Hope, la speranza ha un nome

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“Una storia vera che mi ha riempito di gioia ,speranza e positività!” scrive Anna, una nostra lettrice, sulla pagina Facebook. Hope, la speranza ha un nome, pubblicata sul n. 38 di Confidenze, è la storia più apprezzata della settimana. Ve la riproponiamo sul blog

 

Ho chiamato così un bambino nigeriano scacciato dalla famiglia perché accusato di stregoneria. Come lui ce ne sono tanti altri di cui mi prendo cura con la mia onlus. Nel ricordo di mia madre

Storia vera di Anja Ringgren Lovén raccolta da Barbara Benassi

 

Mi chiamo Anja, ho 41 anni e 74 figli. Anzi 75 se contiamo David jr. che è l’unico che ho tenuto in grembo. Dalle coste della Danimarca sono approdata a quelle della Nigeria. Un viaggio verso la terra della speranza, durante il quale ho incontrato dolore, forza, determinazione e amore. Tanto amore.

Spesso mi domando che cosa direbbe mia madre oggi. Non ho mai smesso di pensare a lei e ai suoi vecchietti della casa di riposo dove lavorava; a lei e ai suoi discorsi sulla difesa dei più deboli, degli sconfitti, dei diseredati; a lei e ai suoi pensieri rivolti ai bambini africani.

Da piccola ascoltavo le sue parole e sognavo terre lontane, creature da soccorrere, cibo da donare. È nato così il mio sogno africano. Nella cucina di casa nostra, davanti a un piatto fumante, quella donna forte e indipendente ha deposto in me il seme dell’idea che, in un modo o nell’altro, fare la differenza fosse possibile.

Ma arrivare da quella cucina di Frederikshavn, la mia città natale in Danimarca, fino alla grande mensa dove, oggi, io e i miei 75 figli mangiamo insieme a Eket in Nigeria, non è stato per niente facile e soprattutto non è stato indolore.

Mia madre se ne va a soli 53 anni per un cancro e per me, a 23, fare a meno di lei è difficilissimo. Mio padre ha già i suoi problemi e non si accorge che quel lutto mi sta portando alla deriva. Non riesce a capire che lei è stata una guida, una luce, e che una parte importante di me vorrebbe morire. Forse nemmeno io mi accorgo in tempo di essere schiacciata dal peso di quella perdita, dal dolore e dalla rabbia. Senza saperlo vago nei meandri di una depressione che, a poco a poco, spazza via, insieme alla forza di volontà, tutti i miei sogni, Africa compresa. Tutto quel dolore me lo sono tatuato addosso e me lo porto in giro sulla pelle anche oggi, come fosse una medaglia. Perché è da lì, da quel fondo nero che a poco a poco sono ripartita.

Nel 2008 ho da poco traslocato da Frederikshavn ad Aahus per iniziare una nuova vita. Ho un buon lavoro come vetrinista in un negozio di abbigliamento e le cose apparentemente non vanno poi tanto male. Ma ci vuole un attimo a far volare in pezzi quel mio nuovo inizio. Un giorno, in un attimo appunto, la voce di uno speaker alla televisione cattura la mia attenzione e la focalizza sulle immagini di un documentario. Eccola di nuovo davanti a me, dentro uno schermo televisivo, l’Africa con i suoi bambini e in tutta la sua magnificenza e crudeltà: è tornata per scuotermi dentro, per scioccarmi fino in fondo all’anima tanto da togliermi il respiro.

Quel giorno, guardando il documentario, per la prima volta scopro atrocità tanto indicibili quanto incomprensibili, perpetrate su creature innocenti colpevoli solo di essere considerate dalla propria famiglia e dai membri del loro villaggio dei bambini stregoni. Mi sento mancare. Questi piccoli vengono abbandonati, picchiati, scacciati e lasciati morire di fame e di stenti. È vergognoso che nessuno al mondo reagisca di fronte a tali atrocità, che nessun leader mondiale voglia porre fine a un simile abominio. So che le cause di morte in Africa possono essere tante: fame, malattie, carestie, guerre. Ma per me è incomprensibile che la superstizione e l’ignoranza mietano altrettante vittime. Orribile. Sento una rabbia antica risvegliarsi dentro e per placarla so che prima di tutto devo capire, conoscere a fondo il fenomeno e rendermi conto se è tutto vero. Purtroppo, nel giro di poco mi tolgo ogni dubbio. Tutta quella follia esiste davvero. Le accuse di stregoneria sono un problema in continuo aumento nei Paesi africani, soprattutto in Nigeria. Secondo le credenze tradizionali, tutto ha una causa soprannaturale. Per questo, quando in una famiglia il raccolto non è sufficiente, o qualcuno perde il lavoro, o un membro è colpito da infertilità, malattia o addirittura morte, si arriva a pensare che sia stata lanciata una maledizione. Da chi? Dai più deboli e indifesi, da coloro che non hanno nessuna voce in capitolo e sono il perfetto capro espiatorio.

