Uno spazio per te


Quello che credi non potrà mai succedere

di Barbara Cerrone

Quello che credi non potrà mai succedereBarbara CerroneQuello che credi non potrà mai succedere, a volte ti aspetta nascosto in un angolo buio della tua vita.Cammini tranquillo, con l’andatura di chi sa dove andare, il solito percorso e poi arriva. Un inciampo, una svolta e cambi itinerario. Senza sapere come, ti ritrovi da un’altra parte.Era nell’età in cui i segni del tempo hanno già lasciato tracce di sé sul corpo e nell’anima.La pelle, per quanto ancora liscia, aveva perso un po\' della sua compattezza, i lineamenti del volto dolcemente rilassati, gli occhi che erano stati grandi, rimpiccioliti, come ingoiati dalle occhiaie scure che li circondavano. Si intuiva ancora la bellezza dell’età giovanile, ma era il passato. A sessant’anni il suo futuro si chiamava vecchiaia. Non c’era ritorno, la sua vita non poteva più tornare indietro.“Sono vecchia”.Il ragazzo apparve in ufficio così, da un giorno all’altro, stagista come tanti altri. Non era niente di speciale, un venticinquenne pieno di vita e di speranze. Alto, snello, con due occhi azzurri vivissimi e stretti come fessure che quando rideva parevano scomparire del tutto nel volto magro. Faccia mobile ed espressiva da bravo ragazzo, e ottime credenziali.Salutava con educazione e distribuiva sorrisi discreti, non esagerava mai nei complimenti e sapeva stare al suo posto. Un posto da stagista.Portava sempre jeans e camicie sportive, non gettava occhiate alle ragazze in ufficio, sembrava concentrato solo sul lavoro. Fuori da quelle mura la sua vita era un mistero, non si confidava con nessuno, nemmeno con i suoi coetanei, se faceva due chiacchiere durante la pausa era solo per parlare del più e del meno, oppure di lavoro, mai di sé. Mai di cose personali.In fondo piaceva proprio per la sua discrezione, il titolare lo aveva adocchiato, diceva: “Quel tipo mi piace, può darsi che l’esperienza non finisca qui”.In ufficio qua e là si facevano dei commenti su di lui, soprattutto le ragazze, lo giudicavano carino, qualcuna tentava di agganciarlo ma più di un sorriso, più di una frase di cortesia non raccoglieva.“Forse ha già una ragazza e le è fedele”.Nessuno sapeva, nessuno lo conosceva abbastanza da sapere. Così, piano piano, il suo mistero dalla faccia allegra fu accolto e accettato come un dato di fatto.Non lavoravano nello stesso ufficio ma un giorno una collega disse al ragazzo che per sciogliere un dubbio, per capire un passaggio del lavoro che stava facendo in quel momento, poteva senz’altro rivolgersi a lei. Era una donna cortese e disponibile, con una grande esperienza, lo avrebbe aiutato, gli avrebbe mostrato il modo più semplice per raggiungere il suo obiettivo.Lui l’aveva incontrata solo alle riunioni settimanali, non la conosceva, non si conoscevano. Un pomeriggio si fermò più a lungo in ufficio, vide la luce da lei e bussò, si affacciò timidamente alla porta e chiese se la collega l’aveva avvisata, se sapeva già che aveva bisogno del suo aiuto. Sapeva. Si sedesse pure, gli avrebbe illustrato i passaggi da fare.Lui si sedette accanto a lei, proprio al suo fianco. Guardava lo schermo con attenzione, mentre lei scriveva. Guardava lo schermo e guardava lei, di sottecchi. Fu solo questo, ma fu l’inizio.Lei ci pensava, lui ci pensava. Cosa era successo nessuno dei due voleva saperlo, eppure era successo e niente era più come prima.“Assurdo”.Dopo quel pomeriggio lei fece di tutto per evitarlo, lui per incontrarla ancora. Lei si faceva negare in ufficio, accampando questa o quella scusa, chiedeva alla sua compagna di stanza di mentire dicendo ora che era in archivio, ora che era al bar o dal capo.Lui la cercava, quando non era nella stanza se ne andava subito, quando la trovava in compagnia della collega faceva un saluto frettoloso e via. Quando era da sola non riusciva ad andarsene, lei non lo guardava perché non leggesse nei suoi occhi quanto era sconvolta. Quanto tremava.Il marito era ancora un bell’uomo, aveva conservato il fisico asciutto della gioventù, era affascinante e, quel che più conta, le era devoto e, credeva, fedele.Non avevano avuto figli ma sulla loro unione nessun dubbio, nessuna ombra possibile tranne quello sguardo azzurro e vivace, quegli occhi in attesa.Era un ragazzo, solo un ragazzo. Lei non capiva come potesse accadere.Non era successo nulla, solo uno sguardo di troppo, un’ansia nel cercare un contatto. “Forse l’ho solo immaginato”.Di certo si trattava di una fantasia, lui non pensava a lei, era un frutto stravagante della sua immaginazione.Ma negli occhi lui aveva qualcosa di inesorabile, nell’azzurro una determinazione. Lei sapeva reprimere i suoi sentimenti, non avrebbe potuto reprimere quelli di lui.I giorni passavano e lei ci pensava ancora, come un’adolescente pensa al ragazzo che le piace. Non era il brivido della sensualità, era il romantico trasporto di una ragazzina. L’avrebbe detto amore ma non poteva.