Speriamo in bene che sappia il fatto suo e trovi in fretta la vena”. Poi dentro di me mi sono detta che se fosse stata italiana non avrei messo in dubbio la sua professionalità. Eppure oggi in una grande città come Milano sono moltissimi gli ambulatori pieni di infermieri e medici stranieri.

Quando mio figlio frequentava le scuole elementari pubbliche in classe si era sforato ben oltre il tetto del 30% di stranieri, lui e gli altri bambini erano abituati ad avere come compagni di banco un cinese, un arabo o una filippina, ciò non significa che poi diventassero per forza amici, ma almeno sviluppavano l’abitudine a stare fianco a fianco a un ragazzino di colore. E se si ritrovavano al parco, giocavano tutti insieme, alla faccia delle nonne di turno sempre pronte a fare le pulci su tutto.

Non esiste una medicina contro il razzismo, forse l’antidoto migliore è viaggiare e girare per il mondo. A New York, città cosmopolita per eccellenza, c’è una tale preponderanza di stranieri che è praticamente impossibile essere razzisti perché tutti si sentono allo stesso modo parte della città, pur non essendoci nati.

Quest’estate sono andata in visita all’Università di Stanford negli Stati Uniti, lì non esistono differenze di razza, ho visto tanti ragazzi di etnie diverse girare in bicicletta, sedersi davanti a una birra al bar, studiare insieme, consapevoli che non conta il Paese di provenienza ma la direzione dove si sta andando.

 

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