Quando scopro che solo nel 2008 si stima che oltre 15000 bambini negli stati nigeriani di Akwa Ibom e Cross River siano stati torturati e uccisi perché accusati di stregoneria sono sopraffatta, schiacciata da questi numeri. Tutto ha un limite e qui andiamo ben oltre. Questo mi basta per rimettermi in moto e trasformare rabbia e indignazione in azione. L’Africa riprende così a buon diritto il posto che ha sempre avuto nel mio cuore attirandomi con maggior forza verso di lei. Ora so che il mio viaggio è cominciato.

Ricordo bene le mie prime esperienza come volontaria con la DanChurchAid, un’organizzazione non governativa danese, prima in Malawi poi in Tanzania. Sono alle prime armi, tra le tante mansioni mi occupo di bambini di strada e la cosa più importate per me è che comincio a farmi le ossa sul campo, inizio a sentire che tutto ha un senso e va nella direzione giusta. L’esperienza di quei due anni è intensa e proficua e soprattutto mi dà il coraggio necessario per fondare una mia Ong. Nasce così “DINNødhjælp”, che in danese significa “Il tuo soccorso”. È attraverso la sua rete di contatti che mi rendo conto di come la condizione dei bambini stregoni è ancora pressoché sconosciuta. Questo per me è senz’altro un ottimo motivo in più per fare qualcosa per loro. Così nel 2011 decido di rischiare il tutto per tutto. Metto in vendita ogni cosa di mia proprietà, chiudo con i ricordi della mia vita precedente e mi motivo a provare a fare davvero la differenza. Mi trasferisco definitivamente in Africa.

In poco tempo quel Paese immenso mi assorbe con tutto se stesso, come d’altronde solo lui sa fare. L’Africa calda e dura da allora mi ha sempre messa alla prova ogni giorno, ma, insieme ai mille problemi e alle difficoltà iniziali, mi ha fatto anche un grande regalo, David. Con i suoi occhi neri, profondi si presenta sfoderando sorrisi bianchissimi e soprattutto mi capisce al volo. Laureato in Giurisprudenza all’università di Uyo, si occupa dei diritti dei bambini da diversi anni. Fin dall’inizio siamo in sintonia. Approva in pieno il mio progetto di creare qualcosa di stabile dove accogliere i bambini considerati stregoni, abbandonati dalle famiglie per strada e lasciati lì a morire solo per la folle credenza che siano in grado di fare malefici. Al tempo stesso David mi coinvolge nel suo percorso che mira a favorire la crescita culturale di tutta la comunità nella tutela dei minori.

È facile innamorarmi di lui e della sua determinazione. Da quel momento, prenderci per mano e avanzare su un cammino comune è davvero un attimo.

Il 2012 ci vede insieme. E insieme decidiamo di aprire la succursale della mia Ong in Nigeria. Oggi il suo nome danese è stato sostituito da uno inglese, così che tutti possano capirlo, soprattutto i bambini. Land of Hope (Terra della Speranza) perché di questo si tratta: dare una speranza a tanti innocenti. David e io ci diamo da fare, raccogliamo fondi, lavoriamo sodo per rendere concreto il nostro sogno. Perché Land of Hope, come dice il suo stesso nome, ha bisogno di terra, di spazio, di verde, di case: quando finalmente riusciamo a comprare un lotto di terreno di tre acri, quasi ci viene da piangere. Nella nostra mente già lo vediamo finito: il grande cancello, il prato, le case, la scuola, la mensa. La nostra associazione a poco a poco prende vita per accogliere chi, tutto questo, non l’ha mai avuto. Così abbiamo finalmente un posto per i nostri bambini. E quando hai un posto, quando la realtà chiama altra realtà, tutto il resto viene da sé. Infatti nel 2013 arriva il nostro primo bambino, Victor.

Credo di essere pronta, in fondo ho già lavorato con i piccoli di strada in Malawi e in Tanzania. Ma non è così. Victor è accusato di stregoneria dal suo patrigno. Quell’uomo lo ritiene la causa di tutti i suoi problemi, lo ha picchiato e ha tentato di ucciderlo più volte. Ma Victor è riuscito a scappare e ha provato a sopravvivere elemosinando cibo e nascondendosi nel sottobosco di notte per non essere catturato e pestato. I linciaggi sono comuni e lui lo sa anche se ha solo nove anni. Victor sa anche che sua madre non può difenderlo, è sorda e troppo debole. Quando lo vedo di fronte a me non ha segni visibili di abuso, o ferite sanguinanti, è solo un mucchio di vecchi stracci che coprono un corpo secco con un paio di scarpe lerce. Sono quelle a rimanermi impresse perché è lì che fisso i miei occhi per non perdermi in quelli disperati e pieni di paura del bambino, i più spaventati che abbia mai visto. Ammetto che è uno shock.

Da quel momento sono proprio i suoi occhi a spingermi a cercare ovunque questi bambini in una corsa contro il tempo. David e io capiamo che, se vogliamo davvero salvarli, dobbiamo lavorare su più fronti. Prima di tutto abbiamo bisogno della collaborazione della comunità locale per essere avvertiti di ogni abbandono in tempo reale. Può sembrare un controsenso, ma sappiamo che è davvero l’unica alternativa. In effetti, la stigmatizzazione dei bambini stregoni è un fenomeno relativamente recente nella regione del delta del Niger, esploso improvvisamente negli anni Novanta. Prima di allora, le donne anziane erano il bersaglio principale delle accuse di stregoneria. Comunque è una superstizione che si è andata radicando molto velocemente. Iniziamo a incontrare gli abitanti dei villaggi e a impostare un piano di comunicazione per creare fiducia con l’obiettivo di cambiare la loro mentalità per il bene dei più piccoli.

