Tu guarda le stelle

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“Tu guarda le stelle” di Tiziana Pasetti, pubblicata sul n. 46 di Confidenze, è la storia più apprezzata della settimana sulla pagina Facebook. Ve la riproponiamo sul blog

 

Vengo dalla NIGERIA, imbarcata con mia sorella sui mezzi dei TRAFFICANTI di uomini. In Italia ho trovato il CALORE di una famiglia e la serenità. Ma dalla mia Africa non sono mai ANDATA VIA davvero, perché laggiù il cielo è meraviglioso

Storia vera di Kubra L. raccolta da Tiziana Pasetti

 

“Tu guarda le stelle”. Me lo sono ripetuta in continuazione per molte notti, mentre le vedevo diventare sempre più piccole, puntiformi, spente in un cielo nero che diventava nemico. Lo stesso cielo teatro dei miei giorni e anni più belli, quelli che qui sono invisibili, incomprensibili.

Sono nata più o meno 29 anni fa. Il mese dovrebbe essere luglio. Ma potrebbe essere anche giugno. O maggio. I miei documenti mia madre lì ripose con cura in un sacchetto cucito con le foglie di un albero che qui non avete, e non so tradurre il suo nome. È qualcosa come foglia impermeabile, foglia che resiste all’acqua. Comunque veniva utilizzato dalle donne della mia famiglia per creare sacche, borse, anche mantelle. Con mantelle intendo qualcosa di simile ai vostri ombrelli. Dalla pioggia noi ci ripariamo solo se stiamo trasportando qualcosa che è bene non si bagni. Altrimenti la afferriamo con le mani, la calpestiamo con i piedi, la mandiamo giù nella gola, dopo averla catturata con la punta della lingua.

Guardo mio figlio. Si chiama Paolo. Lo guardo colorare. Mi piacerebbe vederlo seduto a terra, magari accanto a mio padre, e con lui intingere il dito negli inchiostri fatti a mano, di spezie e radici. Il sacchetto con i miei documenti era rosso e azzurro e ocra. Come i nostri tramonti.

Ho lasciato il mio villaggio un pomeriggio di 19 anni fa. La sera prima c’era stata una grande festa. Mio padre aveva conosciuto una persona, l’anno precedente. Aveva sentito parlare dell’Olanda e, vista la situazione politica poco sicura che già da tempo stringeva la Repubblica Federale della Nigeria in una maglia di violenze e povertà sempre più soffocante, dopo averne parlato a lungo con mia madre, aveva deciso di mandare me e mia sorella maggiore in quel posto in Europa. Potevamo studiare, eravamo brave, giudiziose, e poi non appena la situazione si fosse calmata, saremmo potute tornare indietro. C’era voluto quell’anno intero di lavoro straordinario, anche di notte – mio padre era un contadino, un lavoro che non dovete sottovalutare – per poter consegnare a zio Eku la somma necessaria per accompagnare me e Sali a “Msterda”, grande città dei Paesi Bassi dove era già pronta per noi la stanza di un grande collegio.

Ecco. Noi che poi arriviamo sporchi, allucinati, vivi alcuni, altri morti, noi quando siamo partiti parlavamo una lingua, una lingua con la quale chiamiamo mamma e papà, con la quale diciamo ti amo, che ci serve per chiedere aiuto o per descrivere, astraendo dalle cose, il senso della vita, della famiglia, della società, del lavoro, della guerra, della schiavitù, della fiducia. Noi che arriviamo con degli stracci dall’odore nauseabondo eravamo partiti con i nostri abiti migliori, stoffe colorate, monili e disegni ad augurare fortuna e prosperità sul dorso delle nostre mani e lungo le nostre dita. Io non conosco tutti gli africani che hanno deciso di lasciare questo nostro continente – da quel Paese non parti mai, continui a sentirti lì, e a cercarlo nell’aria che respiri e che non basta, è poca, negli alberi che non riempiono il cielo, nell’acqua limpida che è desiderio, quasi diamante prezioso – e non conosco tutte le loro ragioni. Guardo Paolo che colora, mio figlio ha quattro anni, parla due lingue, tifa Roma, ha due nonni che vivono dall’altra parte della città e due che non conoscerà mai.

 

Quando guardo i servizi che passano i telegiornali oppure le fotografie dei reporter che vincono grandi premi internazionali rido. Io posso. Perché quello che vedete non è già più nulla. Per me, per esempio, il viaggio è cominciato un mese prima di arrivare a Lampedusa. Sono partita in carne, con le guance dei bimbi che hanno dieci anni. Sono arrivata uno scheletro. Pidocchiosa ovunque. Ho la pelle nera come l’ebano, ma i lividi delle botte prese erano tanti, tanti. Zio Eku, il sorridente zio Eku, perché dopo la prima notte, eppure il primo tratto in macchina era stato divertente, avevamo cantato per allontanare la nostalgia, perché poi ha cominciato ad alzare la voce, a non rispondere, a non comprare le caramelle? Papà aveva detto: «Con questi, appena arrivate in città, compra le caramelle per il viaggio a Sali e a Kubra». Sali aveva 8 anni più di me. Era bellissima.

Non l’avevo mai sentita gridare come quella notte che ci hanno divise. Io ho dormito con due signore e tre bambini piccoli. Lei non so. «Per Sali una camera speciale», aveva detto zio Eku prendendola per mano.

«Sali, perché gridavi?» le ho chiesto mentre cercavo di mantenere l’equilibrio sul rimorchio del camion sul quale ci avevano fatte salire e che da ore percorreva le strade sterrate di posti che non conoscevo. Sali mi ha accarezzato i capelli – erano ancora lunghi, li avrebbero tagliati dopo una settimana a tutti con pochi colpi di forbice, senza alcuna attenzione, senza grazia – e ha detto «brutti sogni». Poi non si arrivava mai. E io avevo freddo. «Dormi», mi esortava Sali. «Non riesco», frignavo. «Allora guarda le stelle» e mi diede un bacio sulla fronte.

 

Bestie al macello, dite voi. È una categoria mentale che non avevo. Neanche la parola bestia esiste. Gli animali, anche quelli che finiscono nei nostri piatti, sono rispettati e trattati al meglio: è un ringraziamento, sacrifichiamo la loro esistenza per la nostra. Non si uccide mai un animale se non necessario. Mai.

Gli orrori delle guerriglie intestine, che avevano convinto mio padre e mia madre ad allontanarsi dalle figlie, io non li conoscevo. Ero una bambina. I bambini sono spesso felici, se hanno un buon letto e lo stomaco pieno e la sicurezza di essere amati. Io ero una bambina felice.

Oggi guardo Paolo e penso a mamma e a papà. Quanto hanno aspettato di avere nostre notizie da zio Eku? Cosa hanno saputo? Hanno saputo di Sali? E di me? Dei sei mesi in ospedale e poi della casa di accoglienza e poi di Flavia e Sandro? Mi hanno presa con loro quando ho compiuto 16 anni e hanno fatto di tutto per rintracciare i miei genitori, ma non siamo riusciti.

Cosa posso raccontarvi? È impossibile raccontare l’orrore. E so di essere fortunata. Ero piccola, molte cose le ricordo male, forse molto è ingigantito dalla fantasia o dal dolore. Ho trovato due genitori. L’amore. Ho un bambino. Un lavoro. Però ricorderò sempre com’è cambiato il peso della testa di Sali sulla mia spalla quando è passata dal delirio della febbre alla luce delle stelle. Ha pensato a me fino all’ultimo: «Vado a tenere accese le stelle, tu guardale e resta sveglia, Kubra. Tu guarda le stelle».

 

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