“Sono ridicola”.Lui continuava ad affacciarsi ogni giorno in ufficio, lei, quando non riusciva a scappare gli sfuggiva con lo sguardo. Lui la inseguiva con il suo.Era solo questione di tempo: lui lo sapeva, lei lo sapeva. Sarebbe successo, con quella tensione emotiva fra loro, con quel bisogno non detto l’uno dell’altra. Aveva del lavoro arretrato da sbrigare, ancora una volta si trattenne in ufficio oltre l’orario. Sperava che lui se ne fosse già andato, sperava che non la cercasse. Quando vide la sua testa infilarsi dalla porta semiaperta sussultò, lui sorrise, quasi per rassicurarla, e cominciò a parlare. Prima del tempo, del lavoro, delle ferie imminenti. Poi di sé. Lei ascoltava senza parlare, ad un certo punto guardò l’orologio con un gesto d’impazienza come per dire: “Si è fatto tardi, devo andare”, lui capì e si congedò con uno sguardo che era una carezza.Quella sera lei tornò a casa, da suo marito, confusa e silenziosa, lontana. Suo marito se ne accorse e la lasciò in pace, era un uomo che sapeva rispettare i silenzi.Ci furono altri giorni così. Lui entrava nel suo ufficio quando era da sola e le parlava, finché venne il giorno in cui anche lei parlò e gli disse di sé, della sua vita, dei suoi sogni. Lui l’ascoltava fissando gli occhi nei suoi, erano già uniti e lo sapevano.Non ci volle molto perché un abbraccio, un bacio prendesse il posto delle parole. Non ci volle molto perché diventassero amanti nella stanza color caffellatte di un affittacamere poco lontano. Pensava che lui poi non l’avrebbe più cercata, il capriccio di un momento.“Sei così giovane”.Invece lui la cercò ancora, diceva di amarla. Dicevano di amarsi e si vedevano come due ladri, di nascosto.Col marito era più tenera che mai, aveva un peso sul cuore, un senso di colpa verso quell’uomo mite e gentile che cominciava a sospettare qualcosa. Troppe volte tardava, troppe volte tornava col viso sconvolto, distogliendo lo sguardo. Era sua moglie, la conosceva, e ora non era più lei.Un pomeriggio decise di sapere, di farsi male ma di sapere. Si mise in attesa sotto l’ufficio e seguì la moglie fino all’affittacamere. Vide lui che l’aspettava, imprudente, davanti alla porta. Lui che l’abbracciava e le circondava la vita mentre lei si guardava intorno, spaventata. Li vide entrare insieme, come due innamorati, e non ebbe bisogno di altro. Non gli restava che andarsene da lì, via dal dolore e dalla rabbia che sentiva.Quando lei tornò a casa, trovò solo un biglietto e l’armadio aperto, vuoto dei vestiti di lui. “Mi fai schifo”.Il biglietto non diceva di più, non c’era bisogno di sapere cos’era successo. Neanche il modo di spiegare, di giustificare, se mai si poteva spiegare e giustificare. Sentì una voragine aprirsi sotto di sé, suo marito, la sua bussola nella vita non era più accanto a lei. Era come avere una sola gamba sulla quale reggersi: ora era sola.Chiamò il suo amante bambino, piangeva e raccontava, lui disse che in fondo era meglio così: finalmente potevano amarsi senza nascondersi, vivere insieme. Parlò addirittura di matrimonio.“Sei pazzo”.Lei sapeva che il tempo le era nemico.Lui voleva che andassero a vivere insieme, a lei mancava il coraggio. Non voleva che in ufficio sapessero, temeva sguardi ammiccanti e frecciatine, ironia cattiva contro una donna che si metteva con un ragazzino che per età poteva essere suo figlio. Lui, sfrontato e sicuro, diceva che non gli importava ma rispettò la sua volontà e, quando finì lo stage, cercò lavoro altrove.Quando passeggiavano insieme per le strade della città, lui la baciava quasi con ostentazione, lei si ritraeva, spaventata da sguardi indiscreti, impietosi. Così le pareva fosse il giudizio della gente sul suo rapporto, su di lei. “Che importa? Noi siamo felici e basta”.Per lui era tutto facile, non era lui il vecchio.Dopo qualche mese, lei accettò l’idea della convivenza. Trovarono un appartamento in affitto in una stradina del centro, cominciò così la loro vita comune, come una coppia qualsiasi.Lui riempiva d’amore la sua vita, lei pensava al giorno in cui l’avrebbe vista per quello che era.“Una mattina ti sveglierai e ti accorgerai di avere accanto una vecchia”.Lui scuoteva la testa e l’accarezzava ma lei aveva brividi lungo la schiena, e sempre quell’unica, debole gamba sulla quale tenersi in piedi. A volte, al mattino, svegliandosi di soprassalto dopo un brutto sogno, guardandosi intorno si chiedeva, spaventata: “Dov’è mio marito?”

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