Da allora non abbiamo mai smesso perché la lotta all’ignoranza e alla superstizione va fatta all’origine, tra la gente, in quei villaggi che il governo centrale ha abbandonato a loro stessi e alle loro credenze tribali. In realtà, il Codice penale nigeriano proibisce di formulare qualsiasi accusa, o addirittura qualsiasi minaccia verso qualcuno accusandolo di essere una strega o uno stregone; in più il Child Rights Act del 2003 definisce reato sottoporre un bambino a tortura fisica, o emotiva, o fargli subire trattamenti disumani, o degradanti. Ma i 36 stati nigeriani hanno la possibilità di emanare leggi autonome adatte alle loro specifiche situazioni rendendo così difficile criminalizzare tali atti che continuano indisturbati sotto il naso dei governanti e della polizia. E non è tutto. David e io sappiamo che alcune forme di cristianesimo pentecostale in Nigeria si mescolano con credenze tribali locali e diventano un cocktail esplosivo che favorisce la credenza nei malefici e nell’esorcismo. A questi poi si aggiungono i messaggi contenuti in alcuni film della cosiddetta “Nollywood”, la Hollywood nigeriana in piena espansione: il risultato è che la bomba del pregiudizio è pronta a esplodere in tutta la sua virulenza. Questi film diffondono immagini di bambini stregoni cannibali, impegnati in complotti per uccidere i loro genitori, e sono visibili ovunque: nei saloni di bellezza, nei bar, nei ristoranti, sugli autobus. Non fanno altro che accrescere un’assurda visione negativa dell’infanzia, alimentando la superstizione e, ancor peggio, spingendo a uccidere migliaia di bambini.

Oramai ci è chiaro: il lavoro è tanto, sia da un punto di vista culturale nei confronti delle tribù e dei rappresentanti governativi, sia da quello pratico. Sì, perché Victor intanto cresce, ha bisogno di noi e, come lui, gli altri bambini che ora sono a Land of Hope. Per noi non è sufficiente offrire loro una casa, cibo e cure mediche: oltre a questo è fondamentale assicurare un’istruzione per accrescere l’autostima e la fiducia in loro stessi. Li spingiamo a diventare i protagonisti del loro destino preparandoli a svolgere un ruolo attivo nello sviluppo della comunità, dunque anche nella lotta alle superstizioni. Victor, che è stato il nostro primo figlio, ne è l’esempio. Abbiamo lavorato tanto su di lui, sulla sua stima, sulla sua sicurezza e, dopo aver affrontato tante sfide, oggi è cresciuto ed è diventato un teenager forte e indipendente. So che, a dispetto di tutti, conquisterà il mondo. E sono bastati solo amore, fiducia e speranza.

La parola Hope per me è un acronimo che significa Help One Person Everyday, cioè “Aiuta una persona ogni giorno”. Per noi è sempre stato così, senza smettere un attimo e soprattutto senza particolare clamore. Fino al giorno in cui sulla nostra strada, il 30 gennaio del 2016, incontriamo un bambino di due anni: è pelle e ossa, emaciato, emarginato; nessuno lo tocca, nessuno lo vuole perché ritenuto uno stregone. Ma soprattutto è in fin di vita. Gli offro dell’acqua e dei biscotti.

Qualcuno del nostro team ci fotografa così: lui proteso verso l’acqua, io accucciata a terra davanti a lui; lui piccolo e nero, io bionda, pallida e piena di tatuaggi. La foto diventa virale. Di colpo noi diventiamo virali. Un messaggio, un simbolo. È così che usciamo dall’anonimato. Grazie a un’immagine, ma soprattutto grazie alla tenacia di quell’esserino ridotto a niente. Tanto che, quando salgo in macchina, sono quasi certa che non possa sopravvivere. Dico a David che voglio dargli un nome perché, se è destino che se ne vada, lo deve fare con un nome, con dignità. Così lo chiamo Hope perché la speranza è la sola cosa che ripongo in lui in quel momento. Invece lui ci stupisce e sopravvive. Oggi, scorrazza con Victor e gli altri bambini nel giardino di Land of Hope. Quando ci chiedono com’è diventato, mostro la sua foto con orgoglio, come faccio con quelle degli altri, sorridenti e con la luce del futuro negli occhi.

È vero che l’Africa prende molto, è una madre dura e generosa nello stesso tempo, ma non lesina in doni. Non lo ha mai fatto. Proprio come mia madre. Qui, nel nostro Land of Hope – Children Center, regala sorrisi e amore in abbondanza a me e a mio marito che, con il nostro staff, cresciamo David jr. insieme agli altri nostri 74 bambini. Tutti, uno per uno, doni incommensurabili.

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