“Per la maggior parte delle persone esistiamo solo in un libro, la mia sposa e io. Negli ultimi trentacinque anni ho dovuto assistere con impotente ribrezzo a come le nostre vite reali sono state sommerse da un’onda fangosa di racconti apocrifi, false testimonianze, pettegolezzi, invenzioni, leggende; a come le nostre reali, complesse personalità sono state sostituite da stereotipi, ridotte a immagini banali tagliate su misura per un pubblico di lettori affamati di sensazionalismo. E così lei era la fragile santa e io il brutale traditore. Ho taciuto. Fino ad ora. In lei c’era una sorta di fanatismo religioso, l’aspirazione a una forma superiore di purezza, la sacra e violenta vocazione a immolare la vecchia e falsa se stessa, a ucciderla per poter rinascere, pura, libera e soprattutto vera. Nei sette anni trascorsi insieme non la vidi mai con nessuno – neanche con i nostri figli – com’era realmente, come io la conoscevo, la donna con la quale vivevo, la donna che scalciando come una giumenta in calore mi aveva morso a sangue la guancia al primo appuntamento. Non ci eravamo abbracciati, ma saltati addosso. Sbuffando come un animale – di piacere, di gioia – le strappai dai capelli la fascia rossa, le tirai via dai lobi gli orecchini d’argento, e più di ogni altra cosa avrei voluto stracciarle il vestito, spogliarla di tutti quegli orpelli di decoro, sottomissione e civiltà, di falsità. È stato crudele, doloroso. È stato vero. Ognuno era preda dell’altro.
Neanche quattro mesi dopo l’avevo sposata. Di una donna che invece di baciarti ti morde avrei dovuto capire che per lei amare qualcuno equivaleva a combatterlo. Di me avrei dovuto capire che rubandole i gioielli avevo strappato solo dei fronzoli, appropriandomene come trofei. Chi inizia così un amore sa che vi si cela un cuore di violenza e distruzione. Finché non sopraggiunge la morte. Uno di noi era spacciato fin dall’inizio. Era o lei o io. Nella furia divoratrice chiamata amore, avevo trovato la mia pari”.
La storia di Sylvia Plath e Ted Hughes, due titani della poesia del Novecento, è talmente oltre ogni normalità che spesso si tende a immaginarli come due esseri irreali, frutto di una fantasia a tratti poco sana, personaggi essi stessi di un romanzo maledetto. La splendida americana e il meraviglioso inglese hanno riempito migliaia di pagine sia per l’importanza della loro opera letteraria, ma soprattutto per le loro vicende personali e di coppia. La breve esistenza di Sylvia, morta a soli trent’anni, è oggetto di curiosità spesso morbosa non solo da parte della critica ma anche dei suoi fan, veri e propri adoratori. Anima rock e perduta, in lei i giovani di oggi vedono un’antesignana dei tanti giovani artisti maledetti che sotto il giogo della vita non riescono a resistere. L’arte è rifugio, tentativo di salvezza, grido disperato. L’arte è eterna ma raramente riesce a trattenere chi a lei immola tutto. Sylvia tentò il suicidio due volte e si sottopose ad elettroshock prima di riuscire a portare a termine il suo disegno di annullamento e di affermazione estrema: la mattina dell’11 febbraio del 1963, nella sua casa di Londra, dopo aver scritto la sua ultima poesia (“Orlo”) e aver fatto fare colazione imburrando fette di pane ai suoi due figli, indossò le sue scarpe migliori, mise i bimbi al sicuro, si inginocchiò e, dopo aver girato la manopola del gas, inserì con cura la sua testa nel forno.
Nei Diari, editi in Italia da Adelphi e curati dal marito Ted, dal quale si era separata, Sylvia racconta i suoi deliri, i suoi incubi, i mostri, le debolezze, la sua paura. Gran parte della disperazione che la portò a compiere quel gesto viene spiegata attraverso il dolore legato ai molti tradimenti del marito, alle depressioni postpartum e alla distanza di abitudini e aspettative di riconoscimento sociale tra il suo paese di provenienza e il vecchio continente.
L’autrice olandese, che con questo romanzo ha vinto numerosi premi, prova a restituire voce a Ted. Attraverso lo studio dell’opera del poeta e la lettura approfondita di fonti e materiale autobiografico Connie Palmen regala a Ted un io narrante che ci cattura e ci trasporta in un mondo dove Sylvia era Ted e Ted era Sylvia, un cosmo di parole e miti, archetipi e cabale, misteri e ricatti, dove “la poesia spesso nasce malgrado noi”.
Connie Palmen, Tu l’hai detto, Iperborea
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